Il tema dell'agricoltura sta tornando di attualità. Diversamente da altri pur interessanti libri sui contadini, questo è un libro dei contadini, nel senso che dà la parola alle loro narrazioni. I testimoni che abbiamo incontrato sono i protagonisti di un'agricoltura che resiste, che costruisce esperienze plurali e che indica una via d'uscita dall'impasse dell'agricoltura industrializzata. Nelle loro narrazioni abbiamo riconosciuto la passione e l'orgoglio di essere contadini, la forte integrazione di vita e lavoro, i tratti di una contadinità che recupera saperi e tradizioni rigiocandoli dentro la modernità, intrecciandoli con saperi e modi moderni. Sono contadini per scelta, che hanno un'idea di futuro che contiene la riconciliazione con la natura e con la società, e una visione dei rapporti economici ispirata non al profitto dei singoli ma alla ricerca del benessere collettivo. Il loro fine non è l'arricchimento, ma quello di una vita dignitosa in equilibrio con la natura, e le loro pratiche, di lavoro e di impresa, sono spesso all'altezza di un cambiamento radicale del modello di sviluppo fin qui dominante. Prefazione di Pier Paolo Poggio.
Nel titolo si riassume perfettamente lo straordinario percorso che Massimo Toschi racconta. Disabile per una poliomielite contratta a undici mesi, proprio allo scoppio della bomba di Hiroshima, è destinato a una vita in carrozzella e piena di ostacoli. Di fatto fin da studente all'Università Cattolica di Milano si impegna rispetto ai carcerati. I poveri e la pace divengono il suo punto di attenzione. Sposatosi nel 1970, ha una figlia e ha svolto per oltre trent'anni l'attività di insegnante. Viaggi in Algeria e Sierra Leone lo mettono a contatto con il disastro dei fondamentalismi e delle guerre africane coi ragazzi-soldato, ma anche con figure di pace come furono i monaci uccisi a Tibhirine. Nel 2000 il presidente della Regione Toscana lo invita a essere consigliere alla presidenza regionale per la pace.
Diversamente da quanto si vuol far credere, il nucleare non è una tecnologia avanzata, ma una tecnologia complicata, vecchia, costosa e pericolosa, che in mezzo secolo ha creato - oltre all’incubo tutt’altro che scomparso dell’olocausto nucleare - problemi gravissimi, che graveranno per centinaia o migliaia di anni, senza avere apportato alcun beneficio sostanziale o insostituibile.
Questa tesi viene sviluppata nel libro in termini analitici e rigorosi, analizzando in modo sistematico l’intero ciclo nucleare per tutti gli aspetti rilevanti: emissioni di anidride carbonica, indipendenza dalle fonti fossili, costi disaggregati, emissioni di radioattività nel normale funzionamento, residui radioattivi ingestibili, rischi e portata di possibili incidenti, pericoli di proliferazione militare. Un capitolo di Ernesto Burgio analizza i danni biologici e sanitari delle radiazioni ionizzanti in base ai risultati più recenti della ricerca biologica, che dimostrano la profonda inadeguatezza dell’approccio e della normativa ufficiali, e delle sue conclusioni tranquillizzanti per le piccole dosi di radiazioni.
Particolare attenzione viene rivolta all’Italia, discutendo nel merito l’inefficienza del nostro sistema elettrico e i corrispondenti interessi e speculazioni che alimentano tutti i programmi energetici (e non solo), specie quelli nucleari, anche alla luce della non certo brillante storia passata. Tanto più utile risulta il confronto con l’«immagine speculare» della Francia, la cui fama di paradiso del nucleare viene smontata e analizzata nelle sue profonde contraddizioni da uno specialista di notorietà internazionale, Mycle Schneider.
L’ultima parte del libro è dedicata a dimostrare l’inconsistenza e la impraticabilità delle soluzioni miracolistiche prospettate dall’industria nucleare per prolungare nel tempo lo sfruttamento dell’uranio e porre fine ai problemi irrisolti del ciclo nucleare dopo mezzo secolo di irresponsabile negligenza: il tutto sostenuto con ingenti finanziamenti anche pubblici, nel mentre si ridicolizzano nuove prospettive che meriterebbero almeno una verifica seria e imparziale.
L’Era nucleare deve essere chiusa al più presto, per cercare di limitare e tamponare i danni insostenibili e la pesante eredità che già ci ha lasciato.
SCRAM
È il repentino spegnimento di un reattore nucleare attraverso l’inserzione rapida di barre di controllo. È l’acronimo di "safety control rod axe man" che letteralmente significa l’uomo-ascia della barra di controllo di sicurezza, cioè colui che nel primo reattore nucleare degli stati uniti era addetto ad inserire la barra di emergenza, sospesa ad una fune che veniva recisa con un ascia.
Lotta agli sprechi, risparmio energetico, riciclaggio totale dei rifiuti, tutela e valorizzazione del suolo naturalizzato e degli alberi, dieta povera di proteine e grassi animali, vestiti con tessuti naturali, bioedilizia, energie rinnovabili, mobilità sostenibile, città a misura di bicicletta, insomma tutto l’armamentario di quella che oggi è chiamata pomposamente green economy lo ritroviamo in parte realizzato, in parte progettato nella seconda metà degli anni Trenta, il periodo che il fascismo volle chiamare «autarchia». In realtà, tutte le economie sviluppate, compresi gli USA con il New Deal, risposero alla crisi del ’29 con forme diverse di protezionismo e di autarchia.
Ma il «caso italiano», depurato dalle incrostazioni del regime, ha caratteristiche uniche e di assoluto interesse, perché l'Italia era pressoché priva di combustibili fossili. L’Italia, insomma, dovette far fronte alla necessità di rimodellare la propria economia e società facendo affidamento esclusivamente su risorse che, a parte un po’ di metano e di carbone e alcuni minerali, erano essenzialmente quelle dell’agricoltura e del sole; la stessa condizione che si prospetta in un prossimo futuro all’intero Pianeta con l’esaurimento dei combustibili fossili. In sostanza si trattò di un involontario e obbligato esperimento di «economia verde», costretta anticipatamente a fare i conti con i «limiti dello sviluppo». «Lo studio dei prodotti e dei processi del periodo autarchico italiano», scrive Giorgio Nebbia nella prefazione, «non esenta, ovviamente, dal giudizio di ferma condanna del regime fascista, delle sue avventure razziali, militari e colonialistiche, delle sue stupidità e ignoranza. Non si tratta di rilanciare il ruralismo fascista o nazista, la virtù delle famiglie contadine, ma di riconoscere che la terra, in pianura, collina, montagna, è la base per produzioni anche tecnicamente avanzate, con vantaggi per la decongestione delle zone urbane, per la difesa delle acque e la prevenzione di frane e alluvioni. [...] Volenti o nolenti, il ‘passato è prologo’».
La situazione attuale ci obbliga a recuperare e inventare nuove e diverse modalità di convivenza, con processi educativi, culturali e politici che riconsiderino radicalmente il concetto stesso di sviluppo, praticando un cambiamento di paradigma: dal capitale fondato sulla crescita esponenziale dei profitti che si concentrano in poche mani alla valorizzazione dei fattori umani, sociali e ambientali di cui le civiltà contadine e i popoli originari, da sempre, sono promotori. Le loro forme di organizzazione sociale, basate su un sistema di coesistenza tra natura e uomo, non sono state liquidate perché incompatibili con il progresso o la modernità, ma perché incompatibili con la concentrazione dei beni in base alle leggi di mercato, che ancora oggi continuano a voler sopprimere l’educazione e il mondo socio-economico contadino, i popoli indigeni, la loro cultura, la loro natura, il loro socialismo precapitalista, la Madre Terra (Pacha Mama). S’intende che la categoria del «Sud», in questo libro, non riguarda solo una collocazione geografica, e nemmeno una ormai tradizionale categoria socio-economica, che identifica i paesi sottosviluppati con il «Sud del mondo». Facendo la spola tra le due sponde dell’Oceano, attraverso un volo ideale dagli Appennini alle Ande, raccontando storie e pratiche secolari dei cafoni del nostro Meridione e degli indios boliviani, emerge in queste pagine lo spaccato di un’educazione e una pratica sociopolitica di popoli capaci di un equilibrio produttivo con la natura, di saggezza redistributiva nell’amministrazione di ricchezze e risorse, portatrici di un’idea alternativa di progresso che non si appiattisce sulla ricerca del profitto. Ma non è un libro nostalgico, bensì una proposta educativa oltre che sociale e politica: dietro la rappresentazione di quello che abbiamo perduto nella larga mareggiata capitalista, c’è la consapevolezza di ciò che è sopravvissuto. E di ciò che può - e deve - essere riconquistato alla civiltà dei popoli per una nuova socialità del XXI secolo, si chiami questa giustizia, socialismo, Pacha Mama.
Questo libro introduce un concetto fondamentale per le future sorti dell'umanità. Estranei alla dimensione privata e al valore commerciale, ma anche all'alternativo privato e statale, i beni comuni sono riemersi nella notte dei tempi diventando la bandiera dei movimenti progressisti mondiali che cercano una via d'uscita dal capitalismo. Il recupero dei diritti delle comunità sui beni comuni, la loro riappropriazione delle risorse naturali rappresenta un nuovo paradigma di società organizzata a livello locale e a partecipazione democratica, ecologicamente sostenibile, integrativo e in parte anche sostitutivo del mercato, da rilanciare anche nei paesi del Nord.
L'Europa, i contadini, i consumatori: il movimento per la sovranità alimentare
2013, fine della Politica Agricola Comune (PAC) dell’Unione Europea? Molto bene, potremmo dire. Poiché, dopo tutto, i suoi danni sociali, ambientali e nei paesi del Sud forse non giustificano i 50 miliardi annui di questa politica europea. Non bisogna però dimenticare che la PAC, fondata cinquant’anni fa, aveva altri obiettivi: assicurare la sicurezza alimentare, la stabilità dei mercati e prezzi ragionevoli per i contadini come per i consumatori. Per questo occorreva attuare, a livello europeo, una regolamentazione forte dei mercati. A chi giova oggi il suo smantellamento, in un contesto di liberalizzazione dei mercati agricoli? Ai paesi esportatori più ricchi, che hanno costretto i paesi poveri a sopprimere le loro protezioni doganali, pur sostenendo con massicce sovvenzioni la propria esportazione agricola. Alle multinazionali, che ora possono rifornirsi a costi più bassi. Il 2008 e il 2009 sono stati segnati dalla crisi mondiale dei prezzi alimentari e dalle «rivolte della fame». L’Unione Europea non è forse una delle prime responsabili, trovandosi alla guida di organismi come l’OMC, la Banca Mondiale, il FMI, cantori della deregulation dei mercati agricoli? Lo smantellamento della PAC è uno dei passaggi centrali di questo gioco mortifero. Il mito neoliberista è a corto di fiato. Non può risolvere le gravi crisi planetarie che ha creato. Rifondare la PAC in favore di un’agricoltura contadina, ecologica e che offra lavoro e di una alimentazione di qualità per tutti: non è un’utopia, è una necessità, dinanzi alle crisi alimentare, ecologica ed economica. Delle alternative credibili esistono: esse implicano il rispetto del diritto alla sovranità alimentare e una regolazione internazionale degli scambi basata sulla solidarietà e la salvaguardia delle risorse naturali.
Biodiversità e beni comuni si ispira a
un evento di grande rilevanza storica: il
5 giugno 1992, a Rio de Janeiro, in occasione
della Conferenza delle Nazioni
Unite su ambiente e sviluppo, venne firmata
la Convenzione sulla Biodiversità
(CBD). Dopo Rio, la CBD si è affermata
come uno degli accordi multilaterali più
importanti per la messa a punto di politiche
di sviluppo sostenibile e conservazione
della natura; al contempo, però, si
è progressivamente distinta come il trattato
globale più controverso in seno ad
alcune importanti agenzie sovranazionali
a causa dei vincoli che essa impone
allo sfruttamento e al libero commercio
di beni biologici. La CBD, infatti, enfatizzando
il carattere di “bene comune”
(commons) insito nel patrimonio biologico
del pianeta, nega che esso possa
essere considerato una mera commodity, una merce da cui
trarre profitto.
Nel volume i beni comuni vengono intesi come tutti i fattori
materiali e immateriali che incidono sulle condizioni di
vita dell’umanità. Questa nozione implica evidentemente
anche il riferimento alle modalità del loro sfruttamento da
parte del sistema sociale. Emerge allora
che la gestione della biodiversità naturale
e agricola – così com’è stata concepita
fino a oggi – non può più essere
guidata dai paradigmi economici del
mondo occidentale. La tutela della biodiversità
pone sfide che richiedono
strumenti e politiche in grado di riconoscere
e valorizzare tutti i valori che
in essa sono stati individuati dalla
Convenzione di Rio. Ciò introduce un
ulteriore elemento a cui il volume presta
particolare attenzione. La variabilità
antropologica e linguistica che si è
sviluppata nel corso della storia umana
deve misurarsi con nuove forme di
omologazione economica delle culture,
che agiscono distruttivamente in
sinergia con altri fattori di erosione del
patrimonio naturale e agricolo della
Terra. Ma la diffusa tendenza dei paesi industrializzati a
ignorare l’importanza delle culture “altre” rappresenta una
delle conseguenze più azzardate di una civiltà che persegue
un unico modello economico; l’idea di sviluppo che ne
discende, infatti, da un lato distrugge le risorse biologiche e
dall’alto genera fame e povertà.
Carlo Modonesi è laureato in biologia e specializzato in igiene ambientale. All’Università di Milano ha svolto attività di ricerca
nei settori della biologia del comportamento e della socioecologia animale. Dal 1998 lavora al Museo di Storia Naturale
dell’Università di Parma, dove si occupa di evoluzione biologica ed evoluzione culturale, nonché della loro relazione. All’Università di
Parma è stato docente di biologia comparata dei cordati, mentre attualmente, nello stesso Ateneo, insegna comunicazione naturalistica
per il corso di laurea specialistica in conservazione della natura. È stato direttore scientifico della Fondazione Diritti Genetici.
Gianni Tamino è laureato in scienze naturali. Ha compiuto ricerche sugli effetti degli inquinanti ambientali e sugli organismi
geneticamente modificati. Docente di biologia generale all’Università di Padova dal 1974, attualmente è titolare degli insegnamenti
di diritto ambientale e di bioetica nell’ambito dei corsi universitari e post-universitari dello stesso Ateneo. Ha fatto parte
del Comitato nazionale per la biosicurezza e le biotecnologie presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ed è stato membro
del Parlamento italiano e successivamente del Parlamento europeo.
I diritti devono essere, come gli alimenti, fondamentali, naturali, inalienabili e universali. Il diritto al cibo è un diritto civile e politico, economico e sociale atto a promuovere l’uguaglianza, la libertà e la dignità di tutti gli uomini e le donne. Ancorare il cibo ai diritti è necessario per sottrarlo al ruolo di merce su cui esercitare il gioco d’azzardo della speculazione finanziaria o la distrazione come agrocarburante. È invece necessario garantire alle donne e agli uomini, ovunque nel mondo, accesso e controllo sulle risorse naturali ed economiche con cui produrre, curare e far circolare gli alimenti.
L'insegnamento dell'altra faccia del pianeta
«A lungo la storia dell’ambientalismo ha coinciso essenzialmente con la storia di come le élites bianche dei paesi ricchi hanno scoperto la bellezza e la fragilità della natura, e di come hanno cercato di proteggerla. Dietro questa versione dell’ambientalismo è possibile intravedere un’idea della natura e delle sue relazioni con la società: l’aspirazione a un ambiente sano e - perché no? - bello sarebbe, dunque, un lusso da ricchi e colti, fuori dall’orizzonte e dai bisogni dei poveri. Ma è un altro l’ambientalismo che qui interessa e che costituisce l’oggetto centrale dello studio di Alier: non l’ambientalismo dei ricchi, dei parchi nazionali o dello sfruttamento razionale delle risorse naturali, ma quello dei poveri, che mischia linguaggi e chiede giustizia sociale e ambientale più che una generica protezione della natura o un suo più efficiente utilizzo. Ovviamente questo approccio implica non solo una revisione delle culture ambientaliste, ma anche un ripensamento dell’idea stessa di natura; nel libro di Martínez Alier essa non è tanto un luogo di contemplazione o lo spazio della ricreazione, ma piuttosto la base materiale di sostentamento delle comunità che, difendendo quella natura, difendono se stesse e la loro sopravvivenza. Il rapporto tra riflessione teorica e narrazione è uno dei segreti di questo libro. Alier racconta storie di conflitti, dando al suo discorso sull’ecologismo popolare i volti, i nomi, spesso le parole dei protagonisti. Il libro è anche questo: una incredibile occasione per ascoltare storie che pochi ricordano o conoscono, storie di violenza e di resistenza che mostrano chiaramente come lo sfruttamento della natura sia spesso anche sfruttamento dei poveri e la liberazione dell’una non può avvenire senza giustizia per gli altri.» (dalla Prefazione di Marco Armiero)
Contro la proliferazione dei bisogni e dei consumi: il testamento intellettuale di un pioniere dell'ecologia
"Che noi si sia dominati dal nostro lavoro è un'evidenza da centosettanta anni. Ma non lo è il fatto che siamo dominati nei nostri bisogni e desideri, nei nostri pensieri e nell'immagine che abbiamo di noi stessi. Questo tema appare già ne Il traditore ed è sviluppato in quasi tutti i miei testi posteriori.. Partendo dalla critica del capitalismo, si arriva all'ecologia politica che, con la sua indispensabile teoria critica dei bisogni, conduce di ritorno ad approfondire e a radicalizzare ancora la critica del capitalismo. Non direi dunque che c'è una morale dell'ecologia, ma piuttosto che l'esigenza etica di emancipazione del soggetto implica la critica teorica e pratica del capitalismo, della quale l'ecologia politica è una dimensione essenziale."
Il nucleare, bandiera per politiche irrealizzabili, serve solo ad allontanare i programmi sulle energie alternative.
Da alcuni anni è in corso una campagna internazionale per il rilancio dei programmi nucleari per la produzione di energia elettrica. Nel nostro paese il nucleare è stato chiuso dopo il referendum del 1987, ma la lobby nucleare ha ripreso ad esercitare pressioni per salire su questo treno. Il recente annuncio da parte del nuovo governo di una prossima ripresa dei programmi nucleari in Italia non era dunque inaspettato, ma ha comunque messo in subbuglio tutti gli ambienti interessati e un’opinione pubblica purtroppo sprovveduta o informata in modo parziale e distorto.
Una ripresa in tempi brevi del nucleare nel nostro paese non è realistica, se non altro perché in questi anni sono state smantellate le competenze e le strutture, ma l’annuncio del governo apre comunque scenari inquietanti. Non è possibile valutare la situazione e le prospettive in Italia se non si fa chiarezza sui programmi nucleari nel mondo. I “reattori di quarta generazione” vengono presentati all’opinione in termini generici come la soluzione di tutti i problemi creati dal nucleare e la base per un nucleare “sostenibile”: ma questi reattori ancora non esistono e sono di là da venire! Nel frattempo, un rilancio del nucleare aggraverebbe tutti i problemi.
Questo libro esamina tutte le problematiche (costi, tempi, rischi di proliferazione, sicurezza), sfatando in particolare i miti del “miracolo nucleare” francese e dell’insufficienza energetica italiana.
Questo libro presenta il grande tema della flessibilità nel mondo del lavoro rivolgendo l'attenzione alle categorie sociali più coinvolte dal fenomeno, i giovani e i protagonisti dei nuovi lavori emersi nell'ultimo decennio soprattutto. L'accesso al mondo del lavoro, purtroppo per molti giovani italiani, non avviene in base al merito, ma ad altri fattori che potremmo definire di tipo familiare. Molto spesso è la famiglia di provenienza a determinare lo sbocco professionale dei ragazzi e quindi anche la mobilità sociale. Una recente ricerca rivela che i figli di imprenditori, professionisti, dirigenti, impiegati di livello elevato, pubblici e privati, hanno una probabilità di permanere nella stessa categoria, 17 volte superiore ai ragazzi di altra condizione. In altri paesi equiparabili all'Italia, come la Germania, le probabilità sono 7 volte superiori e negli Stati Uniti 6 volte circa. Il mondo del lavoro oggi è caratterizzato da una molteplicità di novità e innovazioni. Molti sono i cambiamenti intervenuti che hanno mutato il volto del mercato del lavoro rispetto al passato, quando l'omogeneità e una chiara identificazione dell'apparato produttivo e della forza lavoro costituivano l'elemento distintivo del sistema di produzione dominante.
In tutti i paesi avanzati la scienza e la sua comunicazione giocano un ruolo chiave nell'indirizzare le scelte di interesse sociale. Spesso tuttavia gli orientamenti della ricerca scientifica sono legati a obiettivi e interessi che, più che con la scienza, hanno a che fare con i suoi usi economici e finanziari. Questa nuova dimensione dell'operato degli scienziati può allora influire sulla qualità dei risultati che concretamente essi riescono a ottenere nei laboratori di ricerca. In questo senso, il filo conduttore del libro è quello della problematizzazione del rapporto che si genera tra conoscenza ed etica o, se si preferisce, tra fatti e valori della scienza. Il ragionamento può concentrarsi su un piano di pura speculazione filosofica, ma può anche tradursi in riflessioni più concrete sul vincolo etico che si stabilisce tra decisione politica e dato scientifico, tra calcolo economico e bisogni reali. Negli anni recenti, il rischio che la comunicazione della scienza abbia risentito in modo significativo delle situazioni di conflitto di interessi in cui spesso si trovano a operare gli scienziati, ha ricevuto sempre più attenzione. Emerge con forza l'esigenza di comprendere se sussiste ancora la possibilità di una visione deontologica delle professioni scientifiche e tecnologiche - specie nel settore delle bioscienze - e di verificare i principi e i codici culturali ai quali fare appello nelle policy della scienza e dell'innovazione
Haussmann è stato una figura eccezionale di studioso della materia agronomica, uno dei maggiori esperti mondiali nel settore delle produzioni foraggere, un acuto studioso del rapporto fra società e suolo. Queste sue attività, che hanno trovato il perno unificante intorno al problema della fertilità del terreno, sono state magistralmente integrate dalla profonda opera di Haussmann come storico dell'agricoltura. Oltre che di centinaia di pubblicazioni scientifiche, è autore di grandi opere di sintesi sul rapporto tra uomo e terra, tra società e suolo.
Jacques Ellul (1912-1994) è più conosciuto negli Stati Uniti che nel suo paese, la Francia. Agli inizi degli anni Sessanta, Aldous Huxley fece tradurre e pubblicare il suo capolavoro "La tecnica rischio del secolo". Questo libro, nello stesso tempo libertario e credente, solitario e impegnato nel suo secolo, aveva previsto tutto, o quasi. Crisi come quelle della mucca pazza, e il nostro sgomento davanti al piatto? Lui li aveva previsti. La sgradevole impressione, in questo campo come in altri (OGM, riscaldamento climatico, scorie nucleari, pesticidi, amianto, ripetitori, fatti come Seveso, ecc.), di essere messi di fronte a scelte che ci trascendono infinitamente, di andare verso un mondo sempre più insicuro, rischioso, alienante? Lui l'aveva previsto. La ferma volontà degli scienziati di fabbricare, con clonazione e manipolazioni genetiche, non solo piante e animali "migliorati", ma un uomo superiore, un superuomo? Lui l'aveva previsto. Non solo aveva previsto questi fenomeni, ma li aveva pensati, analizzati, giudicati attraverso un'opera feconda e torrenziale. Persuaso che è la tecnica a condurre il mondo (molto più della politica e dell'economia), ha passato la vita ad analizzare i mutamenti che provoca nella nostra società e la sua influenza totalitaria sulle nostre vite. In quest'opera, Jean-Luc Porquet espone venti idee forti di Ellul, e le illustra su temi di attualità.
In un mondo in cui lo sviluppo tecnologico esercita un impatto sempre più forte sulla società, sulla salute e sull'ambiente, va messa in conto la necessità di una gestione trasparente e democratica delle decisioni che riguardano la scienza e la tecnologia. In biomedicina, per esempio, è ormai evidente un problema di integrità della ricerca scientifica, al punto che si è resa necessaria una "metaricerca" compiuta da scienziati indipendenti che analizzano l'attività sperimentale effettuata o commissionata dall'industria. Spesso tali contro-analisi evidenziano gravi manipolazioni a carico di studi scientifici i cui risultati possono essere successivamente utilizzati a fini di policy. Oggi tuttavia il problema investe anche il sistema che produce innovazione per l'agricoltura e l'alimentazione. L'agricoltura industriale ha evidenziato limiti enormi, perché dipende dall'alto consumo di combustibili fossili e dallo sfruttamento incondizionato di risorse naturali non rinnovabili. I costi economici, ambientali e sociali provocati dalla completa separazione tra produzione agricola, vocazione del territorio e saperi tradizionali ricadono sulle spalle dei soggetti più deboli della filiera agro-industriale, ossia gli agricoltori e i consumatori. Il volum dà la misura e la profondità di questi scenari, lasciando chiaramente trasparire non solo l'urgenza ma anche la reale convenienza di un'inversione di rotta nelle politiche che riguardano la scienza, la sicurezza alimentare e la salute.