Prendendo spunto da Goethe, "maestro del dire essenziale", Handke propone in questo poemetto una sua personale ricerca sul concetto di durata, l'entità che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi. Connessa al ripetersi degli eventi quotidiani, ma al contempo svincolata dalla permanenza in luoghi o itinerari consueti, la sensazione della durata è l'esito della fedeltà a ciò che l'individuo sente come più profondamente proprio: fedeltà al divenire di una persona, fedeltà a "certe piccole cose" che ci accompagnano "in tutti i traslochi", fedeltà infine a determinati luoghi, un lago, una piazza, una sorgente alla periferia di Parigi. La durata tuttavia non esiste a priori, bisogna cercarla, andarle incontro, trovare un punto di mai definitiva, instabile quiete. La poesia - dice Handke - è uno dei migliori supporti in questa ricerca interiore. Ed è dunque naturale che questo libro di meditazione filosofica sia stato scritto in versi, quasi per bussare alla porta di quella condizione sapienziale tipica della poesia di ogni tempo.
Carlo Porta è uno dei piú grandi poeti italiani, e anche uno dei meno letti perché ha scritto i suoi versi in dialetto milanese, difficile ormai per gli stessi milanesi, e per i non milanesi quasi una lingua straniera che non si sa neppure come pronunciare. E sí che è un poeta molto divertente, molto narrativo: come ha scritto Raboni, «Porta e Belli non sono stati "soltanto" dei grandi poeti; sono stati anche - all'insaputa dei loro contemporanei e, forse, di loro stessi - i nostri Gogol¿, i nostri Dickens, i nostri Balzac». Dunque questo libro nasce dal desiderio di far conoscere Porta al di fuori della cerchia dei filologi e degli specialisti in cui è finito. E nasce soprattutto dalla grande passione portiana di Patrizia Valduga, che ha selezionato i testi piú belli del poeta milanese e ha saputo riprodurne in italiano il verso e le rime mantenendone la straordinaria espressività.
«Vorrei evitare ai futuri milanesi la disgrazia di non poter piú comprendere e gustare Carlo Porta».
Carlo Dossi, Note azzurre
La bambina pugile è tornata. La riconosciamo, la ritroviamo con la sua insonnia, la sua febbrile sensibilità, le sue debolezze e la sua incredibile forza. La seguiamo in un percorso poetico che evoca una sorta di narrazione emblematica. Si parte dalla casa. La vita di una persona emana dagli spazi dove è cresciuta. Portone, finestre, pavimenti, muri, scrivania, frigo, letto e cosi via: la bambina è come diffusa nelle cose, negli oggetti che l'hanno accolta. Poi esce nel mondo e deve inventarsi gli strumenti per percepirlo. Il libro diventa un viatico per «saper leggere le stelle - ma non la grammatica». O forse, più che guardare il mondo con occhi diversi, il passo ulteriore è essere il mondo: essere piuma, essere nuvola, essere luce. Infine c'è chi cade, tutti prima o poi cadono, ma nessuna caduta impedisce di «farsi vivi». Al di là di questo traliccio strutturale, la raccolta è molto fluida e per niente schematica. Nodi irrisolti si alternano e si intrecciano con un'esperienza mistica quotidiana, mite, senza enfasi di spossessione. Quella particolare voce, come d'infanzia, che già abbiamo conosciuto via via nei libri precedenti dell'autrice è ormai un meccanismo ad alta precisione con il quale Chandra Candiani riesce a far affiorare nella maniera più efficace ciò che non è visibile.
Enzensberger è autore poliedrico: saggista, pamphlettista, romanziere, scrittore per l'infanzia, memorialista. Però forse i suoi libri entrati più vigorosamente fra i classici del Novecento sono quelli di poesia. E "Mausoleum", uscito in Germania nel 1975, è una pietra miliare del suo itinerario poetico. E un libro costituito da trentasette ballate dedicate ad altrettanti personaggi che hanno fatto, come dice il sottotitolo, «la storia del progresso»: da Giovanni de' Dondi che nel Trecento costruì l'orologio di Padova a un altro italiano, Ugo Cerletti, che sei secoli dopo inventò l'elettroshock. In mezzo: Campanella, Leibnitz, Linneo e tanti altri pensatori e scienziati. Se già Leopardi diffidava delle «magnifiche sorti e progressive» del mondo, Enzensberger ha uno sguardo ancora più perplesso sulla modernità. Per lui l'aspirazione al dominio totale della natura ha creato un modello destinato a portare l'umanità al disastro. E a volte ha forgiato un tipo di scienziato squilibrato, sadico, dai deliri onnipotenti, come quello della ballata dedicata a Lazzaro Spallanzani che si eccitava compiendo mostruosità sugli animali «a fini di studio».
Soltanto un poeta poteva compiere oggi l'azzardo di una lode del mondo, basata sull'immaginazione e sulla sensibilità. Tornando alla forma già sperimentata del poemetto, Franco Marcoaldi sviluppa un flusso verbale dal ritmo incalzante che orchestra i temi della vita quotidiana e dello spirito in un rimando continuo dall'universo naturale al mondo storico, dall'autobiografia alla letteratura in una libera e viva scorribanda nei territori del pensiero analogico. All'apparenza "II mondo sia lodato" è una preghiera laica di intonazione francescana sulla bellezza e la meraviglia del creato. In realtà Marcoaldi loda il mondo nonostante gli infiniti turbamenti in cui incorre chi lo abita, e proprio quel nonostante è l'anima nascosta del libro. Nel suo procedere, il poemetto attraversa l'amarezza delle cose umane nella loro vicissitudine di violenza, malattia, depressione, morte, ma incontra anche il demone erotico, e con esso il sogno, la fantasia, e i libri e le figure del passato che illuminano il presente. Se l'invocazione di lode resiste come un mantra è per lo sforzo generoso di una pietas consapevole e di un'attenzione costante alle pieghe infinite e alle corrispondenze sotterranee dell'esistenza. Cosi il poemetto che loda il mondo si fa mondo, e convoca in coro altre voci, altri poeti, altri pensatori, in una ridda di rimandi e citazioni che immancabilmente si accordano nell'antifona ricorrente: "Mondo, ti devo lodare". Espressione di umiltà e gratitudine nei confronti della vita.
"Con il Porta comincia, nella poesia italiana, quella linea lombarda, potentemente realistico-narrativa e, per così dire, antipetrarchesca, che si ritrova anche all'interno della poesia del Novecento e che è l'unica della quale io aspiri a far parte, nonostante i molti debiti che so di avere nei confronti di altri poeti, da Baudelaire (che considero il più grande poeta moderno) a Pound (che considero il più grande inventore di possibilità poetiche del nostro secolo), - e poi, per venire a nomi più vicini o addirittura vicinissimi, quasi fraterni, a Rebora, a Montale, a Saba, a Sereni. (...) Parlando dei temi portanti del mio lavoro di poeta, ho finora ricordato l'importanza e il fascino per me del racconto evangelico, ho ricordato le storie familiari, ho ricordato il rapporto con gli scomparsi persone care, amici -, ho ricordato l'irruzione a un certo punto del tema amoroso. Non ho parlato di quello che molti ritengono abbastanza importante nella mia esperienza poetica, cioè il cosiddetto tema civile. Alcuni critici l'hanno messo addirittura al primo posto fra i temi della mia poesia. Di solito, quando mi chiedono cosa penso di questo aspetto del mio lavoro, dico che, sì, le poesie civili sono forse le più private che io abbia mai scritto, nel senso che non ho mai voluto essere un poeta civile. Non lo dico per polemica, ma insomma c'è stato più d'un poeta, per esempio Pasolini, che ha voluto essere poeta civile..." (da Giovanni Raboni, 'Autoritratto' 1977, 2003)
"La bizzarria si scosta dalla consuetudine. L'imbizzarrito è uno sconosciuto capitato per sbaglio a una festa di nozze. Cosi furono i profeti della scrittura sacra. Abramo si sradica da casa, patria, affari, raggiunto da una voce a lui solo rivolta. È un ordine: "Vai vattene", lo avvia a un vagabondaggio senza fine. Per singolare sigillo dell'intesa si circoncide il prepuzio, da se stesso. Non per mutilazione, ma in segno di apertura. Poi salirà su un monte per scannare suo figlio, dietro richiesta assurda. Poi si farà fermare a coltello sguainato sulla gola. È raffica di mosse infervorate dall'obbedienza alla voce. Abramo è banderuola di una sola brezza. Per molto meno di un ascolto simile, dei poeti, variante minore di profeti, Hölderlin, Walser, si avvitarono in un silenzio impenetrabile, nella tenuta stagna di un isolamento. Sentivano le voci, un parlottio di sala da teatro prima dell'alzata del sipario. Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra. "Navigare es preciso", dicono i Portoghesi, dove "preciso" sta per obbligatorio. Cosi è la bizzarria della provvidenza, la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri. Gli imbizzarriti di queste pagine sono esploratori." (Dalla premessa)
Le poesie di Chandra Livia Candiani si rivolgono spesso a un tu variabile, che di volta in volta si riferisce a persone presenti o assenti, prossime o lontane nello spazio e nel tempo, o ancora: comunità in potenziale ascolto, entità non individuabili, la morte, parti dell'io poetante ("Io ti converto in fame / mio silenzio"). Ma questo tu assomiglia molto a un noi creaturale che accomuna dèi, uomini e cose in una sorta di fratellanza universale in cui l'insistenza pronominale funge più da invocazione che da individuazione. O da "istruzioni per l'uso", come nella splendida "Mappa per l'ascolto" ("Dunque, per ascoltare / avvicina all'orecchio / la conchiglia della mano") o la corrispondente "Mappa per pregare". Della stessa serie "pedagogica" è la strofa di "istruzioni per abbracciarsi" che abbiamo messo in copertina. Chi parla, in questi casi, è una voce sapiente ma non saccente, un soffio leggero con la forza di un vento impetuoso: il risultato di una miscela di linguaggio quotidiano e metafore evocative, colloquialità e schemi anaforici sacrali. Nel libro ci sono anche poesie sulla parte infantile di sé (secondo lo schema io-tu-noi-tutti) da coltivare o recuperare, poesie sul silenzio, sul desiderio; bellissime quelle sul lutto, declinate in varie fasi della raccolta, che sembrano contenere il massimo di precisione proprio quando i rapporti tra presenze e assenze sembrerebbero entrare nelle zone della vaghezza e dell'oscurità.
A otto anni dall'uscita di "Disturbi del sistema binario", la nuova raccolta di Valerio Magrelli si presenta estremamente articolata rispetto alla precedente. Diviso in dodici sezioni e in due metà di 55 poesie ciascuna, "Il sangue amaro" affronta un ampio ventaglio di argomenti. Si va da poesie su artisti, poeti o amici, a una sorta di iper-testo sul tema della lettura, dalla ripresa dell'antico genere dei calendari, al poemetto "etologico" "La lezione del fiume". A ciò si aggiungono versi civili ("Cave!" e "Il Policida"), che si alternano ora a parti più lievi ("Piccole donne" e "Paesaggi laziali") ora a un'approfondita riflessione intorno al rumore, alla musica, all'acustica ("Otobiografi"). Un caso a sé è costituito dalla forte presenza religiosa che si ritrova, sia pure in una prospettiva critica, nelle composizioni dedicate all'immagine del Natale o al dibattito sull'eutanasia. Il cuore del libro, però, va individuato nel capitolo ispirato al motto paolino, e poi kierkegaardiano, di "Timore e tremore". E questa infatti l'impronta di una scrittura segnata da quella "età dell'ansia" che, sebbene covi ormai da lungo tempo, non è evidentemente ancora giunta alla sua piena maturazione.
I versi di Roberta Dapunt, che alternano parole e silenzi in modo così semplice e così sapiente, sono sempre un dialogo col sacro, un sacro che si manifesta nei misteri del quotidiano. E il primo mistero di cui si tratta in questo libro è la demenza, il malato di Alzheimer, una forma di Altro inconoscibile, sospeso in un luogo apparentemente metafisico, ma nello stesso tempo persona, corpo, snodo di concentrazioni affettive. Ecco dunque il continuo dialogo con Uma, che in ladino significa madre ma che l'autrice usa come nome universale, una chiamata, una sorta di tu che sintetizza esperienze diverse, sue e di tanti. E questo incontro, questo accudimento diventa percorso di conoscenza di qualcosa che non si può conoscere. Un percorso difficile e doloroso che non manca di "beatitudini", una forma di misticismo riflesso dove il vero mistico è il malato, che si può soltanto interrogare senza avere risposte, che si può soltanto accostare con amorosa ritualità.
Due volumetti di versi giovanili, col titolo "Nuovi Salmi" (1955 e 1957), aprono il cammino di poesia in proprio di Guido Ceronetti. Nel 1965 uscì presso Tallone una tiratura per bibliofili della "Ballata dell'infermiere"; nel 2008 il Notes Magico ne pubblicò tutte le ballate ("Le ballate dell'angelo ferito"). Tra il '55 e oggi è passato più di mezzo secolo, un periodo in cui, oltre ai suoi libri in prosa, al teatro e alle traduzioni, Ceronetti ha scritto più di cinquemila versi seguendo un personalissimo percorso poetico. Questa antologia propone una selezione di quanto all'autore stesso sembra la migliore testimonianza del suo assiduo formulare "qualche ideogramma di compassione, di ricordo e di desiderio della luce". Come già per "Trafitture di tenerezza", che raccoglieva il meglio delle traduzioni poetiche di Ceronetti, anche questo libro concentra fin dal titolo aggressività e umiltà, forza e delicatezza. Perentorio ed evanescente come un messaggio in bottiglia. D'altronde per Ceronetti la parola poetica è al contempo ri-chiesta d'aiuto e offerta (a tratti, ma significativa) di salvezza.
Il percorso poetico di Zanzotto, fondamentale nella poesia italiana degli ultimi cinquant'anni, ha saputo recuperare lingue, forme e culture più o meno defunte rivitalizzandole, come scrisse Fortini, in "un'oltranza informale, esorbitante, lacerante". "Filò", che ebbe inizialmente l'aspetto minore di un libro d'occasione, è in realtà la quintessenza, magari in una forma più cordiale rispetto ad altri libri, di questi elementi chiave della poesia di Zanzotto. Ciò che sembra ampiamente masticato dalla storia si riproietta in una forma sperimentale: passato e futuro si alleano per stanare il grumo oscuro e indifferenziato che abita sia l'inconscio soggettivo sia la sostanza panica del mondo. L'uso ampio del petèl, lingua infantile che ha la concretezza del parlato ma è anche piena di misteriosi richiami, porta la raccolta in questa direzione. Lo stesso felice sodalizio con Fellini è l'esito di una comune visione della storia e delle origini, il comune inseguimento di archetipi travestiti da fantasie private e viceversa. Riproporre questo piccolo grande libro a un anno dalla scomparsa del poeta vuole soprattutto essere un omaggio e insieme un invito a rileggere un autore tra i più affascinanti e vitali della poesia italiana. Con una lettera e cinque disegni di Federico Fellini. Prefazione di Giuliano Scabia.
Le donne nella poesia italiana contemporanea sono una presenza molto forte: dietro quella decina di autrici che tutti conoscono e molti amano c'è una ricchezza di voci emergenti di grande interesse e di sicuro valore. Questa antologia ne raccoglie dodici con la duplice intenzione: di farle leggere o rileggere a un giro di lettori abbastanza ampio e di confrontarle fra loro "a distanza ravvicinata", per vedere ciò che le unisce al di là dell'ineccepibile originalità delle singole scritture.
Un'edizione privata fatta col ciclostile per gli amici nel 1981. Si intitola semplicemente "Poesie" e ha tanto di copertina disegnata, prefazione, premessa, notizie bio-bibliografiche, indice finale, colophon. Insomma, quasi un vero libro. Sicuramente un libro d'autore, messo insieme e fortemente voluto dalla stessa Merini alternando poesie già pubblicate in precedenza con altre nuove. Una seconda raccolta del 1986, intitolata "Le satire", meno curata ma ugualmente confezionata e cucita per lo stesso tipo di udienza, proponeva invece poesie tutte inedite, non più riprese in altri volumi. Giuseppe Zaccaria ha recuperato questi due libri "fai-da-te" dal Fondo manoscritti dell'Università di Pavia. La loro pubblicazione in forma non clandestina amplia il corpus poetico della Merini (in una sua fase creativa, tra l'altro, molto proficua) e mostra la poetessa editor di se stessa, quando invece i suoi libri coevi o di poco successivi erano generalmente affidati a curatori esterni come Spagnoletti, Maria Corti, Raboni o Borsani. In appendice, sempre tratte da carte del Fondo manoscritti di Pavia, vengono pubblicate delle brevi prose tematicamente molto affini alle "Satire". Bozzetti di vita di quartiere dove la Merini disegna i personaggi che popolavano il variegato mondo intorno alla Ripa di Porta Ticinese, che era il suo mondo, a cui è voluta rimanere fedele fino alla fine dei suoi giorni.
Se è vero che ci sono libri, anche di enorme valore, che in breve tempo si cristallizzano in una posizione indiscutibile e tutto sommato fissa, come grandi luci sul viale della Storia, è pur vero che ce ne sono altri più a lungo renitenti a ogni esatta definizione critica, più a lungo dialoganti con l'inquietudine di nuovi, più giovani e più ignari lettori. La luce di questi libri è mutevole, più difficile da reggere, più lancinante e ingannevole. È una luce in cammino, che ancora non è stata interamente decifrata e addomesticata, e che per questo ci attrae, selvaggia e insinuante. È a questa famiglia di opere che appartiene forse Stella variabile, libro dolorosamente conclusivo, eppure anche fiduciosamente aperto verso un futuro che ancora non è del tutto maturato, e verso il quale ci invita a camminare.
Poesie religiose. Poesie d'amore. Si potrebbe dire: poesie religiose, ovvero poesie d'amore. E viceversa. Infatti, anche se il libro è diviso in due sezioni ben definite, le diverse fonti ispiratrici partecipano di una medesima accensione.
Anche quando evocano i desideri più profani, i versi di Alda Merini sono attraversati nell'intimo da un senso di perdizione assoluta e di ritrovamento improvviso, di morte e rinascita, di trascendenza irredimibile e di miracolosa congiunzione salvifica.
Reciprocamente i versi che ripercorrono le figure salienti della cristianità e le grandi narrazioni evangeliche insinuano nel discorso spirituale una corporeità fortissima, che si confronta con la più elevata tradizione mistica, aggiungendo quel tocco di devianza e di pensiero paradossale che è da sempre la cifra esemplare della poesia di questa autrice.
Un libro che raccoglie il meglio della più recente produzione di Alda Merini, confermando un'immaginazione poetica assai articolata, sempre vitalissima.
Quella di Galluccio è una poesia che tende a far affiorare "il lato rovescio del pensiero" attraverso vari modi: slittamenti semantici, spazi deformati, visionarietà onirica. In questo contesto entra in gioco anche una serie di metafore tratte dal linguaggio matematico che rimandano a un mondo di certezze e di perspicuità continuamente disatteso. Come nella poesia dedicata a Georg Cantor, vera e propria cerniera a metà del libro, dove alcuni aspetti di pensiero del grande matematico diventano l'occasione per una percezione diretta e acuta della complessità e del "confronto terreno fra infiniti". I versi di Galluccio muovono da una ferita esistenziale che trova espressione in varie forme di disagio quotidiano, dilatandosi e trasformandosi in simboli capaci di spostare verticalmente le immagini, le distanze, i nodi irrisolti. Senza fare esplicitamente una poesia metafisica, Galluccio recupera tutta la pregnanza di scorie e residui della realtà interiore ed esterna, come se il prolungamento di questi dettagli potesse condurre, non tanto a risposte pacificanti, ma a nuove domande, a nuovi problemi che nessun teorema sembra in grado di risolvere.
"Mario Luzi ha scritto nuove poesie fino agli ultimi giorni della sua vita, con un'energia e una luminosità invidiabili. Dopo "Dottrina dell'estremo principiante" (Garzanti 2004) Luzi stava cominciando a dare un qualche assetto a questi suoi ultimi versi e aveva fatto trascrivere a Caterina Trombetti, in sezioni distinte, trentacinque poesie, che costituiscono l'ultima serie di testi ordinata dall'autore, di cui si è avuto qualche anticipo su riviste e nell'antologia personale, allestita da Paolo Andrea Mettel in "Autoritratto" (Garzanti 2007). Insieme a questo gruppo "Lasciami, non trattenermi" (incipit della sua probabile ultima poesia) presenta altri inediti assoluti, scritti nell'ultimo anno, che si possono considerare in qualche modo "approvati": si tratta di vari testi, recuperati tra dattiloscritti e autografi - con evidenti segni di rilievo e di evidenza d'autore - e anche di una "parlata", ovvero una sorta di monologo, intimo e dolente, sulla propria vicenda coniugale, all'indirizzo della propria sposa, nel momento della sua irredimibile vecchiezza; una poesia, composta sul valico del 2002-2003, che - per mio tramite - volle affidare al figlio Gianni, con implicita destinazione postuma." (Stefano Verdino)
Con questa sua nuova raccolta Cesare Viviani fa un passo ulteriore nel percorso di ascolto e di meditazione che caratterizza i suoi ultimi libri. La forma è più immediata. Sono poesie brevi, con una sola voce, affabile e colloquiale anche nel proporre temi elevati, come i limiti dell'umano, la pulsione all'autenticità, il confronto con l'angoscia della fine. L'"invisibile" di Viviani non è qualche cosa di trascendente, ma è ciò che, innervato nella concretezza della natura, resta indecifrabile, incomprensibile, irriconoscibile. E dunque credere, più che l'oggettivazione di una fede, è rispettare, accettare, affidarsi alla vita. In questi versi diretti e spesso sorprendenti per clausole inattese, la via maestra è l'umiltà: rinunciare alla presunzione umana significa trovare il giusto posto di se stessi e delle cose, e sapere che tutte le esperienze, anche quelle estreme, fanno parte di un ciclo e non hanno niente di eccezionale: sono natura. Sotterranea e parallela al discorso cosmico-esistenziale, scorre una riflessione poetica in cui il medesimo atteggiamento interiore vede con distacco ogni ironia narcisistica e abilità verbale: perché un animale nel suo habitat - dicono i versi di una poesia significativamente dedicata a Mario Luzi - è più vicino all'"invisibile" di qualsiasi ambiziosa invenzione letteraria.
Nel 1929, in piena crisi estetica ed esistenziale, Federico Garcìa Lorca va a New York, restandovi un anno. Lì, e nel viaggio di ritorno, durante una breve permanenza a Cuba, scrive una serie di poemi che costituiscono uno dei punti più alti, se non il più alto, della sua produzione letteraria. Fino alla sua morte nel 1936, Federico lavorerà a riordinare tutto il materiale, che verrà pubblicato solo nel 1940 con il titolo "Poeta a New York". Come scriveva Carlo Bo: "Se oggi abbiamo una certa idea di Lorca, non c'è dubbio che tale idea è stata autorizzata e consacrata dalla stagione americana e da un viaggio che ha avuto per regola lo spettacolo tradotto in termini drammatici di sangue e di morte. Un po' come dire: Lorca ha potuto mettere a punto col soccorso della sua New York i termini centrali della sua visione poetica".