La democrazia imperiale ateniese mirava al dominio commerciale nel Mediterraneo: donde la catena di conflitti in cui si impegnò contro i 'barbari', contro i Greci, contro i suoi stessi alleati. L'oligarchia spartana non accettava di vedere scosso il proprio tradizionale predominio. Gli Ateniesi pretendevano di esportare la democrazia imponendola con la forza innanzi tutto ai propri alleati. Gli Spartani proclamavano di portare la libertà ai Greci oppressi da Atene. La guerra - scrisse Tucidide - era inevitabile. Tutto era incominciato con la sfida ateniese a sostegno della rivolta antipersiana dei Greci d'Asia e con la risposta, vent'anni dopo e in grande stile, da parte del Gran Re volta a sottomettere, oltre ai Balcani, la penisola greca. E tutto sembrerà concludersi circa un secolo dopo con la «pace del Re». Una pace imposta ai Greci dalla Persia per il tramite della potenza militare spartana, cui l'aiuto del Gran Re aveva consentito di sconfiggere Atene. Il Gran Re lasciava intendere che solo il suo predominio avrebbe portato la pace ai Greci. E i Greci, finché non affiorò alla storia il regno macedone, la accettarono. Non a torto Arnold Toynbee definì la guerra tra Sparta e Atene «suicidio della Grecia classica». Una vicenda esemplare.
Nel 1848 la rivoluzione cominciò a Palermo e si diffuse subito in tutta Europa. Folle enormi si radunarono in nome della democrazia e dell'indipendenza nazionale in un flusso inarrestabile che cancellò, in pochi mesi, l'ordine politico che reggeva il continente dalla sconfitta di Napoleone. Alcuni governanti si arresero subito, altri combatterono aspramente, ma ovunque si fecero strada nuovi politici, nuove convinzioni e nuove speranze, portando a cambiamenti significativi e duraturi che continuano a plasmare il nostro mondo: il ruolo delle donne nella società, la fine della schiavitù, il diritto al lavoro, l'indipendenza nazionale e l'emancipazione degli ebrei. Christopher Clark, il grande storico autore del bestseller mondiale "I sonnambuli", descrive il 1848 come la «camera di collisione al centro del XIX secolo». Frutto di una ricerca meticolosa, elegantemente scritto e ricco di descrizioni di figure carismatiche, questo libro offre una nuova interpretazione del 1848. Clark, infatti, evoca questo incredibile fermento di idee nuove, ma anche la serie sempre più spietata ed efficace di contrattacchi lanciati dagli antichi regimi. Nonostante la sconfitta, gli esuli diffusero le idee del 1848 in tutto il mondo e dalle macerie emerse un'Europa nuova e molto diversa.
In molti scritti sulla Resistenza sono indicati come autori di attacchi ai tedeschi o vittime dei loro rastrellamenti 'i partigiani', senza altra specificazione. Ma in gran parte dei casi si trattò di partigiani comunisti, la cui connotazione politica in seguito è rimasta spesso sotto traccia. Nel dopoguerra fu il loro stesso partito a inglobarli nella sua visione della guerra di Liberazione come 'guerra di popolo' combattuta da un ampio fronte antifascista quasi indifferenziato. E questo è accaduto ancora di più dopo il crollo dell'URSS, quando la forte impronta comunista sulla lotta armata antitedesca apparve una macchia capace di cancellarne i meriti. Questo non è un libro di semplice rivendicazione di quei meriti. Ne illustra alcuni, tra cui soprattutto la creazione dal nulla del nucleo essenziale dell'?esercito partigiano', le Brigate Garibaldi, opera di pochi militanti, capaci però di attrarre tanti volontari disposti a battersi contro i nazifascisti. Accanto alle loro imprese ne vanno però considerati anche i limiti, riconducibili agli obiettivi politici del loro gruppo dirigente, deciso ad attribuirgli, nonostante il loro carattere guerrigliero, compiti di un vero esercito regolare capace di presidiare vaste 'zone libere'. Ma dopo le dure prove dell'ultimo inverno di guerra, le formazioni comuniste diedero il principale contributo alla liberazione delle città del Nord prima dell'arrivo degli Alleati, importante obiettivo simbolico condiviso da tutte le forze della Resistenza. Un libro né encomiastico, né denigratorio, dove predominano i chiaroscuri, quanto mai presenti nella storia della transizione italiana verso la democrazia.
Le drammatiche vicende del potere imperiale ci parlano di uomini e donne senza nome ma anche di coloro che vivevano nei centri del potere, i senatori, i cavalieri, i rappresentanti delle élites locali. E naturalmente dei grandi protagonisti che di rado morivano nel loro letto, gli imperatori: in questo libro restano indimenticabili i ritratti di Augusto, che da ragazzo giocò da maestro la partita dell'ultima guerra civile e morì chiedendo ai presenti se aveva recitato bene la commedia della vita; di Nerone, il despota amato dal popolo per la sua politica monetaria 'democratica'; di Callisto, lo schiavo banchiere che divenne vescovo della comunità cristiana di Roma; di Massimino il Trace, il semibarbaro sfortunato difensore della patria romana; di Diocleziano, il sovrano utopista che inventò affascinanti e imponenti ingegnerie per il futuro di Roma; di Costantino, il rivoluzionario che fece trionfare la Chiesa cattolica e costruì una società 'piramidale'; di Giuliano, che volle ripristinare la gloria degli antichi dèi e morì combattendo contro i Persiani. I collanti di tante storie plurali e singolari sono alcune linee generali che intessono il racconto, in primo luogo la documentazione monetaria come chiave per intendere gli orientamenti sociali dei sovrani e la storia del cristianesimo come trama stabile della storia generale. Una leggenda molto vera vuole che Mazzarino 'sapesse tutto', perché non gli sfuggiva nessun documento, nessuna testimonianza antica, nessun angolo della storiografia moderna. Spesso la vasta erudizione produce studiosi chiusi nelle loro biblioteche, incapaci di trasferire nella vita le pagine dei libri. Per Mazzarino valeva il contrario: la sua straripante cultura era la chiave per far vibrare le anime morte.
Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, le forze conservatrici dominavano tutta l'Europa e reprimevano ogni tentativo di mutare il corso dell'esistente, in Italia come in Francia, in Spagna come in Ungheria. Ma la speranza si riaccese all'improvviso e inaspettatamente proprio in uno dei luoghi simbolo del nostro continente: la Grecia, allora dominio dell'Impero turco. Contro ogni ragionevole speranza di successo, la gente dei villaggi, delle valli e delle isole della Grecia si sollevò contro il sultano Mahmud II e affrontò l'enorme potenza dell'esercito ottomano, la sua celebre cavalleria turca, i crudeli fanti albanesi e i temibili egiziani. Mark Mazower ci fa conoscere i cospiratori rivoluzionari e il terrore delle città assediate, le incredibili storie di sacerdoti, di marinai e schiavi, di eroi ambigui e di donne e bambini indifesi in un conflitto di straordinaria brutalità. La causa greca trovò sostenitori accesissimi, da Foscolo a Byron, e ha avuto un ruolo centrale nella nascita del Romanticismo. Anzi, si può dire che proprio allora nacque un nuovo tipo di politica capace di far accorrere volontari da tutta Europa. Allora, per la prima volta nella storia, i leader europei hanno dovuto fare i conti con la volontà dei popoli di conquistare, a un costo spesso terribile, un futuro diverso da quello stabilito dall'alto.
Per vent'anni Benedetto Croce fu l'unica voce libera del nostro Paese. L'unico intellettuale a cui il regime fascista, per il suo prestigio e il suo carisma, concedeva una certa libertà di espressione. Da solo, attraverso i suoi libri, la sua rivista e le sue relazioni, riuscì a tenere accesa la fiamma della speranza in tanti giovani. Un racconto che ripropone l'eterna battaglia tra libertà e asservimento della cultura. Benedetto Croce non è stato soltanto uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento ma ha svolto una funzione fondamentale durante il Ventennio fascista, impedendo al regime di ottenere una egemonia assoluta sulla cultura del nostro Paese. Con un taglio originale, questo libro, oltre a seguire l'atteggiamento di Croce dinanzi al fascismo - accolto con simpatia, poi combattuto con tenacia e inventiva -, ricostruisce non soltanto la biografia del filosofo nel ventennio più tormentato del Novecento, ma ricollega lo studioso liberale ai protagonisti della cultura italiana ed europea, da Thomas Mann a Stefan Zweig. Con una ricca documentazione inedita, Franzinelli illustra l'offensiva degli squadristi e la 'macchina del fango' scatenata contro il filosofo dissidente, la sua rete di corrispondenti e le schedature poliziesche di chiunque lo frequentasse o gli scrivesse. Emerge il ruolo di Croce nella formazione di giovani che - da Giorgio Amendola a Vittorio Foa, da Leone Ginzburg a Piero Gobetti - lo presero quale riferimento in momenti decisivi della loro esistenza. Una particolare attenzione è dedicata alla battaglia di Croce contro il razzismo: era nota la sua contrarietà alla persecuzione degli ebrei, ma ora emergono la continuità e la profondità del suo impegno, che non trova pari in nessun altro intellettuale italiano.
La vicenda di Roma, lungo tutto il suo percorso millenario, è accompagnata da un concetto particolarissimo e originale: quello espresso nel termine imperium. Questo vocabolo traduce il rapporto tra il potere nella sua accezione più alta e la sua responsabilità. Nel gestire questa gravosa incombenza il potere deve confrontarsi con una serie di doveri. Ab origine, la responsabilità verso il popolo romano è subordinata a una serie di valori addirittura anteriori alla nascita stessa dell'Urbe, come quello di fides, il rispetto delle regole. A questo concetto sono costretti a rapportarsi tutti i grandi di Roma. Camillo, cui viene attribuita una prima definizione del diritto naturale, che vieta ogni atto in contrasto con la natura dell'uomo; Scipione, il primo imperator, che proclama la superiorità di un singolo sulle strutture. Muove all'azione Silla, l'idealista in cerca di impossibili ritorni al passato; accende Cicerone nella sua teoresi; lo reclama per sé Cesare senza poter conservare né il potere né la vita; lo struttura mirabilmente Augusto, nel nuovo patto con gli dei (la pax Augusta) da cui nascerà la monarchia. L'intero corso della storia imperiale assiste poi a un costante dibattito, che impegna tanto gli stoici quanto la propaganda di corte, gli imperatori-soldati come il pensiero cristiano. Da quest'ultimo ambito uscirà, infine, la struttura tetragona e proiettata nei secoli a venire dell'impero cristiano.
«La causa degli oppressi può difenderla soltanto uno che sia anche lui un oppresso». Pare che Lucio Sergio Catilina, di nascita nobile e dalla carriera torbida, temprato nella ferocia delle guerre civili, sia approdato a questa convinzione, proclamata in una riunione segreta di suoi seguaci, quando ormai si accingeva, nell'anno 63 a.C., all'ultima, celebre, perdente battaglia contro l'oligarchia. Infiltrati vi erano anche nella sua cerchia. Così, il servizio di spionaggio agli ordini del console a lui più avverso, Marco Tullio Cicerone, prontamente divulgò quel proclama, subito giudicato come una minaccia. Fu instaurato lo 'stato d'assedio' e in tale clima si svolsero le elezioni. E Catilina fu battuto nelle urne: intreccio perfetto di strategia della tensione e gestione dei pentiti. Cicerone era giunto al vertice del potere mettendosi agli ordini dell'oligarchia. Fu perciò, come spesso i transfughi, il più implacabile avversario della 'rivoluzione'. Al culmine dello scontro non esitò a varcare i confini della legalità, illudendosi, per un tempo non breve, di poter rimanere, grazie a tale 'benemerenza', al vertice della Repubblica. Non aveva capito di essere soltanto una pedina, non un capo: gli mancava un esercito. Era suonata l'ora dei capi carismatici e delle loro legioni.
Senza dubbio, la Costituzione repubblicana ha contribuito a costruire l'Italia e a darle la sua forma attuale. Al tempo stesso, però, il nostro paese l'ha utilizzata e interpretata secondo le proprie necessità, mutate nel tempo, e le proprie identità. Nella matrice originale della Carta operano 'più valori che norme': i valori sociali delle maggiori forze in campo, cattoliche e social-comuniste, dettano l'agenda, sovrastando le culture liberaldemocratiche delle varie 'terze forze'. Negli anni si susseguono e puntualmente falliscono i tentativi di riformare la Costituzione, mentre si compie il ciclo della nascita e morte dei partiti, attraverso il terremoto di fine Novecento e l'affermazione di nuovi movimenti. Al sistema elettorale proporzionale subentra allora il fascino del maggioritario e, con esso, anche l'eterna paura del tiranno, dell'uomo solo al comando. Intanto l'arretramento dello Stato e la fine dei partiti hanno fatto emergere nella società civile e nella politica nuove costellazioni di interessi e di poteri, economici, territoriali, sociali, rafforzando antichi e nuovi 'corporativismi'. Sempre più incisivo, si afferma il ruolo esercitato nell'indirizzare le sorti del paese dal diritto, dai diritti, dalla magistratura e dalla Corte costituzionale.
«Il problema dei 'silenzi' non è solo una questione del mondo ebraico, ma riguarda tutti, anche i cattolici». Pio XII è una figura controversa. Da un lato protagonista di azioni riconosciute a tutela delle vittime del nazifascismo, in particolare nei mesi drammatici dell'occupazione di Roma; dall'altro accusato per i troppi 'silenzi' a fronte delle notizie drammatiche che arrivavano in Vaticano, già dal 1939, dai territori occupati da Hitler, a partire dalla Polonia. Andrea Riccardi ricostruisce la storia e le ragioni di quei silenzi, avvalendosi di una ricca documentazione consultabile per la prima volta. Solo nel 2020 l'Archivio Apostolico Vaticano ha, infatti, reso accessibili agli studiosi i documenti del pontificato di Pio XII. Frutto di questa straordinaria opportunità di ricerca e a firma di uno degli storici più accreditati sulla materia, l'analisi e l'interpretazione di un nodo rilevantissimo della storia del Novecento.
La storia degli ebrei in Italia è antichissima: nessuna comunità in Occidente ha una presenza così costante, dalla Roma antica fino a oggi. Soprattutto, la storia degli ebrei in Italia è una storia fortemente specifica e in parte diversa rispetto a quella dei centri della diaspora europea. Distinta da una netta continuità attraverso oltre venti secoli; prima culla, all'inizio dell'era volgare, dell'ebraismo diasporico. Caratterizzata da una forte integrazione nella società cristiana, sia nel Medioevo che nei secoli successivi, nonostante le mura dei ghetti; poco toccata, nei secoli, dai fenomeni più estremi di antisemitismo; segnata da una forte partecipazione degli ebrei, nel XIX secolo, alla costruzione risorgimentale; e infine colpita durante l'occupazione nazista da arresti e deportazioni a cui partecipano attivamente i fascisti della Repubblica di Salò. E ancora, almeno fino al secondo dopoguerra, poco impegnata nel progetto sionista e anche successivamente poco coinvolta in una concreta emigrazione in Israele, anche se molto condizionata e segnata dalla presenza dello Stato ebraico. Una storia che, a essere compendiata in una sola frase, potrebbe esser definita come 'una storia italiana'.
Nei secoli racchiusi tra l'invenzione della stampa e la nascita del diritto d'autore anche gli uomini e le donne più illuminati credevano nella necessità di sorvegliare la circolazione libraria e reprimere le idee considerate dannose per la società. Cosa distinse il sistema di censura romano dai meccanismi di controllo vigenti in altre parti d'Europa? E, soprattutto, in che modo la censura ecclesiastica influì sugli sviluppi della cultura italiana nel corso dell'età moderna? Tenendo insieme in un unico grande affresco dotti e 'senza lettere', letteratura e arte, scienza e filosofia, politica e teologia, questo libro restituisce la voce ai tanti attori che animarono la scena culturale della penisola italiana. Ricostruisce gli strumenti con cui Roma cercò di impedire la diffusione dei libri ritenuti pericolosi e allo stesso tempo gli stratagemmi con cui autori, stampatori e lettori cercarono di aggirare tali controlli. La censura fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura. Il successo della politica religiosa e culturale della Controriforma passò anche per la capacità di restituire ai fedeli una serie di testi atti a sostituire i libri non più disponibili. Il libro scomparve e poi ricomparve sotto forme diverse, lontane ma non del tutto nuove rispetto al loro aspetto originario.
Teodosio il Grande (379-395 d.C.) fu l'imperatore che mise fuori legge l'antica religione romana. Nel periodo a lui successivo, per buona parte della critica storica il paganesimo è solo un fenomeno irrilevante: non intercettato dai radar della grande storia, meritevole di studio solo in funzione del processo della cristianizzazione e per di più ormai mal distinguibile dalle superstizioni dei fedeli cristiani e dal folklore. La sfida di questo libro è di interpretare le specificità di un paganesimo religioso 'in transizione'. Tra drammatiche vicende di guerre e violenze, movimenti di uomini, insediamenti di collettività, costituzione di nuovi regni, come si trasformarono i rapporti tra religione e società? Incisero le credenze e le pratiche religiose 'importate' dalle diverse gentes barbariche, i tempi e i modi delle loro conversioni al cristianesimo o le loro persistenze nell'idolatria? Come interagirono con le realtà romane preesistenti? Riscopriamo così un paganesimo minoritario ma non residuale, né privo di suggestiva vitalità, con espressioni di politeismo tradizionale, cerimoniali legati ai cicli della fertilità, culti degli elementi naturali, manifestazioni religiose più violente e macabre come i sacrifici umani dei prigionieri di guerra o l'uso di feticci sacri a scopi espiatori.
Nell'inverno del 1933, in soli sei mesi il mondo cambiò improvvisamente rotta e si avviò sui sentieri che avrebbero portato alla Seconda guerra mondiale. Le tappe di questa escalation sono drammatiche: Hitler al potere in Germania, il Giappone all'invasione della Cina, Mussolini e l'Italia alla conquista dell'impero. Ovunque, la triade demoniaca di nazionalismo, autoritarismo e malcontento sociale travolge la democrazia. Un racconto appassionante che è anche un ammonimento per i nostri tempi.
Le terre dell'Adriatico orientale sono state uno dei laboratori della violenza politica del ?900: scontri di piazza, incendi, ribellioni militari come quella di D'Annunzio, squadrismo, conati rivoluzionari, stato di polizia, persecuzione delle minoranze, terrorismo, condanne del tribunale speciale fascista, pogrom antiebraici, lotta partigiana, guerra ai civili, stragi, deportazioni, fabbriche della morte come la Risiera di San Sabba, foibe, sradicamento di intere comunità nazionali. Queste esplosioni di violenza sono state spesso studiate con un'ottica parziale, e quasi sempre all'interno di una storia nazionale ben definita - prevalentemente quella italiana o quella jugoslava (slovena e croata) -, scelta questa che non può che originare incomprensioni e deformazioni interpretative. Infatti, è solo applicando contemporaneamente punti di vista diversi che si può sperare di comprendere le dinamiche di un territorio plurale come quello dell'Adriatico orientale, che nel corso del ?900 oscillò fra diverse appartenenze statuali. Inoltre, le versioni offerte dalle singole storiografie nazionali non fanno che rafforzare le memorie già a suo tempo divise e rimaste tali generazione dopo generazione. Sono maturi i tempi per tentare di ricostruire una panoramica complessiva delle logiche della violenza che hanno avvelenato - non solo al confine orientale - l'intero Novecento.
Una leggenda ebbe grande diffusione in tutta Europa tra la metà del Seicento e i primi del Novecento. Nascosta tra le righe di un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 1647, questa mitologia attribuiva agli ebrei l'invenzione delle lettere di cambio - strumento in apparenza simile al moderno assegno, che consentiva il movimento di grandi somme di denaro senza alcuno spostamento di monete o lingotti e che, in mano a banchieri esperti, agevolava forme di speculazione del tutto avulse dallo scambio delle merci. Storicamente infondata, questa leggenda ebbe tuttavia un successo enorme. Se ne trova menzione in una miriade di testi oggi poco noti, nonché in grandi autori come Montesquieu, Marx e Sombart. Perché? Come le lettere di cambio attraversavano mari e monti senza lasciare traccia, così gli ebrei apparivano indistinguibili dai mercanti cristiani. In questa 'invisibilità' non era facile riconoscere il mercante onesto dall'ebreo usuraio. Ben prima della mano invisibile di Adam Smith, l'invisibilità degli ebrei fu dunque una tra le metafore predilette dei pensatori europei e diede voce a timori profondi legati ai lati più oscuri e ingovernabili del nascente capitalismo finanziario.
Cento anni fa, per tutto il 1921 e poi nel 1922, l'Italia fu investita da una guerra civile scatenata dal fascismo, autoproclamatosi 'milizia della nazione', contro tutti i partiti avversari. Da cento anni gli osservatori coevi e poi gli storici hanno cercato di spiegare un fenomeno così sorprendente, proponendo le più varie interpretazioni. In questo libro Emilio Gentile, avvalendosi di una vasta documentazione di archivi pubblici e privati, ricostruisce le vicende che provocarono il crollo della democrazia italiana e posero le fondamenta di un regime totalitario. Come ebbe inizio la marcia del fascismo? Chi erano i fascisti? Chi erano i finanziatori dello squadrismo? Chi si oppose e chi favorì la conquista fascista del potere? Fu Mussolini il duce che guidò il fascismo al potere o fu il fascismo che spinse Mussolini al potere, trasformandolo in duce? A queste domande Emilio Gentile ha cercato di dare risposte realistiche, documentate e argomentate. E con le sue risposte racconta una storia del fascismo che va oltre le interpretazioni tradizionali o convenzionali, perché i suoi protagonisti sono persone in carne e ossa e non astratte entità collettive.
Questo libro racconta come finì, in antico, l'indipendenza dello Stato ebraico. Ciò avvenne, nel più generale contesto della conquista del Medio Oriente e in particolare dell'area siro-palestinese, ad opera delle legioni romane (63 a.C.). La figura dominante dell'aggressione e della spoliazione del 'tesoro di Stato' degli Ebrei fu Gneo Pompeo Magno, in quell'anno (l'anno terribile della congiura di Catilina) potente personaggio pubblico della repubblica imperiale romana. Una fonte ebraica coeva dei fatti, i cosiddetti Salmi di Salomone, fornisce un quadro veridico della vicenda. E svela il ruolo decisivo della voracità dell'aggressore. Voracità che si appagò finalmente, dopo oltre un secolo di violenze e apparente riconciliazione, nell'anno 70 d.C. Allora l'imperatore Tito, «delizia del genere umano» secondo la vulgata adulatrice, distrusse il Tempio di Gerusalemme e lasciò depredare il tesoro lì conservato, frutto del contributo corale di tutte le comunità ebraiche. Il movente economico e l'odio per un popolo atavicamente considerato con avversione furono, allora, alla base del primo genocidio degli Ebrei. È una storia che ci riguarda ancora. Il revisionismo storiografico riuscì a prevalere e la tradizione si prestò a fare da sponda alla menzogna di Stato, voluta dai vincitori e avallata dai loro clienti.
La maggior parte degli italiani non è abituata a pensare alla lunga storia del proprio Paese (tra Medioevo e Rinascimento, Controriforma e Risorgimento) anche come storia degli ebrei che pure, fin dall'epoca romana, lo abitarono ininterrottamente. Né, al contrario, la vitalissima storia ebraica nella nostra penisola è di solito concepita come parte integrante della storia italiana: la si pensa piuttosto come la parabola speciale di una minoranza emarginata, isolata, perseguitata; passiva di fronte agli eventi della 'Grande storia' o colpita in negativo da essi in ondate ininterrotte di antisemitismo. Germano Maifreda rovescia questo paradigma, sostenendo che conoscere la storia degli ebrei è indispensabile per capire la storia d'Italia nel suo complesso. Ripercorrendo, anche tramite documenti inediti, tante vicende piccole e grandi nell'arco di diversi secoli, l'autore dimostra che il passato italiano nei diversi ambiti (politico, economico, sociale, culturale, religioso) può essere visto con occhi nuovi se si tiene conto dell'azione costruttiva di donne e uomini ebrei; nonché delle influenze reciproche e delle tante forme di interazione avvenute tra loro e tutti gli altri abitanti della penisola.
Tra Oriente e Occidente sembra che sia sempre esistito un vero e proprio scontro di civiltà. Nel nostro immaginario, le guerre persiane per secoli hanno simboleggiato proprio questo: la lotta perenne tra il dispotismo orientale e la libertà dell'Occidente. Basti pensare ai 300 delle Termopili che resistono eroicamente all'invasione delle sterminate masse del Gran Re. Al contrario, per lunghi millenni a partire dalle antichissime civiltà mesopotamiche, il nostro Occidente (europeo) è stato una sorta di appendice al grande complesso orientale (asiatico). Ancora al tempo delle guerre persiane il grande impero vedeva la Grecia come un problema marginale. Furono proprio quei conflitti a trasformare i pesi sulla bilancia: il loro esito diede alla Grecia la forza non solo di resistere, ma anzi di reagire e infine prevalere. Viste le enormi differenze di potenza militare, di bacino demografico, di tradizione dominatrice, tra il grande impero e la piccola Grecia, è stato ovvio per il mondo occidentale costruire la propria immagine come qualitativamente superiore, facendo emergere i valori della democrazia contro il dispotismo orientale, delle libertà contro l'asservimento generalizzato, delle individualità contro la sottomissione etnica.