Affascinante senza essere manipolatoria, rigorosa ma mai dogmatica, elegante seppure austera, irriducibilmente anticonvenzionale, eternamente sfuggente: così è Elizabeth Finch, docente del corso di «Cultura e civiltà» al college. Il suo carisma e la forza delle sue idee sono destinati a segnare per sempre il modo di pensare dei suoi studenti. O almeno di uno di essi. Questa è la storia che lui ci racconta. Ma, come direbbe Elizabeth Finch, «travisare la propria storia è parte dell'essere una persona». Il «Re dei Progetti Incompiuti», secondo la definizione della figlia adolescente, Neil si porta appresso un bagaglio di insuccessi lungo una vita: un'ambizione attoriale frustrata, due matrimoni falliti. Ma a quella prima lezione del corso di «Cultura e civiltà», tanti anni prima, il giorno in cui fece la conoscenza della docente Elizabeth Finch, Neil ebbe la sensazione di essere arrivato, per una volta, nel posto giusto. Sobria nell'abbigliamento, esatta nel dire e cristallina nel pensare, fumatrice incallita e insofferente del comune sentire, Elizabeth Finch - EF per la classe - incuneò fin da subito il grimaldello del libero pensiero nelle quiete coscienze dei suoi studenti, mai trattati come «oche all'ingrasso» da infarcire di nozioni, ma coinvolti in un continuo processo socratico di collaborazione, spesso caustico ma mai sprezzante, e fatalmente fertilizzato dall'elisir del carisma. Impossibile, per i discenti, non perdersi in congetture sulla sua inespugnabile vita privata e non restare colpiti dalle sue idee sulla Creazione: «Il mondo è male organizzato, perché Dio l'ha creato da solo. Avrebbe dovuto consultare qualche amico: uno il primo giorno, un altro il quinto, un altro il settimo, allora sì che sarebbe stato perfetto», sull'amore: «Esiste una parola più mistificante, abusata, fraintesa, più estensibile a livello di significati e di propositi, più contaminata dagli sputacchi di miliardi di lingue bugiarde, della parola "amore"? E c'è qualcosa di più scontato che lamentarsi di tutto questo?», sul pensiero unico: «Monoteismo. Monomania. Monogamia. Monotonia. Niente di buono inizia con questo prefisso», o su ogni altra area del sapere e del sentire, antico e moderno. Odiarla o amarla, non c'è alternativa. Neil rientra da subito nella seconda categoria, e vi rimane per decenni dopo la fine del corso, sposando il suo metodo critico e infine facendosi carico del suo progetto incompiuto: quello sulla figura di Flavius Claudius Julianus, ovvero Giuliano l'Apostata, l'ultimo imperatore romano non cristiano, la cui sconfitta in battaglia determinò l'instaurarsi a Roma del monoteismo ai danni di tutte le altre religioni e dunque, a detta di EF, la chiusura della mentalità europea e la fine della gioia. Neil ha ormai i capelli grigi quando si addentra nelle carte della sua antica maestra e forse amica, in cerca di verità mai svelate. Eppure Elizabeth Finch l'aveva avvertito fin dall'inizio: «Artificio, rigore, verità. Artificio non come opposto della verità ma spesso come sua manifestazione, ciò che lo rende irresistibile».
Si possono inventare dei legami famigliari seguendo l'istinto, il desiderio e l'immaginazione? Si può davvero aiutare qualcuno? Ma soprattutto: si può salvare chi non vuole essere salvato? "Molto molto tanto bene" è una storia vera: la storia di una famiglia nata in mare, vitalissima e sgrammaticata come il titolo di questo libro. A bordo delle navi Ong, Caterina scopre che il Mediterraneo ti sorprende sempre. È proprio durante un salvataggio al largo che compare Amy, una bambina di cinque anni: sorride, e porta un cappellino di strass che luccica sotto al faro di pattugliamento. È l'inizio di un amore impetuoso e accidentato. Del resto è sempre così difficile sapere qual è il nostro bene, figuriamoci quello degli altri. C'è chi parte sulla scia dell'entusiasmo, chi decide di tornare per puro amore della vita, ma a spingerti su una nave Ong - una volta dopo l'altra - è soprattutto l'ostinazione. Caterina ormai conosce l'Endurance come casa sua, ogni corridoio, ogni boccaporto. Ha imparato i gesti per issare i naufraghi sul Rhib, a prendersi cura di loro quando dormono sul ponte, in salvo, distesi sui cartoni. Quel che Caterina non sa è che oggi, su quella nave, sta per comparire un futuro possibile. Succede in mezzo al Mediterraneo, a trenta miglia a nord di Zawiya. Il mare è mosso, lei è pronta: ha il casco, il salvagente a gas, i pantaloni impermeabili, gli stivali di gomma, i guanti. Il vento è forte e copre ogni voce. E all'improvviso appare Amy, una bambina di cinque anni. Durante il salvataggio sorride tranquilla, come una diva che sale su un motoscafo nella laguna di Venezia. Porta un cappellino di strass che luccica sotto al faro di pattugliamento. Inizia così un tentativo un po' pazzo e visionario di comprendere l'altro: Caterina lo affronterà con passione e testardaggine. Ma nella vita non si può prevedere tutto, o meglio quasi niente. Forse perché gli amori nati in mare, nell'emergenza, sono più movimentati e imprevedibili di quelli che poggiano sulla terraferma. Molto molto tanto intensi, molto molto tanto feroci. «E ripete a raffica la sua parola italiana preferita: baci. Si appoggia le mani sulla bocca, picchiettando le labbra con le dita: baci, baci, baci. Spesso la saluto con un Ti voglio molto bene o Ti voglio tanto bene, e Amy fa due conti. Per aggiungere quantità, basta usare tutti gli aggettivi insieme».
«Nel corso della mia vita ho fatto di tutto, proprio di tutto, per smania di racconto». Sulla spiaggia di un ottobre caldissimo c'è un vecchio signore che legge, scrive, passeggia. Una mattina qualcosa gli leva il respiro, gli sfugge. Cosa se ne sta andando per sempre? Muove da questo istante di smarrimento un racconto vorticoso e raffinatissimo, teso e scanzonato, che insegue Rosa, ombra di madre sarta, morta troppo presto, e Lu, giovane commessa di boutique che, nel tempo libero, coltiva la passione per la canoa. Un libro sulla perdita del proprio mondo, sulla vecchiaia, sull'amore per le donne, sul prodigio e lo smacco della scrittura. Gli ultimi sessant'anni di Nicola sono stati una corsa. Ha amato, ha promesso molto e dato molto meno, inseguendo un'idea tutta sua di felicità svagata. Ora ha ottantadue anni, e da tredici giorni ha preso in affitto una casa al mare tra le dune. Ogni mattina va a sedersi in spiaggia, in camiciola e calzoncini, quaderno e matita in mano, e osserva una ragazza pagaiare con eleganza tra le onde. Lu ha vent'anni e quando non va in canoa fa la commessa nella boutique di Evelina. A Nico fa venire in mente sua madre, anche se non le somiglia, come del resto nessuna delle donne della sua vita. Una madre morta troppo presto, reinventata dalla memoria e dalla fantasia, una madre che si faceva bella come un'attrice anche solo per uscire a fare la spesa, che cuciva abiti per le sue clienti, ma soprattutto per sé, quasi una disobbedienza, una fantasia peccaminosa, contro la gelosia furibonda del marito. Per questo gli abiti femminili per Nicola sono tuttora una festa, il segno di una passione ancora viva per le donne. Così nella boutique di Evelina assiste incantato, sedotto, al susseguirsi di blazer e caban, taffettà e seta damascata, che le amiche di Evelina prima e Lu poi si scambiano entrando e uscendo dai camerini. In una cittadina ventosa in cui sembra non accadere nulla, Nicola prova a districare le matasse di un variegato catalogo umano fatto di dispetti e pettegolezzi. E allora forse comprarsi un kayak, alla sua età, e andare a caccia di piovre giganti insieme al piccolo figlio di Lu diventa il modo per imbastire la trama di un'infanzia ancora tutta da scrivere, nell'inesausto tentativo di «trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera». "Il vecchio al mare" ha la malinconia di certi orizzonti meravigliosamente lontani visti la sera da terrazze piene di salsedine, e di quegli incontri casuali, un mattino d'ottobre sul bagnasciuga, che a distanza di tempo ricordiamo con gratitudine. Il nuovo romanzo di Domenico Starnone è un perfetto congegno di erotismo, crudeltà, sottigliezza.
Non esiste un'età senza paura. Siamo fragili sempre, da genitori e da figli, quando bisogna ricostruire e quando non si sa nemmeno dove gettare le fondamenta. Ma c'è un momento preciso, quando ci buttiamo nel mondo, in cui siamo esposti e nudi, e il mondo non ci deve ferire. Per questo Lucia, che una notte di trent'anni fa si è salvata per un caso, adesso scruta con spavento il silenzio di sua figlia. Quella notte al Dente del Lupo c'erano tutti. I pastori dell'Appennino, i proprietari del campeggio, i cacciatori, i carabinieri. Tutti, tranne tre ragazze che non c'erano più. Amanda prende per un soffio uno degli ultimi treni e torna a casa, in quel paese vicino a Pescara da cui era scappata di corsa. A sua madre basta uno sguardo per capire che qualcosa in lei si è spento: i primi tempi a Milano aveva le luci della città negli occhi, ora sembra che desideri soltanto scomparire, si chiude in camera e non parla quasi. Lucia vorrebbe tenerla al riparo da tutto, anche a costo di soffocarla, ma c'è un segreto che non può nasconderle. Sotto il Dente del Lupo, su un terreno che appartiene alla loro famiglia e adesso fa gola agli speculatori edilizi, si vedono ancora i resti di un campeggio dove tanti anni prima è successo un fatto terribile. A volte il tempo decide di tornare indietro: sotto a quella montagna che Lucia ha sempre cercato di dimenticare, tra i pascoli e i boschi della sua età fragile, tutti i fili si tendono. Stretta fra il vecchio padre così radicato nella terra e questa figlia più cocciuta di lui, Lucia capisce che c'è una forza che la attraversa. Forse la nostra unica eredità sono le ferite. Con la sua scrittura scabra, vibratile e profonda, capace di farci sentire il peso di un'occhiata e il suono di una domanda senza risposta, Donatella Di Pietrantonio tocca in questo romanzo una tensione tutta nuova.
Ci sono animali liberi, cupi e selvatici, altri che cercano una mano morbida e un rifugio. In mezzo, tra l'ombra e il sole, scorre il fiume. I due fratelli sono Luigi e Alfredo, un larice e un abete: a dividerli c'è una casa lassù in montagna, ad avvicinarli il bancone del bar. E poi Betta, che fa il bagno nel torrente e aspetta una bambina. In questo romanzo duro e levigato come un sasso, Paolo Cognetti scende dai ghiacciai del Rosa per ascoltare gli urti della vita nel fondovalle. La sua voce canta le esistenze fragili, perse dietro la rabbia, l'alcol e una forza misteriosa che le trascina sempre più giù, travolgendo ogni cosa. Lungo la Sesia come in tutto il mondo, a subire il dolore dell'uomo restano in silenzio gli animali e gli alberi. Un padre ha piantato due alberi davanti alla sua casa, uno per ogni figlio. Il primo, un larice, è Luigi, duro e fragile, che in trentasette anni non se n'è mai andato dalla valle. Lui e Betta si sono innamorati facendo il bagno nelle pozze del fiume, tra le betulle bianche: ora non succede più così di frequente, ma aspettano una bambina e nell'aria si sente il profumo di un nuovo inizio. Lui ha appena accettato un lavoro da forestale, lei viene dalla città e legge Karen Blixen. L'altro albero è un abete: Alfredo è il figlio minore, ombroso e resistente al gelo, irrequieto e attaccabrighe. Per non fare più guai ha scelto di scappare lontano, in Canada, tra gli indiani tristi e i pozzi di petrolio. Ma adesso è tornato. Alfredo e Luigi in comune hanno due cose. La prima sta in un bicchiere: bere senza sosta per giorni, crollare addormentati e riprendere il mattino dopo, un bianco, una birra, un whisky e avanti ancora un altro giro, bere al bancone dove si scommette se l'animale che uccide i cani lungo gli argini sia un lupo, un cane impazzito o chissà cosa. Oltre all'alcol però c'è la casa davanti a quei due alberi. Adesso che il padre se n'è andato, Alfredo è tornato in valle per liberarsi dei legami rimasti: lui non lo sa, ma quella stamberga da un giorno all'altro potrebbe valere una fortuna. Col passo rapido e la lingua tersa dei grandi autori, Paolo Cognetti ha scritto il suo "Nebraska".
Ottobre 1972, struttura psichiatrica Stella Maris. Tra le mura di una stanza un uomo e una donna si scambiano parole di matematica e desiderio, di musica e visioni. Lei si chiama Alicia Western ed è lì per cercare di sfuggire ai suoi demoni. Lui è lo psichiatra che l'ha in cura ed è lì per tentare di salvarle la vita. Falliranno entrambi, ma le parole che si scambiano tra quelle mura resteranno dopo di loro. Nella seconda metà della dilogia cominciata con "Il passeggero", Cormac McCarthy chiude il cerchio delle vicende dei fratelli Western - e della sua intera opera - con un romanzo di diamantina intelligenza e strabiliante vis drammatica: l'ultima degna parola di un autore di genio. Quando bussa alla porta della clinica psichiatrica Stella Maris, con quarantamila dollari in contanti in una busta e poca carne addosso, Alicia Western ha vent'anni e altri due ricoveri alle spalle. Il compito che attende il dottor Cohen, che la prende in cura, è di quelli che possono far vacillare la fiducia di un medico nella propria professione. Con diagnosi plurime di sociopatia deviante, anoressia, probabile autismo, tendenze suicide e schizofrenia paranoide, Alicia è accompagnata fin dalla pubertà da uno stuolo di personaggi allucinatori capeggiati dall'individuo pinnuto e astruso che lei chiama Talidomide Kid. Ma accanto alle sue molte patologie psichiatriche, la giovane Western è anche una matematica di genio con un QI non testabile, nonché una virtuosa del violino troppo assorbita dalla teoria dei topoi per raggiungere nella musica un'eccellenza a lei accettabile. Ardua missione, per un terapeuta, cercare di strappare i brandelli di un'anima lacerata alle spire di una mente tanto vorace: nella danza di parole che i due ingaggiano, a ogni passo del medico corrisponde un nuovo imprendibile exploit della paziente, intriso di beckettiana ironia e puntellato di autorevoli teorie. Grothendieck e Gödel, Maxwell e Feynman. Kant, Schopenhauer e Wittgenstein. Bach. Il sapere moderno distillato in un lasciapassare per il nichilismo. Nel parterre di riferimenti di Alicia un solo nome compare con sospetta parsimonia, ed è quello di suo fratello Bobby, lasciato in coma in Italia dopo un incidente automobilistico, e dato per morto. Di Bobby Alicia non vuole parlare. Ed è proprio in quell'eloquente silenzio che lo psichiatra incunea il suo grimaldello. Perché ora sa che solo di Bobby, solo a Bobby, Alicia vorrebbe parlare. Seduta dopo seduta, il tempo a disposizione si fa sempre più breve. E nel ticchettio ora sommesso ora impetuoso di quell'orologio che lei sa leggere anche al contrario, Alicia si prepara a dimostrare l'estrema verità che ha appreso su questa esistenza: che «il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere».
Durante una missione di recupero al largo della costa del Mississippi, Bobby Western vede quel che non avrebbe dovuto vedere: un JetStar apparentemente intatto adagiato sul fondale e, in cabina, chiome fluttuanti, bocche aperte e occhi vuoti, nove corpi senza vita. Da dove viene quell'aereo, che fine ha fatto la scatola nera, e che ne è stato della decima persona sulla lista passeggeri? Queste le domande a cui Bobby, perseguitato da due emissari governativi «con un'aria da missionari mormoni», non sa dare risposta. Capisce allora di dover scomparire. Del resto a fuggire ci è abituato, da tanto tempo è inseguito dai sensi di colpa nei confronti del mondo e di lei, Alicia, l'amore del suo cuore, la rovina della sua anima. Alicia Western, sua sorella. Mente matematica sopraffina ed esperta mondiale di violini cremonesi, donna bellissima e perciò più difficile da perdere, «perché la bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie», anche Alicia, come Bobby, ha guardato dove non doveva guardare, nel cuore delle tenebre. Visitata sin da bambina dalle «coorti», un'accozzaglia di allucinazioni da vaudeville capeggiate da un piccolo focomelico scurrile chiamato il Kid, e afflitta da un amore che offende, Alicia ha provato a opporre l'ordine del numero al caos della vita ma non ce l'ha fatta perché «certe cose un numero non ce l'hanno». Ora cosa resta a Bobby, se non la fuga? Via da New Orleans, Knoxville e la baia petrolifera della Florida, da bettole, bagnarole e topaie. Un mondo popolato di reietti, ubriaconi e reduci - dall'amorevole trans Debussy al killer di blatte Borman al dandy dissacrante Sheddan - ma brulicante di vita e inventiva. Via da tutto quel rumore, via dalle oscure macchinazioni del potere e dai peccati ereditati come da quelli bramati, verso una nuda bicocca dall'altra parte dell'oceano, verso un posto senza compagnia né legge né letteratura, dove non c'è altra realtà del ricordo e la fisica si fonde nella metafisica. Perché questo siamo noi: «dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno».
Figlio del capitano Robert Baines, autoritario veterano della Seconda guerra mondiale ora di stanza in Nord Africa, e di sua moglie Rosalind, Roland fatica a capire perché a soli undici anni gli tocchi lasciare le pietre calde e la pazza libertà di Libia, e il fianco tiepido di sua madre, per affrontare un'istruzione rigorosa e solitaria nella fredda Inghilterra. Là faticherà a capire che cosa voglia da lui Miss Miriam Cornell, la temibile insegnante di pianoforte del collegio, che punisce le sue manchevolezze con pizzicotti dolorosi e imbarazzanti e premia i suoi successi con languidi baci sulla bocca, e con gli uni e gli altri in egual misura lo terrorizza e lo attrae. Sarà poi la sua moglie anglotedesca Alissa a confonderlo e straziarlo quando, a pochi mesi dalla nascita del loro bambino Lawrence, abbandonerà marito e figlio al loro destino senza una spiegazione. Roland passerà il resto della vita a interrogarsi su di sé e sulla «natura del danno» che le tre donne - madre, insegnante, moglie - gli hanno procurato. Chi è davvero Roland Baines? Il giovane prodigio del pianoforte il cui straordinario talento è stato frustrato dai soprusi di un'insegnante, o l'indolente pianista di pianobar che ha rinunciato alle sue ambizioni per pavidità? È il figlio di genitori intransigenti ma amorevoli, o il fratello di bambini come lui defraudati dei loro diritti da una madre degenere? È il marito di una donna spietata che immola gli affetti più cari alla sua arte, o è il soffocante groviglio di bisogni che l'ha costretta alla fuga? L'aspirante scrittore amante della grande letteratura, o il ladro di frasi altrui con cui confezionare biglietti per ricorrenze a pagamento? Il padre premuroso e sempre presente, o l'ostaggio imprigionato in una paternità accollata? È il bambino vittima di abusi o il giovane «incline all'intimità» e alla felicità dei sensi? È tutte queste cose insieme, forse, essere poliedrico come il secolo che la sua vita attraversa? Dalla Crisi dei missili di Cuba alla caduta del Muro di Berlino, dalla glasnost al thatcherismo, dall'invasione dell'Iraq alla pandemia da Covid, Roland pare fluttuare da un'esperienza alla successiva a motore spento, sospinto dalla sola forza dei venti. Ma strada facendo qualche lezione la impara, se alla fine di tutto può approdare a una nuova curiosità d'amore, portato dalla mano piccola di una bambina in cui depositare una lunga eredità.
«Lei è stata la dismisura in tutto, ma la vita è anche mancare qualcosa, non riuscire in qualcosa, non colmare la misura fino all'orlo». Annalena Tonelli, capelli al vento, sfreccia in bicicletta all'alba per le strade di Forlì: corre dai bisognosi, dagli ultimi. Lo farà per tutta la vita. Fino a fondare una missione in Africa, a rinunciare a tutto, fino a venire uccisa perché donna, bianca, senza un uomo a fianco, e senza paura. Annalena Benini la conosce da sempre questa storia, fa parte della sua famiglia. Ma adesso qualcosa è successo e quel nome identico al suo la insegue come una domanda, come un pungolo: può arrivare a capire tutto di quella donna così estrema, libera, coraggiosa? C'è un mistero che resta. Un viaggio personalissimo e profondo dentro il cuore della forza femminile, tra dedizione e potere, grandezza e senso del limite, talento e vocazione. Due donne con lo stesso nome, due vite lontanissime. Annalena Tonelli aspira all'assoluto, Annalena Benini davanti all'assoluto vacilla. Come tutti noi. Ma con sguardo disincantato, estremamente contemporaneo, si confronta con quella figura magnetica e schiva che incarna la fragilità e la potenza di tutte le donne, e che di continuo le dice: e tu? Da una polmonite anche un po' comica fino alla scelta più estrema: in entrambi i casi si tratta di scosse. Annalena Tonelli è una ragazza degli anni Sessanta col futuro in mano: bella, il pensiero affilato e veloce, la prima fra gli amici a ballare il twist, borse di studio a Boston e New York, poi la laurea in Giurisprudenza. Ma a diciannove anni ha già incontrato la sua vocazione, «perché non è possibile amare i poveri, senza desiderare di essere come loro». Così allena il suo corpo a dormire quattro ore per notte, a vivere di pochissimo, elimina per sempre la vanità dalla sua vita. Non vuole che nessuno si innamori di lei, perché lei arde già di amore per gli ultimi della Terra. E questo sentimento bruciante la spinge lontano da Forlì, a coltivare il fiore dell'umanità nei deserti più aridi. Illuminata dall'amore per Dio e dall'umanesimo di Simone Weil, Etty Hillesum, Virginia Woolf: esprime il massimo della libertà nel massimo dell'umiltà. Annalena Tonelli ha esercitato, con la vita e con gli scritti, un pensiero altissimo e dirompente, con il quale Annalena Benini si confronta e si scontra. Questo libro è un viaggio moderno e accidentato, ricco di domande e confessioni, nel tentativo di guardare, dal basso, con piena coscienza dei propri limiti, e non senza autoironia, la scala che sale fino all'assoluto. Arrivando alla scoperta entusiasmante e complessa che il pensiero più libero e coraggioso del Novecento è un pensiero femminile.
Ci sono una gallina gringa e un maiale colombiano. La prima propone al secondo di entrare in affari e vendere sandwich: basta che ciascuno fornisca la metà degli ingredienti. «Io metterò le uova», dice la gallina gringa. «E io?», chiede il maiale colombiano. «Tu, mio caro, metterai il bacon». Gira questa storiella negli ambienti intellettuali di sinistra della Colombia. A Juan Pablo, che lavora nell'esercito come un tempo suo padre, non fa ridere. Perché sa che c'è qualcosa di vero. La realtà, però, è complessa, e quella del suo tormentato paese ancora di più. Per lui, chi vive in mezzo alla violenza vuole una cosa sola: ordine. Lisette, una giornalista americana cresciuta tra le dolci colline della Pennsylvania e appena rientrata esausta dall'Afghanistan, vuole invece una «buona guerra» e va a cercarla proprio in Colombia. In Colombia è andato anche Mason, sottufficiale di collegamento delle Special Forces che ha cominciato la carriera militare in Iraq e che, dopo essere diventato padre, ha capito di averne abbastanza di carri armati e ordigni esplosivi. Abel, che in Colombia è nato, al contrario non ha avuto scelta. E nemmeno la sua famiglia, finita nel tritacarne delle lotte tra guerrilleros, paras e narcos che seminano sangue e terrore in ogni angolo della giungla. Dopo Fine missione, raccolta di racconti frutto dell'esperienza come marine in Iraq, Phil Klay torna a parlare di guerra, ma stavolta allarga l'inquadratura includendo anche Afghanistan, Colombia e Yemen. È una scelta letteraria, ma la globalizzazione bellica non è fiction: le forze all'opera da una parte trafficano intanto anche da un'altra; i soldati e i mercenari un giorno utili qua il giorno dopo servono là; e ogni bomba che cade ha dietro una sofisticatissima tecnologia messa a punto in lindi laboratori sparsi per mezzo mondo. Connessi in una macchina mostruosa, i personaggi di Klay, nel silenzio che segue scoppi e fanfare, si ritrovano soli di fronte al tribunale della loro coscienza.
Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe. Antonella e Andrea vogliono un figlio: adesso lo vogliono proprio, lo vogliono assolutamente. Ma è come se non ci fosse niente di semplice, nel desiderio più naturale del mondo: tutto ciò che può andare storto andrà storto, anche l’inimmaginabile.
Antonella Lattanzi ha trovato parole esatte per questa storia, che è sua e di tutte le donne – ambiziose, indecise, testarde, libere di scegliere. Un libro emozionante, che non si riesce a smettere di leggere, straordinariamente contemporaneo.
«Questo libro mi ha toccato nel profondo. La letteratura è un’arte magica, e Antonella Lattanzi ha scritto un romanzo che è una benedizione, una maledizione, una catarsi» - Nicola Lagioia
Non è mai il momento giusto per fare un figlio. Prima vogliamo vivere, viaggiare, lavorare. Antonella vuole diventare una scrittrice: la sua è un’ambizione assoluta, senza scampo. Per questo a vent’anni, per due volte, interrompe volontariamente la gravidanza. Quando anni dopo si sente invece pronta, con un compagno a fianco, è il suo fisico a non esserlo. E così inizia l’iter brutale dell’ostinazione, dell’ossessione, della medicalizzazione. Certi supplizi, le aspirazioni inconfessate, la felicità effimera e spavalda, la sofferenza e la collera. Si direbbe una storia già scritta, ma qui non c’è nulla di consueto: è come raccontare da dentro una valanga, con la capacità incredibile, rotolando, di guardarsi e non crederci, e sfidarsi, condannarsi, sorridersi per farsi coraggio. In un crescendo di indicibile potenza narrativa, Antonella Lattanzi descrive (sulla sua pelle) la forza inesorabile di un desiderio che non si ferma davanti a niente, ma anche i sensi di colpa, l’insensibilità di alcuni medici, l’amicizia che sa sostenere i silenzi e le confidenze più atroci, il rapporto di coppia sempre sul punto di andare in frantumi, la rabbia ferocissima verso il mondo (e le donne incinte). Tenendo il lettore stretto accanto a sé, incollato alla pagina, con un uso magistrale del montaggio, capace di creare una suspense da thriller. La cosa strabiliante è che pur raccontando una storia eccezionale, e cruda, questo romanzo riesce in realtà a parlare in modo vero, e profondamente attuale, di tutte le donne – madri e non madri – che in un punto diverso della loro vita si sono chieste: desidero un figlio? qual è il momento giusto? dovrò rinunciare a me stessa, alle mie ambizioni? e perché tutte restano incinte e io no?
«Ho una diga nella testa dove stanno nascoste tutte le cose che fanno davvero troppo male. Quelle cose, io non voglio dirle a nessuno. Io non voglio pensarle, quelle cose. Io voglio che non siano mai esistite. E se non le dico non esistono».
Nel 1866, gli Stati Uniti si sono appena ripresi dalle ferite della Guerra civile. Non c'è tempo però per la pace: una nuova guerra è scoppiata alla frontiera occidentale. È lo scontro tra una nazione giovane e ambiziosa, intenta a realizzare quello che percepisce come il suo «destino manifesto», e le tribù native che in quelle terre vivono da millenni. Ma è anche il momento drammatico in cui si svela la sostanza di cui sono fatti gli uomini: di viltà o coraggio, di spietatezza o speranza. Il colonnello Henry Carrington arriva nella valle del Powder, lungo la pista del Montana, per guidare l'esercito: devono proteggere una nuova strada per i cercatori d'oro e i coloni. Per farlo, Carrington decide di costruire un forte, Fort Phil Kearny, in pieno territorio lakota. Ma Nuvola Rossa, uno dei capi lakota piú rispettati, e il giovane ma carismatico guerriero Cavallo Pazzo comprendono immediatamente le implicazioni di questa invasione. Per i Lakota la posta in gioco è la sopravvivenza. Mentre l'autunno sanguina verso l'inverno, Cavallo Pazzo guida un piccolo gruppo di guerrieri che affronta i soldati del colonnello Carrington con attacchi quasi costanti. Nuvola Rossa, nel frattempo, cerca di stringere le alleanze tribali che sa saranno necessarie per sconfiggere i soldati. Il colonnello Carrington, intento a costruire il suo forte, cerca di tenere insieme un esercito americano lacerato e in subbuglio. Il violento e razzista tenente George Washington Grummond vuole affrontare a viso aperto un nemico che considera inferiore. E le truppe sono divise dagli strascichi della Guerra civile e dalla tentazione di disertare per cercare l'oro nei vicini giacimenti. Le scaramucce proseguono finché un episodio farà precipitare la situazione in uno degli scontri più drammatici, epici e avvincenti della storia del West. Michael Punke, dopo Revenant, scrive un'altra storia di violenza e sopravvivenza in territori estremi: ma questa volta sono uomini che si scontrano e si misurano con la brutalità della Storia. Basato su un episodio storico fedelmente ricostruito, Il crinale è una riflessione attualissima sull'eterna lotta tra conquista e giustizia, guerra e umanità.
"Otto e mezzo" e "Il Gattopardo" sono due film epocali, girati contemporaneamente, e che tutti crediamo di conoscere benissimo. Ma se torniamo a quel mitico 1963, con Claudia Cardinale che corre da un set all'altro, Burt Lancaster che deve dimostrare di non essere un cowboy, Sandra Milo che ama l'amore più del cinema, Marcello Mastroianni troppo felice per interpretare il suo personaggio, ecco che si spalanca un mondo intero. Intanto, fuori dal set, si dibatte un Paese in cui la cultura è ancora politica, e l'epopea di un celebre romanzo rifiutato e poi riscoperto s'intreccia alle vicende personali e pubbliche di Federico Fellini e Luchino Visconti, sublimi registi avversari. Guardando dietro le quinte, Francesco Piccolo ci fa rivivere lo spirito irripetibile di un'epoca. Un racconto unico e travolgente sulla forza del genio e su quella del destino. La storia del cinema non è poi così diversa dalla vita: apparentemente lineare, ma costellata di incontri fortuiti, appuntamenti rincorsi o mancati, decisioni prese all'ultimo minuto e imprevedibili coincidenze. Fatalità cruciali che permettono a un'opera di venire alla luce, con le precise caratteristiche che poi tutti ricorderanno. La scelta di un'attrice, la luce sul set, le vicissitudini sentimentali del regista o di un comprimario - così come i tagli nel budget o una scena cambiata all'improvviso - possono scrivere a modo loro una pagina del genio universale. Il 1963 è stato l'anno di Fellini e di Visconti. Un anno decisivo per il cinema italiano, che ha visto la nascita di "Otto e mezzo" e "Il Gattopardo". Ma prima di diventare i capolavori che ben sappiamo erano due incredibili scommesse, nonché il campo di battaglia tra due artisti rivali e profondamente diversi: mentre Claudia Cardinale cambiava il colore dei capelli secondo il capriccio di chi la dirigeva, l'intero contesto culturale italiano si stava preparando a sposare l'una o l'altra visione del cinema e del mondo. Ecco cos'è "La bella confusione": inseguendo come un detective le figure e gli episodi che hanno fatto la Storia, Francesco Piccolo ha setacciato lettere, filmati, appunti e diari, interviste, pettegolezzi, testimonianze. Perché in questo romanzo diverso da qualsiasi altro romanzo i personaggi si chiamano Marcello Mastroianni, Ennio Flaiano, Sandra Milo, Tomasi di Lampedusa, Camilla Cederna, Suso Cecchi d'Amico, Burt Lancaster e Pier Paolo Pasolini. Muovendosi tra il mito e l'aneddoto, la voce inconfondibile dell'autore di "Il desiderio di essere come tutti" risveglia milioni di ricordi e ci regala la luce perduta di un'epoca. Un documentario fatto di parole: la potenza dell'arte, i segreti del cinema, i duelli di un'Italia che non sapremmo più immaginare.
Un uomo aspetta la nascita del figlio. Giorno dopo giorno insieme alla sua compagna immagina il piccolo essere vivente che presto rivoluzionerà la casa, le parole, i sentimenti, che a tutto darà nuovo significato. Emozionante viaggio poetico che ha inizio prima dell'esistenza stessa, percorre le tappe essenziali dell'infanzia e conduce alla scoperta della voce immaginata del neonato, Ombelicale è la dolce dichiarazione di vero amore di un padre per il suo bambino. «Uno dei libri più personali di Neuman: il quotidiano e il lento plasmare dei sentimenti ne fanno ora una raccolta lirica, ora un diario pieno di perplessità, umorismo ed emozioni» (Karina Sainz Borgo) «Lieto, figlio mio, di cominciare insieme a essere ciò che saremo». Questa è la storia dell'autore e del suo bambino, Telmo. Padre per la prima volta, Andrés Neuman si muove in un territorio che impara a conoscere e a decifrare giorno dopo giorno: perché per raccontare una nuova vita bisogna inventare un altro linguaggio, riprodurre gesti importanti prima privi di significato, riempire il cuore di quel sentimento ancora sconosciuto che è amore incondizionato, e forse anche qualcosa di più. Con la stessa intensità, padre e figlio stringono le estremità di un cordone molto diverso da quello che lega il bambino alla madre durante la gravidanza: la loro è un'unione invisibile che le emozioni e la gioia comune per i piccoli traguardi dell'infanzia rendono solida e concreta. Un'unione fondata sulla convivenza quotidiana, e su una promessa che aspira a superare i confini terreni dello spazio e del tempo. Per Andrés Neuman diventare genitori rappresenta sempre una sfida e oggi - proprio come era stato per sua madre e suo padre nell'Argentina della dittatura militare - richiede un atto di fiducia nei confronti del futuro, e la totale adesione alla speranza di un cambiamento di rotta nella folle corsa di questo nostro mondo. Un mondo che, nonostante tutto, è ancora in grado di accogliere il miracolo della vita e gioire della sua meraviglia.
Come prima cosa, Federico ha un corpo. Esagerato, ingestibile, deriso a scuola e compatito in famiglia. Un corpo di vent'anni e centocinquanta chili, nato con una fame ancestrale. Di cibo e di altro. Finché quell'appetito incontra lo sguardo di Giulia: ecco che Fede sarà costretto, letteralmente, a sottomettersi a una nuova forma di piacere. "Il paradosso della sopravvivenza" è un romanzo sullo spazio che occupiamo ogni giorno, quasi senza badarci. E insieme una riflessione sotterranea sul potere che lo sguardo altrui esercita sulle nostre scelte. Soprattutto, è la storia di un corpo ingombrante in un mondo ingombrante, a cui corrispondono desideri ingombranti. Lui si chiama Federico Furlan, detto Fede, ma per tutti a Pratonovo è soltanto «il ciccione». In famiglia, a scuola, e poi da adulto, sul lavoro, Fede non può mai dimenticare il peso che si porta addosso, la tenera e inseparabile corazza di carne che lui foraggia costantemente a suon di cibo. Eppure, anche se infelice, Fede si sente invincibile. Il suo medico gli ha illustrato «il paradosso della sopravvivenza», bizzarra teoria clinica secondo cui le persone obese avrebbero un tasso di mortalità inferiore rispetto a quelle normopeso, come se il grasso facesse da scudo alle minacce del mondo. Le cose cambiano quando Fede conosce Giulia, consapevole di essere bellissima e forse ignara di trovarsi pericolosamente vicina all'anoressia. È lei a proporgli un gioco dalle regole spietate. Provate a immaginarli nudi, l'uno di fronte all'altra, lei quasi invisibile e lui che riempie tutto lo spazio: durante i loro incontri Fede ha il divieto assoluto di toccarla, e l'obbligo di mangiare senza sosta tonnellate di cibo. Giulia lo domina, fredda e dispotica, e per difendersi non c'è corazza che tenga. Così, pieno di vergogna, Fede prende l'unica strada che gli resta: quella della fuga. Giorgio Falco ha scritto un romanzo che contiene moltitudini: la desolazione di un paesaggio alpino non troppo dissimile dalle periferie industriali, la reificazione delle emozioni e dei pensieri, il controllo che la pornografia esercita sulle nostre pulsioni, la lotta quotidiana per la sopravvivenza che regala improvvisi lampi di comicità. Grazie a un protagonista che arriva a fagocitare se stesso, Falco ragiona su tutti i corpi - sessualizzati, perfetti, respinti, inadeguati, storpi, desiderati, mortificati, accolti - con cui ogni giorno ciascuno di noi entra in rotta di collisione. «Il mondo è il mio peggior nemico. Io sono il mio nemico».
«Se proprio dovessi, sceglierei la Tasmania. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l'uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un'isola, quindi facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda». "Tasmania" è un romanzo sul futuro. Il futuro che temiamo e desideriamo, quello che non avremo, che possiamo cambiare, che stiamo costruendo. La paura e la sorpresa di perdere il controllo sono il sentimento del nostro tempo, e la voce calda di Paolo Giordano sa raccontarlo come nessun'altra. Ci ritroviamo tutti in questo romanzo sensibilissimo, vivo, contemporaneo. Perché ognuno cerca la sua Tasmania: un luogo in cui, semplicemente, sia possibile salvarsi. Ci sono momenti in cui tutto cambia. Succede una cosa, scatta un clic, e il fiume in cui siamo immersi da sempre prende a scorrere in un'altra direzione. La chiamiamo crisi. Il protagonista di questo romanzo è un giovane uomo attento e vibratile, pensava che la scienza gli avrebbe fornito tutte le risposte ma si ritrova davanti un muro di domande. Con lui ci sono Lorenza che sa aspettare, Novelli che studia la forma delle nuvole, Karol che ha trovato Dio dove non lo stava cercando, Curzia che smania, Giulio che non sa come parlare a suo figlio. La crisi di cui racconta questo romanzo non è solo quella di una coppia, forse è quella di una generazione, sicuramente la crisi del mondo che conosciamo - e del nostro pianeta. La magia di "Tasmania", la forza con cui ci chiama a ogni pagina, è la rifrazione naturale fra ciò che accade fuori e dentro di noi. Così persino il fantasma della bomba atomica, che il protagonista studia e ricostruisce, diventa un esorcismo: l'apocalisse è in questo nostro dibattersi, e nei movimenti incontrollabili del cuore. Raccogliendo il testimone dei grandi scrittori scienziati del Novecento italiano, Paolo Giordano si spinge nei territori più interessanti del romanzo europeo di questi anni, per approdare con felicità e leggerezza in un luogo tutto suo, dove poter giocare con i nascondimenti e la rivelazione di sé, scendere a patti con i propri demoni e attraversare la paura.
1965. Un uomo e una donna, dopo aver abbandonato nel parco di Villa Borghese la figlia di otto mesi, compiono un gesto estremo. 2021. Quella bambina abbandonata era Maria Grazia Calandrone. Decisa a scoprire la verità, torna nei luoghi in cui sua madre ha vissuto, sofferto, lavorato e amato. E indagando sul passato illumina di una luce nuova la sua vita. "Dove non mi hai portata" è un libro intimo eppure pubblico, profondamente emozionante e insieme lucidissimo. Attraversando lo specchio del tempo, racconta una scheggia di storia d'Italia e le vite interrotte delle donne. Ma è anche un'indagine sentimentale che non lascia scampo a nessuno, neppure a chi legge. Quando Lucia e Giuseppe arrivano a Roma è l'estate del 1965. Hanno con sé la figlia di otto mesi, sono innamorati, ma non riescono a liberarsi dall'inquietudine che prova chi è braccato. Perché Lucia è fuggita da un marito violento che era stata costretta a sposare e che la umiliava ogni giorno, e ha tentato di costruirsi una nuova vita proprio insieme a Giuseppe. Per la legge dell'epoca, però, la donna si è macchiata di gravi reati: relazione adulterina e abbandono del tetto coniugale. Prima di scivolare nelle acque del Tevere in circostanze misteriose, la coppia lascia la bambina su un prato di Villa Borghese, confidando nel fatto che qualcuno si prenderà cura di lei. Più di cinquant'anni dopo quella bambina, a sua volta diventata madre, si mette in viaggio per ricostruire quello che è davvero successo ai suoi genitori. Come una detective, Maria Grazia Calandrone ricostruisce la sequenza dei movimenti di Lucia e Giuseppe, enumera gli oggetti abbandonati dietro di loro, s'informa sul tempo che impiega un corpo per morire in acqua e sul funzionamento delle poste nel 1965, per capire quando e dove i suoi genitori abbiano spedito la lettera a «l'Unità» in cui spiegavano con poche parole il loro gesto. Dopo "Splendi come vita", in cui l'autrice affrontava il difficile rapporto con la madre adottiva, "Dove non mi hai portata" esplora un nodo se possibile ancora più intimo e complesso. Indagando la storia dei genitori grazie agli articoli di cronaca dell'epoca, Calandrone fa emergere il ritratto di un'Italia stanca di guerra ma non di regole coercitive. Un Paese che ha spinto una donna forte e vitale a sentirsi smarrita e senza vie di fuga. Fino a pagare con la vita la sua scelta d'amore.
Dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno? Un figlio, il ritorno a casa, la partita finale con la sua famiglia. E quell'ossessione che lo muove da sempre: la vita non è avere di più, è rischiare per avere tutto. Un romanzo tesissimo e profondo sulle passioni che ci rendono vivi, sugli amori mai dimenticati, su chi scrive il proprio destino dando fuoco all'anima. Sui padri e le loro eredità nascoste. I gabbiani a Rimini non urlano mai. In nessuna stagione dell'anno, neanche quando Sandro torna a casa dopo aver vissuto a Milano, e trova suo padre con la testa sempre più dura. Neanche quando passano i mesi e si accorge di essere rimasto lì con lui per affrontare la loro partita più grande, facendo un vecchio gioco: dove vorresti essere con un milione di euro in più e parecchi anni in meno? Da giovane Nando Pagliarani aveva il torace da nuotatore e un destino interrotto. Ha lavorato sui bus turistici, fatto il ferroviere, posseduto il bar America, ma l'unica voce che dovrebbe esserci sul suo documento d'identità è: ballerino. Perché lui e sua moglie hanno ballato come diavoli, in tutte le competizioni della riviera romagnola. Ballavano per vincere. Anche a Sandro piace vincere, è una malattia di famiglia. Ma la sua danza è pericolosa. Le prime volte al tavolo da gioco era lui il tizio da spennare, poi è diventato lo sbarbato da tenere d'occhio. Quel che è certo è che prima aveva un lavoro stabile e programmava con Giulia un futuro. E adesso? Cos'è rimasto a Sandro, che voleva avere tutto? Cosa rimane a ciascuno di noi, ogni volta che sfidiamo la fortuna? Marco Missiroli firma il suo romanzo più potente e maturo, raccontando la febbre di un giovane uomo pieno di slanci e difetti, di una città di provincia che vive alla grande solo una stagione all'anno, di una famiglia arsa dall'amore e dalla smania.
1901. La peste dilaga sull'isola di Mingher e l'uomo chiamato a fermarla viene ucciso in circostanze misteriose. Nel destino di quella piccola isola e dei suoi abitanti Orhan Pamuk ha ricreato un mondo, parlando al nostro presente con una forza e un'intensità che sono quelle della grande letteratura. Nell'aprile del 1901 un piroscafo si avvicina silenzioso all'isola di Mingher, «perla del Mediterraneo orientale». Dall'imbarcazione scendono due persone: il dottor Bonkowski - il maggior specialista di malattie infettive dell'Impero ottomano - e il suo assistente. Bonkowski è lì per conto del sultano: deve indagare su un nemico invisibile ma mortale, che rischia di mettere in ginocchio un Impero già da molti definito il «grande malato d'Europa» e innescare così una reazione a catena nei delicatissimi equilibri continentali. Sull'isola di Mingher, si dice, c'è la peste. Il morbo viene rapidamente confermato, ma imporre le corrette misure sanitarie rappresenta la vera sfida, soprattutto quando le esigenze della scienza e della medicina più nuova si scontrano con le credenze religiose. In quest'isola multiculturale dove musulmani e cristiani ortodossi cercano di convivere pacificamente, la malattia funge da acceleratore delle tensioni sociali e non solo: poco dopo aver parlato con il governatore e chiesto che venga imposta la quarantena, il corpo del dottor Bonkowski viene trovato senza vita in un vicolo. In un drammatico crescendo la peste dilaga, spingendo le autorità a rafforzare le misure di contenimento: queste però aumentano le frizioni tra le varie identità dell'isola (e dell'Impero), tra chi le asseconda e chi nega l'esistenza stessa della malattia, o l'efficacia della quarantena, gettando la comunità nelle tenebre di una notte non soltanto sanitaria. "Le notti della peste" è un'opera-mondo grandiosa, universale, attraversata da echi di Tolstoj, di Manzoni, del Conrad di Nostromo, di Camus. Romanzo storico e allegorico (tra le righe si legge la deriva di ogni nazionalismo verso l'autocrazia dell'uomo forte), brulicante di personaggi e di storie, di guerre, amori e immortali tensioni etiche. In cui il particolare - le esistenze dei singoli individui travolti dalla Storia - si apre all'universale - il rapporto tra paura e potere, tra vita e destini generali, tra fede e ragione, tra modernità e tradizione.
La vita è troppo breve per dipingere tutto, ma come si può restare indifferenti alla luce che si riflette in una goccia di rugiada, alle ali di uno sciame di libellule, alla fragranza di una peonia o ai lineamenti vivi e pulsanti di una giovane barista? Maureen Gibbon cattura la fascinazione di Manet per una bellezza universale e, fra le pagine immaginate del suo diario, sa restituirne intatta l'esperienza dell'arte e della vita. Indebolito dalla malattia che lo tormenta ormai da anni, il precursore dell'Impressionismo Édouard Manet è costretto a cercare il conforto di cure idroterapiche in amene località di campagna. Massaggi, frizioni e spugnature - tanto corroboranti quanto faticose - non bastano a lenire i dolori del corpo e dell'anima. Su suggerimento dell'amico Tonin, l'artista si concede la compagnia di un confidente, un taccuino su cui annotare quasi ogni giorno - dal 30 aprile 1880 al 22 marzo 1883 - impressioni, pensieri e ricordi. Circondato da una natura benigna e dalle premure di Reine, la domestica che lo assiste nei suoi gravosi tentativi di dipingere en plein air, Manet riversa quotidianamente le sue idee e il suo genio nelle pagine del diario. Tuttavia, esigenze artistiche e necessità economiche richiamano Manet in una Parigi vibrante di arte e di novità. Dallo studio dove intrattiene amici, amanti e potenziali clienti, riceve notizia del tanto agognato riconoscimento alla propria carriera, prima con una medaglia dal prestigioso Salon e poi con la croce di cavaliere della Legion d'onore. Un riconoscimento tardivo, ma è il prezzo da pagare per la sua visione schietta dell'arte, ostinata a perseguire uno stile personale malgrado le critiche e l'impopolarità: al centro delle sue opere non figurano personaggi idealizzati, che siano generali eroici o nobili uomini di campagna, bensì soggetti spogli di ogni sentimentalismo o aura mitologica. Ed è proprio per celebrare questo spaccato di autentica modernità, nonché per lasciare una sorta di testamento spirituale, che Manet, pur sofferente e semi-immobilizzato, si dedica alla realizzazione del suo ultimo capolavoro, Il bar delle Folies Bergère, un quadro che diventerà l'icona di un'intera epoca e l'immagine immortale del suo talento. Purtroppo non basterà avvalersi di una carrozza per ogni minimo spostamento, né affidarsi a sostanze medicamentose che promettono miracoli e altrettanti rischi, e neppure circondarsi di fiori freschi ogni giorno, per sopravvivere ai dolori lancinanti che lo costringeranno a restare sdraiato quasi tutto il giorno, e persino a dipingere da quella posizione: Manet morirà la sera del 30 aprile 1883. Toccherà all'affezionata domestica Élisa conservare il taccuino che Manet le ha affidato e infine condividere con il mondo l'intimo racconto di una vicenda umana e artistica sincera e appassionata.
Claudia è solitaria ma sicura di sé, stravagante, si veste da uomo. Francesco è acceso e frenato da una fede dogmatica e al tempo stesso incerta. Lei lo provoca: lo sai che tua madre e mio padre sono amanti? Ma negli occhi di quel ragazzo remissivo intravede una scintilla in cui si riconosce. Da quel momento non si lasciano più. A Claudia però la provincia sta stretta, fugge appena può, prima Londra, poi Milano e infine Berlino, la capitale europea della trasgressione; Francesco resta fermo e scava dentro di sé. Diventano adulti insieme, in un gioco simbiotico di allontanamento e rincorsa, in cui finiscono sempre per ritrovarsi. Mario Desiati mette in scena le mille complessità di una generazione irregolare, fluida, sradicata: la sua. Quella di chi oggi ha quarant'anni e non ha avuto paura di cercare lontano da casa il proprio posto nel mondo, di chi si è sentito davvero un cittadino d'Europa. Con una scrittura poetica ma urticante, capace di grande tenerezza, dopo "Candore" torna a raccontare le mille forme che può assumere il desiderio quando viene lasciato libero di manifestarsi. Senza timore di toccare le corde del romanticismo, senza pudore nell'indagare i dettagli più ruvidi dell'istinto e dei corpi, interroga il sesso e lo rivela per quello che è: una delle tante posture inventate dagli esseri umani per cercare di essere felici. «A volte si leggono romanzi solo per sapere che qualcuno ci è già passato». Claudia entra nella vita di Francesco in una mattina di sole, nell'atrio della scuola: è una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio di vita. Cresceranno insieme, bisticciando come l'acqua e il fuoco, divergenti e inquieti. Lei spavalda, capelli rossi e cravatta, sempre in fuga, lui schivo ma bruciato dalla curiosità erotica. Sono due spatriati, irregolari, o semplicemente giovani. Un romanzo sull'appartenenza e l'accettazione di sé, sulle amicizie tenaci, su una generazione che ha guardato lontano per trovarsi.
La lingua batte dove il dente duole, e il dente che duole alla fin fine è sempre lo stesso. L'unica rivoluzione possibile è smettere di piangerci su. In questo romanzo esilarante e feroce, Veronica Raimo apre una strada nuova. Racconta del sesso, dei legami, delle perdite, del diventare grandi, e nella sua voce buffa, caustica, disincantata esplode il ritratto finalmente sincero e libero di una giovane donna di oggi. "Niente di vero" è la scommessa riuscita, rarissima, di curare le ferite ridendo. «All'inizio c'è la famiglia. Veronica Raimo racconta che, specialmente se si è figlie, quell'inizio combacia con la fine» (Domenico Starnone). «Leggere questo romanzo è una festa. Ma molte pagine sono ferite da medusa: bruciano alla distanza» (Claudia Durastanti). Prendete lo spirito dissacrante che trasforma nevrosi, sesso e disastri famigliari in commedia, da Fleabag al Lamento di Portnoy, aggiungete l'uso spietato che Annie Ernaux fa dei ricordi: avrete la voce di una scrittrice che in Italia ancora non c'era. Veronica Raimo sabota dall'interno il romanzo di formazione. Il suo racconto procede in modo libero, seminando sassolini indimenticabili sulla strada. All'origine ci sono una madre onnipresente che riconosce come unico principio morale la propria ansia; un padre pieno di ossessioni igieniche e architettoniche che condanna i figli a fare presto i conti con la noia; un fratello genio precoce, centro di tutte le attenzioni. Circondata da questa congrega di famigliari difettosi, Veronica scopre l'impostura per inventare se stessa. Se la memoria è una sabotatrice sopraffina e la scrittura, come il ricordo, rischia di falsare allegramente la tua identità, allora il comico è una precisa scelta letteraria, il grimaldello per aprire all'indicibile. In questa storia all'apparenza intima, c'è il racconto precisissimo di certi cortocircuiti emotivi, di quell'energia paralizzante che può essere la famiglia, dell'impresa sempre incerta che è il diventare donna. Con una prosa nervosa, pungente, dall'intelligenza sempre inquieta, Veronica Raimo ci regala un monologo ustionante. «Veronica Raimo è l'unica che mi ha fatto ridere ad alta voce con un testo scritto in prosa da quando ero adolescente» (Zerocalcare).
Una famiglia americana, gli Hildebrandt, all'inizio dei tumultuosi anni Settanta: un microcosmo di sogni, paure, rivalità e sensi di colpa. Da una parte l'imperativo antico della legge morale, dall'altra la vita degli esseri umani, emozionante, spaventosa e ingovernabile. Ancora una volta, con l'ironia e l'empatia che sono la cifra della sua letteratura, Jonathan Franzen racconta una storia unica e insieme universale, sullo sfondo di un paese che non ha mai smesso di rifondare i propri miti. Sono i giorni dell'Avvento dell'anno 1971, a New Prospect, Chicago, ma la famiglia Hildebrandt non sembra ansiosa di festeggiare il Natale. Russ, pastore di una chiesa locale, desidera un unico regalo: passare qualche ora in compagnia di Frances Cottrell, una giovane, adorabile parrocchiana che mette a dura prova la sua fede e il suo matrimonio. Sua moglie Marion sa che i tempi turbolenti non garantiscono la stabilità coniugale, e teme che i brutti segreti che ha sempre nascosto a Russ stiano per venire a galla. Rifiutando il pacifismo del padre, Clem, il figlio più grande, vuole partire volontario per il Vietnam, non perché non sia lui stesso pacifista, ma perché non sopporta di essere un ragazzo bianco privilegiato. Sua sorella Becky, la ragazza più popolare della scuola, sta cercando di attirare l'attenzione di Dio e insieme quella di un giovane cantante folk, Tanner Evans, il primo che a New Prospect si è fatto crescere i capelli e ha iniziato a indossare pantaloni a zampa d'elefante. Per impressionare Tanner e irritare suo padre, Becky è entrata in un gruppo giovanile, Crossroads, animato da un altro pastore, Rick Ambrose, figura carismatica e manipolatrice, e bestia nera di Russ. Del gruppo fa parte anche il terzo figlio, Perry, un adolescente problematico e geniale, che per Natale ha deciso di smetterla per sempre con la marijuana e diventare un bravo ragazzo: ma non sempre i buoni propositi producono i risultati voluti. Da Natale fino alla Pasqua successiva, ognuno degli Hildebrandt sognerà per sé una vita diversa, un nuovo amore o un antico amore ritrovato, o una qualche sostanza stupefacente che metta a tacere i campanelli d'allarme. Il matrimonio di Russ e Marion era iniziato vent'anni prima, per entrambi nel segno della rinascita dopo una caduta. Ora un'eredità sgradita, scritta nei geni, chiede d'essere riscossa, riducendo in cenere sogni e speranze. Richiedendo lo sforzo di tutti per una nuova, difficile rifondazione. "Crossroads" è un romanzo intenso e trascinante, a tratti comico, a tratti drammatico e pieno di dolore, che segna il ritorno di Franzen nel cuore del cuore del paese, il Midwest delle Correzioni.
«Negli anni ho cominciato a pensare che qualunque strada si possa intraprendere per la felicità, questa debba necessariamente passare per una pineta. Una pineta da attraversare e un mare da raggiungere». C'è in questo libro l'invenzione di una forma, felicissima e leggera: il racconto in fiore, dove ogni uomo si staglia come un albero, a braccia aperte sotto il cielo. Una ramificazione di storie, intrecciate come l'edera, antiche come il grano, contorte e nodose e belle come i tronchi di olivo. Imparando a leggere le piante forse si scorgono le donne e gli uomini così come sono, nel ciclo spontaneo della loro natura, contraddittoria e vitale. Entrate sotto l'ombra dei rami in fiore: qui ci siete voi.
Giovanni Briccio è un genio plebeo, osteggiato dai letterati e ignorato dalla corte: materassaio, pittore di poca fama, musicista, popolare commediografo, attore e poeta. Bizzarro cane randagio in un'epoca in cui è necessario avere un padrone, Briccio educa la figlia alla pittura, e la lancia nel mondo dell'arte come fanciulla prodigio, imponendole il destino della verginità. Plautilla però, donna e di umili origini, fatica a emergere nell'ambiente degli artisti romani, dominato da Bernini e Pietro da Cortona. L'incontro con Elpidio Benedetti, aspirante scrittore prescelto dal cardinal Barberini come segretario di Mazzarino, finirà per cambiarle la vita. Con la complicità di questo insolito compagno di viaggio, diventerà molto più di ciò che il padre aveva osato immaginare. Melania Mazzucco torna al romanzo storico, alla passione per l'arte e i suoi interpreti. Mentre racconta fasti, intrighi, violenze e miserie della Roma dei papi, e il fervore di un secolo insieme bigotto e libertino, ci regala il ritratto di una straordinaria donna del Seicento, abilissima a non far parlare di sé e a celare audacia e sogni per poter realizzare l'impresa in grado di riscattare una vita intera: la costruzione di una originale villa di delizie sul colle che domina Roma, disegnata, progettata ed eseguita da lei, Plautilla, la prima architettrice della storia moderna.
Capricciosa, dispotica e tranchant: così è Aurora Greenway, vedova quarantanovenne di Houston, in Texas. In compenso ha capelli stupendi e un corpo che mantiene sodo cucinando in modo sopraffino e mangiando di gusto. Gli spasimanti, quindi, non le mancano, ma come scegliere tra il vicepresidente di banca impacciato, la vecchia fiamma sentimentale e il vicino che la spia con il binocolo, quando lei stessa sa che «solo un santo riuscirebbe a vivere con me, e io non riuscirei a vivere con un santo»? Di tutt'altra pasta è sua figlia Emma, una ragazza pacata e malinconica alle prese con un matrimonio sbagliato (cosa che Aurora non perde occasione di rinfacciarle). Suo marito, docente di letteratura e aspirante scrittore, dopo soli due anni ha già perso interesse nei suoi confronti, la loro vita sessuale è noiosa, le conversazioni litigiose. Forse un figlio sistemerà le cose? Non è di questo avviso sua madre, che al dolce annuncio anziché felicitarsi dà in escandescenze: chi, chi mai vorrà accompagnarsi con una nonna? La vita matrimoniale non sembra granché nemmeno per Rosie, la combattiva e instancabile donna di servizio di Aurora, che dopo ventisette anni e sette figli scopre che il marito le ha fatto un torto ben peggiore dell'occhieggiare la padrona sotto il suo naso. Bisticci, tumulti e scaramucce si smorzano nella birra e nel bourbon, fra tragicomici blackout di lucidità e giudizio.Ma una sotterranea rete d'amore lega le protagoniste, pronta a entrare in campo quando la vita colpisce più duro.
Chicago, 1985. Al giovane Yale Tishman non manca niente: ha un lavoro gratificante, una relazione stabile, un gruppo affiatato di amici. Ma il mondo intorno a lui sta crollando. La nuova epidemia di Aids si diffonde rapidamente anche a Chicago, e Yale assiste inerme alla sofferenza della sua comunità, legandosi sempre di più alla sorella di un amico, Fiona. Trent'anni dopo Fiona segue le tracce della figlia scomparsa. La ricerca l'ha condotta a Parigi: qui, tra le avversità del presente, un inatteso incontro con i ricordi le darà l'occasione per riconciliarsi con il passato.
«Se non capisci tua madre, è perché ti ha permesso di diventare una donna diversa da lei». Questa è la storia di chi parte e di chi resta. Di una madre che va a prendersi cura degli altri, dei suoi figli che rimangono a casa ad aspettarla covando ambizioni, rabbie, attese. E un'incontenibile voglia di andarsene lontano. Dopo "Resto qui", Marco Balzano torna con un racconto profondo e tesissimo di destini che ci riguardano da vicino, ma che spesso preferiamo non vedere. Un romanzo che va dritto al cuore, mostrando senza mai giudicare la forza dei legami e le conseguenze delle nostre scelte. Daniela ha un marito sfaccendato, due figli adolescenti e un lavoro sempre più precario. Una notte fugge di casa come una ladra, alla ricerca di qualcosa che possa raddrizzare l'esistenza delle persone che ama - e magari anche la sua. L'unica maniera è lasciare la Romania per raggiungere l'Italia, un posto pieno di promesse dove i sogni sembrano più vicini. Si trasferisce così a Milano a fare di volta in volta la badante, la baby-sitter, l'infermiera. Dovrebbe restare via poco tempo, solo per racimolare un po' di soldi, invece pian piano la sua vita si sdoppia e i ritorni si fanno sempre più rari. Quando le accade di rimettere piede nella sua vecchia casa di campagna, si rende conto che i figli sono ostili, il marito ancora più distante. E le occhiate ricevute ogni volta che riparte diventano ben presto cicatrici. Un giorno la raggiunge a Milano una telefonata, quella che nessuno vorrebbe mai ricevere: suo figlio Manuel ha avuto un incidente. Tornata in Romania, Daniela siederà accanto al ragazzo addormentato trascorrendo ostinatamente i suoi giorni a raccontargli di quando erano lontani, nella speranza che lui si svegli. Con una domanda sempre in testa: una madre che è stata tanto tempo lontana può ancora dirsi madre? A narrare questa storia sono Manuel, Daniela e Angelica, la figlia più grande. Tre voci per un'unica vicenda: quella di una famiglia esplosa, in cui ciascuno si rende conto che ricomporre il mosaico degli affetti, una volta che le tessere si sono sparpagliate, è la cosa più difficile.
Se questo libro fosse un disco, magari uno della leggendaria collezione di Murakami, sarebbe un concept album. Otto racconti molto diversi ma uniti dallo stesso «strumento» suonato: la prima persona singolare. Un Murakami davvero inedito, non solo perché sono nuove le storie che racconta. È nuovo il modo in cui si mette in gioco: otto diversi modi di dire «io», per parlare a tutti. «La "prima persona singolare" di Murakami osserva la vita da un punto preciso, lì dove la realtà deraglia e il particolare si fa universale. Questo libro ci svela che davvero esiste un mondo, un altro mondo, dentro al nostro» (Laura Imai Messina). Murakami Haruki è da solo in viaggio nel nord del Giappone quando decide di fermarsi per la notte in un ryokan, le tipiche locande di montagna giapponesi. Ad accoglierlo un locandiere vecchissimo e di poche parole e un gatto che appare altrettanto decrepito. Ma che importa, il posto è accogliente e poi non c'è altro disponibile nei dintorni: anzi, Murakami decide di approfittare del bagno termale per rilassarsi. Ed è lì, tra i vapori dell'acqua calda, che entra una scimmia: «Buonasera », dice la scimmia, «vuole che le lavi la schiena?» La scimmia ha imparato a parlare dal suo antico padrone, un professore di Shinagawa, un quartiere di Tokyo, ama ascoltare Bruckner (apprezza in particolare il terzo movimento della Settima sinfonia) e ha una vita molto interessante alle spalle. La racconterà al nostro narratore poco dopo, in camera, mentre si bevono una Sapporo come due vecchi amici che, complice la notte, aprono il loro cuore intorno al tema dei temi: l'amore, l'amore romantico e quello erotico, la solitudine e il suo opposto, il desiderio e ciò che significa nella vita degli esseri viventi. Pare proprio che, con la raggiunta maturità anagrafica e artistica, Murakami Haruki abbia deciso di puntare il telescopio della sua arte verso l'interno, verso quella «prima persona singolare» che nelle opere precedenti restava nell'ombra. E per farlo ci regala otto racconti in cui dice «io», otto gemme che anche quando sconfinano nei mari del fantastico non rinunciano alla sincerità, al calore della confessione, all'emozione di un cuore per la prima volta messo a nudo.
Manhattan, 2022. Una coppia è in volo verso New York, di ritorno dalla loro prima vacanza dopo la pandemia. In città, in un appartamento nell'East Side, li aspettano tre loro amici per guardare tutti insieme il Super Bowl: una professoressa di fisica in pensione, suo marito e un suo ex studente geniale e visionario. Una scena come tante, un quadro di ritrovata normalità. Poi, all'improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio. Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?) L'aereo è costretto a un atterraggio di fortuna. E addio Super Bowl. Cosa sta succedendo? È l'inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente? O è il collasso della tecnologia su se stessa, sotto il proprio tirannico peso? È l'apparizione di un buco nero, l'aprirsi di una piega dello spazio e del tempo in cui le nostre vite scivolano inesorabilmente? Di certo c'è questo: era dai tempi di "Rumore bianco" che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.
Esiste una soglia che separa il quotidiano da una dimensione sconfinata e forse inaccessibile, dove qualcosa che riverbera - di cui intuiamo appena il disegno - ci attrae senza sosta. Un soffio silenzioso, più vivo che mai, che ci sorprende nel nostro agire, ci mette a fuoco dentro e fuori. Proviamo il desiderio improvviso di sbirciare al di là della nostra finitudine, dove l'esperienza umana e l'intangibile s'incontrano in forma di preghiera, di imprecazione furiosa, di boato assordante. Ecco cosa accade ai personaggi che abitano i racconti di questa raccolta. Così Maupassant ci mostra un prete dal cuore di pietra ammorbidito da una notte di luna, Hermann Hesse il sacrificio di un uomo mite che forse ha parlato con Dio, Giovannino Guareschi un professore trafitto dalla saggezza nascosta del suo peggiore studente. E mentre Olga Tokarczuk racconta come si possa continuare a prendersi cura anche di chi non c'è più, Vasilij Grossman ci narra l'epopea di un mulo capace d'amore in un mondo in guerra, fino a Natalia Ginzburg che intravede il divino «sotto una coperta sudicia, piena di cimici». Attraverso le loro parole, allora, riconosciamo come familiare quello che in noi non era ancora venuto alla luce, e percorriamo in punta di piedi il ponte tra ciò che si annida nel nostro cuore e ciò che, misteriosamente, lo trascende. Con uno scritto di Gabriella Caramore.
È il momento più buio della notte, quello che precede l'alba, quando Adriana tempesta alla porta con un neonato tra le braccia. Non si vedevano da un po', e sua sorella nemmeno sapeva che lei aspettasse un figlio. Ma da chi sta scappando? È davvero in pericolo? Adriana porta sempre uno scompiglio vitale, impudente, ma soprattutto una spinta risoluta a guardare in faccia la verità. Anche quella più scomoda, o troppo amara. Così tutt'a un tratto le stanze si riempiono di voci, di dubbi, di domande. Entrando nell'appartamento della sorella e di suo marito, Adriana, arruffata e in fuga, apparente portatrice di disordine, indicherà la crepa su cui poggia quel matrimonio: le assenze di Piero, la sua tenerezza, la sua eleganza distaccata, assumono piano piano una valenza tutta diversa. Anni dopo, una telefonata improvvisa costringe la narratrice di questa storia a partire di corsa dalla città francese in cui ha deciso di vivere. Inizia una notte interminabile di viaggio - in cui mettere insieme i ricordi -, che la riporterà a Pescara, e precisamente a Borgo Sud, la zona marinara della città. È lì, in quel microcosmo così impenetrabile eppure così accogliente, con le sue leggi indiscutibili e la sua gente ospitale e rude, che potrà scoprire cos'è realmente successo, e forse fare pace col passato.
«Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell'incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. Preghiamo di non incontrare sulla nostra strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?» "Le parole di Nicola Lagioia ci portano dentro il caso di cronaca più efferato degli ultimi anni. Un viaggio per le strade buie della città eterna, un'indagine sulla natura umana, sulla responsabilità e la colpa, sull'istinto di sopraffazione e il libero arbitrio. Su chi siamo, o chi potevamo diventare. Nel marzo 2016, in un anonimo appartamento della periferia romana, due ragazzi di buona famiglia di nome Manuel Foffo e Marco Prato seviziano per ore un ragazzo più giovane, Luca Varani, portandolo a una morte lenta e terribile. È un gesto inspiegabile, inimmaginabile anche per loro pochi giorni prima. La notizia calamita immediatamente l'attenzione, sconvolgendo nel profondo l'opinione pubblica. È la natura del delitto a sollevare le domande più inquietanti. È un caso di violenza gratuita? Gli assassini sono dei depravati? Dei cocainomani? Dei disperati? Erano davvero consapevoli di ciò che stavano facendo? Qualcuno inizia a descrivere l'omicidio come un caso di possessione. Quel che è certo è che questo gesto enorme, insensato, segna oltre i colpevoli l'intero mondo che li circonda. Nicola Lagioia segue questa storia sin dall'inizio: intervista i protagonisti della vicenda, raccoglie documenti e testimonianze, incontra i genitori di Luca Varani, intrattiene un carteggio con uno dei due colpevoli. Mettersi sulle tracce del delitto significa anche affrontare una discesa nella notte di Roma, una città invivibile eppure traboccante di vita, presa d'assalto da topi e animali selvatici, stravolta dalla corruzione, dalle droghe, ma al tempo stesso capace di far sentire libero chi ci vive come nessun altro posto al mondo. Una città che in quel momento non ha un sindaco, ma ben due papi. Da questa indagine emerge un tempo fatto di aspettative tradite, confusione sessuale, difficoltà nel diventare adulti, disuguaglianze, vuoti di identità e smarrimento. Procedendo per cerchi concentrici, Nicola Lagioia spalanca le porte delle case, interroga i padri e i figli, cercando il punto di rottura a partire dal quale tutto può succedere".
Può una fake news segnare il destino di un continente? È quello di cui sono convinti un industriale ricco di denaro e appoggi politici e un pubblicitario senza scrupoli. Insieme daranno il via agli avvenimenti che nel 1954 porteranno a un colpo di stato in Guatemala appoggiato dalla Cia. Ma se sul palcoscenico della Storia sale lei, Marta, eccentrica e bellissima appassionata di politici in generale e di dittatori in particolare, capiamo che tutto può succedere, anche quando pensiamo di sapere già come andrà a finire. Nel 1954 la United Fruit Company - la futura Chiquita - è un'azienda fiorente: è riuscita a introdurre le banane nella dieta di tutto il mondo sfruttando per anni le terre e i contadini dell'America Centrale grazie alla complicità di dittatori corrotti. Ma da quando il governo guatemalteco cerca di mettere in atto una riforma agraria, il magnate delle banane Zemurray si sente minacciato. Che fare? Basta rivolgersi a un esperto di relazioni pubbliche per far sì che i fatti vengano travisati da qualche stimato giornalista. In breve tempo si diffonde la notizia - una fake news ante litteram - che in America Latina la minaccia del comunismo è dietro l'angolo e che va stroncata sul nascere. E allora, per scongiurare il pericolo rosso, la Cia si affretta a organizzare un colpo di stato per deporre Jacobo Árbenz, forse un po' ingenuo, ma sinceramente democratico, lontano anni luce dall'Unione Sovietica e dalla sua influenza... E al centro della storia, una donna, Marta, a cui l'autore attribuisce il ruolo più importante: quello della testimone. Con questo romanzo Vargas Llosa torna alle atmosfere e ai personaggi che l'hanno reso grande. In "Tempi duri" (che non a caso ha più di un punto di contatto e nome in comune con il suo classico "La festa del Caprone"), Vargas Llosa mescola la realtà storica con due finzioni: quella del romanziere, che qui crea alcuni dei personaggi più memorabili dell'autore peruviano, e quella del potere e della propaganda. Accompagnando il lettore a perdersi in atmosfere e «favole» che non sembrano poi così lontane dal clima politico di oggi, in cui l'opinione pubblica è più interessata a una «bella storia» che alla verità.
"Via Gemito" è la storia di un uomo che se non avesse avuto una famiglia sarebbe diventato un grande pittore, questa almeno sarà la convinzione di tutta la sua vita. Federì è un artista, ma deve fare il ferroviere, e al mondo non potrà mai perdonare il destino scelto per lui. E se la prende con la moglie, una donna soffocata nel ruolo di sarta e madre, e con i figli. Ed è uno di loro, il primogenito, a raccontare questa figura di padre verboso e rancoroso, violento con le mani e con le parole.
Elena è giovane, Pietro è molto più vecchio di lei. Ma si sono scelti, e dalla loro relazione hanno deciso di tener fuori le ferite della vita di prima: fanno l'amore con il gusto di chi scopre tutto per la prima volta, bevono caipirinha quando lui torna tardi, si concentrano sull'ebbrezza del quotidiano. Quando Maria, l'ex moglie di Pietro, riesce a conoscere Elena con un inganno, la vita si complica per tutti. Le due donne si raccontano, si confidano e confrontano, e poco per volta la figura di Pietro si trasforma per tutt'e due. La scrittura affilata e rivelatrice di Cristina Comencini torna a illuminare i vortici e le secche delle relazioni, scegliendo la prospettiva di due donne rivali che in comune sembrano avere soltanto lo stesso uomo. Una turbinosa e vitalissima riflessione sulla complicità e sulla rivalità femminile. E su quella stanza tutta per sé a cui gli uomini - con questo romanzo - possono avere accesso.
Nella piantagione di Lockless vive Hiram Walker: ha diciannove anni ed è nato schiavo, ma possiede qualcosa che lo rende unico. Il padre di Hiram è il proprietario della piantagione: come spesso accadeva all'epoca, ha messo incinta una schiava e l'ha poi venduta quando Hiram era solo un bambino. Della madre Hiram non ricorda niente, nonostante la memoria portentosa che, insieme alla sua intelligenza, gli ha permesso di lavorare a stretto contatto con i bianchi. Un giorno, quando Hiram ha diciannove anni, succede qualcosa di inspiegabile: gettato nelle acque tormentose di un fiume, il giovane scopre di possedere un misterioso potere. Un potere, una visione che si trasformerà in una missione, per sé e per tutto il suo popolo. La storia della sua fuga dalla piantagione e di come imparerà a controllare la «Conduzione» è la storia della sua presa di coscienza, individuale e collettiva. È la storia di un riscatto e di un amore: perché è la storia di una rivolta.
Paul Temple è un giovane scrittore americano in visita a Venezia. Riservato e ambizioso, è in cerca dell'ispirazione per una nuova opera. Venezia è una meraviglia per gli spiriti affamati di bellezza: la laguna, le botteghe degli antiquari, le vetrine con i liuti rinascimentali, le passeggiate nel mercato, tra oche infuriate e tinozze che brulicano di anguille. In uno dei salotti cosmopoliti e artistici della città Mr Temple incontra Miss Annelien Bruins, occhi azzurri e una spolverata di efelidi sulle guance, pare la musa di un preraffaellita. La loro liaison amorosa si dispiega tra canali, dissertazioni sull'arte e persino una seduta spiritica. Ma Annelien ha un segreto, un mistero dal passato che rende lei infelice e il loro un amore impossibile.
David fa sempre molte domande. Durante le lezioni di danza si muove come vuole. A scuola si rifiuta di fare le addizioni e si ostina a leggere esclusivamente il 'Don Chisciotte'. Ma è il calcio la sua vera passione. Un giorno Julio Fabricante, direttore di un vicino orfanotrofio, invita David e i suoi amici a formare una vera squadra di calcio. David ha deciso: lascerà Simón e Inés per vivere con Julio. La scelta getta la famiglia nello sconforto, ma David è inamovibile. I genitori acconsentono, loro malgrado, ignari di quello che succederà di lì a poco. Perché nella nuova sistemazione David si ammala di una misteriosa malattia... Coetzee torna a esplorare il mondo de "L'infanzia di Gesù" e "I giorni di scuola di Gesù": con le sue atmosfere evocative, il richiamare e allo stesso tempo allontanarsi da un allegorico ri-racconto evangelico, gli enigmi e le inaspettate dolcezze, la trilogia di «Gesù» raggiunge con questo romanzo il suo culmine artistico e simbolico. Coetzee non ha intenzione di fornire risposte, ma di porre grandi domande: non è forse questo il compito più arduo della letteratura?
Larry ha appena perso il padre, ebreo ortodosso di Brooklyn, ed è ospite, o meglio prigioniero, in casa della sorella, severa esponente della comunità religiosa di Memphis, Tennessee. Con lei sta celebrando i sette giorni di lutto stretto, la shivah. E dopo la shivah verrà il Kaddish del lutto, la preghiera per il defunto che il figlio maschio deve recitare ogni giorno per undici mesi alla presenza di un minian di almeno dieci maschi ebrei. Ma, una volta tornato a Brooklyn, lo scapestrato Larry manterrà il suo impegno? E ne sarà poi all'altezza? Una soluzione esiste ed è là dove tutti i saperi si fondono e diffondono: il World Wide Web. Sul sito kaddish.com, connubio di moderna tecnologia e antiche tradizioni pensato proprio per supplire alle mancanze di ebrei poco rigorosi come Larry, è possibile assoldare bravi e devoti studiosi della Torah che, in cambio di un compenso in denaro, si incaricano di salvare l'anima del defunto per conto terzi. Sembrerebbe la quadratura del cerchio, per il (non) credente postmoderno, ma sarà davvero così? Gli effetti della navigazione notturna di Larry nell'oceano di internet finiranno, a molti anni di distanza, per farlo approdare proprio in quella Gerusalemme ancestrale da cui lui aveva cercato in ogni modo di tenersi alla larga. E nel «folle guazzabuglio» dei vicoli di Nachlaot, dove «ci sono case signorili nascoste dietro cancelli sgangherati, e stamberghe là dove ci si aspetta di scorgere case signorili», nelle viuzze popolate da donne che incarnano la resilienza e l'abnegazione delle prime pioniere del sionismo, nelle scuole talmudiche frequentate da impavidi giovani dediti all'incessante studio della Torah e rabbini venerandi e imperscrutabili, Larry finirà per scoprire insospettate verità.
Jim Sams si sveglia da sogni inquieti per ritrovarsi trasformato, dallo scarafaggio che era, in un essere umano. Nel corso della notte la creatura che fino al giorno prima sfrecciava tra mucchi di immondizia e canaline di scolo è diventata il piú importante leader politico del suo tempo: il primo ministro inglese. Tuttavia, forte della grande capacità di ogni scarafaggio di sopravvivere, Jim Sams si adatta rapidamente al nuovo corpo. In breve presiede le riunioni del Consiglio dei ministri, dove si rende conto che gran parte del suo Gabinetto ha subito la stessa sorte e che quegli scarafaggi trasformati in umani sono piú che disposti ad abbracciare le sue innovative idee di governo. I capi di stato stranieri sembrano sconcertati dalle mosse arroganti e avventate di Jim Sams, a eccezione del presidente degli Stati Uniti d’America, che lo appoggia con entusiasmo. Qualunque riferimento a fatti realmente accaduti e persone realmente esistenti non sembra da escludere. Con l’intelligenza, lo spirito e la caustica ironia che gli sono inconfondibilmente propri, Ian McEwan rende omaggio al genio di Franz Kafka e alla tradizione satirica inglese che ha in Jonathan Swift il suo piú eminente rappresentante. Questa metamorfosi al contrario diventa una lente attraverso cui osservare un mondo ormai del tutto sottosopra. «Il populismo – scrive McEwan nella postfazione – ignaro della sua stessa ignoranza, tra farfugliamenti di sangue e suolo, assurdi principî nativistici e drammatica indifferenza al problema dei cambiamenti climatici, potrebbe in futuro evocare altri mostri, alcuni dei quali assai piú violenti e nefasti perfino della Brexit. Ma in ciascuna declinazione del mostro, a prosperare sarà sempre lo spirito dello scarafaggio. Tanto vale che impariamo a conoscerla bene, questa creatura, se vogliamo sconfiggerla. E io confido che ci riusciremo».
Pietro vive con Teresa un amore tempestoso. Dopo l'ennesimo litigio, a lei viene un'idea: raccontami qualcosa che non hai mai detto a nessuno - gli propone -, raccontami la cosa di cui ti vergogni di piú, e io farò altrettanto. Cosí rimarremo uniti per sempre. Si lasceranno, naturalmente, poco dopo. Ma una relazione finita è spesso la miccia per quella successiva, soprattutto per chi ha bisogno di conferme. Cosí, quando Pietro incontra Nadia, s'innamora all'istante della sua ritrosia, della sua morbidezza dopo tanti spigoli. Pochi giorni prima delle nozze, però, Teresa magicamente ricompare. E con lei l'ombra di quello che si sono confessati a vicenda, quasi un avvertimento: «Attento a te». Da quel momento in poi la confidenza che si sono scambiati lo seguirà minacciosa: la buona volontà poggia sulla cattiva coscienza, e Pietro non potrà mai piú dimenticarlo. Anche perché Teresa si riaffaccia sempre, puntualmente, davanti a ogni bivio esistenziale. O è lui che continua a cercarla? Dopo "Lacci e Scherzetto", Domenico Starnone prosegue il suo lavoro di scavo sull'ambivalenza delle persone e delle relazioni. Con uno sguardo insieme complice e distaccato, ci racconta di un uomo inadeguato a se stesso e alle proprie ambizioni. Ma in realtà ci racconta di noi, di quanto sismico sia il terreno su cui si regge la costruzione della nostra identità.
Libro Primo: Idee che affiorano: Una borsa con qualche vestito e le matite per disegnare. Quando la moglie gli dice che lo lascia, il protagonista di questa storia non prende altro: carica tutto in macchina e se ne va di casa. Del resto che altro può fare? Ha trentasei anni, una donna che l'ha tradito, un lavoro come pittore di ritratti su commissione che porta avanti senza troppa convinzione dopo aver messo da parte ben altre aspirazioni artistiche, e la sensazione generale di essere un fallito. Così inizia a vagabondare nell'Hokkaid?, tra paesini di pescatori sulla costa e ry?kan (le tipiche pensioni a conduzione famigliare giapponesi) sulle montagne. Finché un vecchio amico gli offre una sistemazione: potrebbe andare a vivere nella casa del padre, lasciata vuota da quando questi è entrato in ospizio in preda alla demenza senile. Il giovane ritrattista accetta, anche perché il padre dell'amico è Amada Tomohiko, uno dei pittori più famosi e importanti del Giappone: abitare qualche tempo nella casa che fu sua, per quanto isolata in mezzo ai boschi, è una tentazione troppo forte. Quando si trasferisce lì, il nostro protagonista capisce che la sua decisione ha dato il via a una serie di eventi che cambieranno per sempre la sua vita... Libro Secondo: Metafore che si trasformano: Nella casa in mezzo al bosco che fu l'abitazione e l'atelier di Amada Tomohiko, il grande artista autore del misterioso quadro «L'assassinio del Commendatore», vive ormai da qualche mese il giovane pittore protagonista di questa storia. La dimora è sperduta, ma non del tutto isolata: nel primo volume, "Idee che affiorano", avevamo conosciuto Menshiki, un vicino ricchissimo e sfuggente mosso da motivazioni solo a lui note. O la piccola Akikawa Marie, studentessa del corso di disegno tenuto dal protagonista, che per una volta sembra abbassare le difese e stringere un legame profondo col suo professore. Per non parlare del Commendatore stesso... Con "Metafore che si trasformano" si conclude l'"Assassinio del Commendatore". Come un mago al culmine del suo potere incantatorio, Murakami Haruki dà vita a un intero universo (a più di uno, a dire il vero...) popolato di personaggi, storie e enigmi che hanno la potenza indimenticabile dei sogni più vividi. Ma non è solo il gusto per il racconto a muoverlo: una volta giunto al termine di questo viaggio visionario, il lettore si scopre trasformato come i personaggi di cui ha letto le avventure, esposto, quasi senza averne avuto consapevolezza, al cuore pulsante della grande letteratura.
Nel giugno 1219 Francesco d'Assisi parte per nave alla volta dell'Oriente e si lancia in un'impresa temeraria: raggiungere Damietta assediata dai crociati e incontrare il Sultano d'Egitto. Che cosa si sono detti il giullare di Dio e il sovrano saraceno nel pieno di una guerra sanguinosa? Il capitolo piú avventuroso e rivelatore della vita del santo come non è mai stato raccontato.
Francesco d’Assisi ha trentasette anni quando si imbarca ad Ancona per la Terra Santa. Insieme al fidato frate Illuminato lascia temporaneamente un Ordine già turbato dai primi contrasti e ancora privo di una Regola approvata dal papa. Malgrado le malattie che lo affliggono, è deciso ad affrontare ogni difficoltà pur di incontrare il Sultano d’Egitto, che a Damietta deve sostenere l’assedio di un poderoso esercito crociato. Vuole convertirlo? Intende offrire un esempio di proselitismo ai suoi frati? O cerca il martirio? L’uomo che vuole riportare il Cristianesimo alla spiritualità delle origini e ama definirsi «unus novellus pazzus», torna dopo un anno profondamente mutato. Ha vissuto gli orrori della guerra, ma anche il fascino di una spiritualità che ha molti punti di contatto con la sua e lo aiuta a trovare le parole del Cantico delle creature. In una comunità cresciuta troppo in fretta, deve affrontare conflitti, delusioni, infermità sempre piú crudeli. Ma perché quarant’anni dopo Bonaventura da Bagnoregio, incaricato di scrivere la sua unica biografia autorizzata, racconta una verità diversa, in cui Francesco avrebbe sfidato il Sultano alla prova del fuoco? Un «falso d’autore» accuratamente architettato che verrà autenticato dagli affreschi della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto, e finirà per occultare un modello di dialogo tra l’Europa cristiana e l’Oriente mussulmano. Ernesto Ferrero ricostruisce una vicenda tumultuosa inserendola nel quadro di un’epoca in cui si muovono papi e imperatori, vescovi e cardinali, frati e soldati, mercanti e pellegrini, cronisti e pittori, tutti agitati da ambizioni, visioni, sogni piú grandi di loro. Ognuno è portatore della diversa immagine del santo che nella radicalità delle sue sfide continua a sottrarsi a ogni definizione. Con il passo di un romanzo d’avventura e la precisione di una biografia, Francesco e il Sultano trasforma il tessuto di racconti favolosi che chiamiamo Storia in una vicenda che continua a riguardarci da vicino.
Andrea Dileva, quarantenne, studioso, curioso, professore di greco, si sveglia un giorno senza il cuore. Laura vive con lui, è abituata alle sue mancanze, ma questa proprio non se l'aspettava. Carla in teoria sarebbe la sua amante, ma a casa ha un cane, un bimbo, un marito, e poi con il corpo di Andrea ha sempre avuto un rapporto difficile, in fin dei conti le va bene anche cosí. Forse Simone avrebbe la fantasia per capire com'è che l'amico di mamma sta perdendo i pezzi, d'altronde è stato proprio lui a raccontargli storie di leviatani giganti e donne con la coda di pesce. Ma Simone ha otto anni e nessuno ha chiesto il suo parere. Andrea cerca dappertutto una storia che assomigli alla sua, senza trovarla: eppure era convinto che la mitologia fosse l'archetipo di ogni cosa. Certo, se l'umanità intera ha il terrore di morire, deve prendere atto che per lui è diventato impossibile. Come può smettere di battere un cuore che non c'è piú?
Con l’eredità che gli ha lasciato sua madre, Charlie Friend avrebbe potuto comprare casa in un quartiere elegante di Londra, sposare l’affascinante vicina del piano di sopra, Miranda, e coronare con lei il sogno di una tranquilla vita borghese. Ma molte cose, in questo 1982 alternativo, non sono andate com’era scritto. La guerra delle Falkland si è conclusa con la sconfitta dell’Inghilterra e i quattro Beatles hanno ripreso a calcare le scene. E con l’eredità Charlie ci ha comprato una macchina. Bellissima e potente, dotata di un nome e di un corpo, la macchina ha intelligenza e sentimenti e una coscienza propri: è l’androide Adam, creato dagli uomini a loro immagine e somiglianza. La sua stessa esistenza pone l’eterna domanda: in cosa consiste la natura umana?
Londra, un altro 1982. Nelle isole Falkland infuriano gli ultimi fuochi della guerra contro l’Argentina, ma per le vie della città non sventoleranno le bandiere della vittoria. I Beatles si sono da poco ricostituiti e la voce aspra di John Lennon continua a diffondersi via radio. Anche il meritorio decrittatore del codice Enigma, Alan Turing, è scampato alla morte precoce, e i suoi studi hanno reso possibili alcune delle conquiste tecnologiche di questi «altri» anni Ottanta, dalle automobili autonome ai primi esseri umani artificiali. Fra chi non resiste alla tentazione di aggiudicarsi uno dei venticinque prototipi esistenti nel mondo, dodici Adam e tredici Eve, c’è Charlie Friend. Certo, un grosso investimento per un trentaduenne che si guadagna da vivere comprando e vendendo titoli online. Ma Charlie è convinto che quel suo Adam bellissimo, forte, capace in tutto, «articolo da compagnia, sparring partner intellettuale, amico e factotum» secondo le promesse dei costruttori, gli sarà di grosso aiuto con l’affascinante ma sfuggente Miranda, la giovane vicina del piano di sopra. Per certi versi non ha torto. Il primo non-uomo ha accesso a tutto quello che si può sapere, dalla soluzione del problema matematico P e NP, all’influenza di Montaigne su Shakespeare, fino al modo di vincere le resistenze di Miranda e penetrarne il segreto. Un segreto complicato e doloroso che, quando emerge, pone ciascuno di fronte a un dilemma etico lacerante. Ma la legge piú inviolabile dell’androide recita: «Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno». E per un’intelligenza artificiale tanto sofisticata da anteporre la coscienza alla scienza, il concetto di danno può essere piú profondo e micidiale di quel che appare.
Prima erano inseparabili: Pietro figlio dei servi, Paolo dei padroni, un'adolescenza trascorsa in comunione con la natura, nel cuore vivo di una Sardegna selvaggia. I giochi, le parole pronunciate per conoscersi o per ferire, poi Lucia, «una giovane acacia selvatica»: sono tante le vie per scoprire chi sei, chi vuoi diventare, qual è la misura esatta del tuo potere. Quando Paolo viene chiamato alle armi, per una promessa che assomiglia a un patto di sangue si arruola anche Pietro, da volontario. Il suo compito è guardare a vista l'amico fragile, sorvegliarlo, proteggerlo. Le disparità nel loro rapporto ora non è più possibile ignorarle, s'impongono come le regole di grammatica che Paolo un tempo spiegava a Pietro: ci sono dei verbi, gli ausiliari, che permettono a tutti gli altri di spostarsi nello spazio e nel tempo. «Non lasciarmi» chiede Paolo, e Pietro forse lo tradirà o forse rispetterà la promessa, ma da quei giorni di bombe e combattimenti le loro vite, e quelle delle loro famiglie in Sardegna, cambieranno per sempre. Sino a quel mattino di gennaio in cui, ormai uomini fatti, si troveranno di nuovo uno di fronte all'altro. In una resa dei conti dove tradirsi o salvarsi può essere paradossalmente lo stesso gesto.
Trent'anni, un impiego da postino, giorni solitari e un gatto a cui badare. Quando scopre di avere una malattia incurabile e poche settimane da vivere, il protagonista indugia sulla lista delle dieci cose da fare prima della fine. Ma presto avrà ben altri pensieri, perché il Diavolo... gli ha proposto un affare! Ogni giorno cedere qualcosa del mondo in cambio di ventiquattro ore di vita in piú. Il ragazzo accetta. Rinunciare a telefoni, orologi o film? Ma certo, in fondo si può fare a meno di quasi tutto. Se non fosse che per ogni oggetto c'è un ricordo. E che ogni patto con il Diavolo implica un distacco doloroso e cambia il corso della vita del protagonista e dei suoi cari. È per questo che quando Belzebú reclama l'esistenza dei gatti, il ragazzo esita: ventiquattro ore valgono davvero la perdita dell'affetto di un micino e di tutto quello che rappresenta per lui?
Un capolavoro di tenera e dolente maturità, per un'autrice oggi ventottenne che a ogni nuovo passo sbaraglia tutte le aspettative.
Marianne e Connell si parlano di tutto ma solo all'insaputa di tutti, si frugano i corpi e i sentimenti ma solo di nascosto, come pianeti dalle orbite imprevedibili si girano intorno, fra moti armonici e strazianti collisioni. Cosa impedisce a due ragazzi dei nostri giorni disinvolti di stare insieme in libertà e leggerezza? Gli squilibri di classe e potere? Le «stelle contrarie»? O solo l'orrore, e l'attrazione, della normalità? Nell'abbraccio in cui si stringono, però, «il suo corpo sposa quello di lei come quei materassi che pare facciano bene alla salute». E in quel quieto, benefico sostenersi sembra tacere ogni domanda. Dopo l'esplosivo debutto di Parlarne tra amici , Sally Rooney ci offre un nuovo, emozionante manuale sentimentale per la nostra modernità. «Il suo primo romanzo è stato universalmente e meritatamente acclamato. Era difficile credere che potesse mai scrivere qualcosa di meglio. Invece è successo». Connell e Marianne frequentano la stessa scuola di Carricklea, un piccolo centro dell'Irlanda rurale appena fuori Sligo. A parte questo, non hanno niente in comune. Lei appartiene a una famiglia agiata e guasta che non le fa mancare nulla tranne i fondamenti dell'amore e del rispetto. Lui è il figlio di una donna pratica e premurosa che per mantenerlo fa la domestica in casa d'altri (quella della madre di Marianne). Nell'inventario di vantaggi e svantaggi, l'inferiorità economica di Connell è bilanciata sul piano sociale. Lui è il bel centravanti della squadra di calcio della scuola e fra i compagni è molto amato, mentre Marianne, che nella pausa pranzo legge da sola Proust davanti agli armadietti, è quella strana ed evitata da tutti. Se la loro fosse una battaglia, o anche solo una sequenza di scaramucce amorose, si potrebbe dire che le frecce al loro arco si equivalgono. Ma Connell e Marianne sono «come due pianticelle che condividono lo stesso pezzo di terra, crescendo l'una vicino all'altra, contorcendosi per farsi spazio, assumendo posizioni improbabili»: nella loro crescita, si appoggiano e si scavalcano, si fanno molto male ma anche molto bene, e la sofferenza che si procurano non è che boicottaggio di sé. Certo, la ferocia informa tutti i rapporti di potere che vigono fra i personaggi, nella piccola scuola di provincia come nel prestigioso Trinity College cui entrambi i ragazzi accedono, nelle dinamiche di genere come negli equilibri famigliari. Perfino in quelle dicotomie sommarie che tanto Connell quanto Marianne subiscono, e in cui essi stessi indulgono: quelle fra persone gentili e persone crudeli, fra brave persone e persone cattive, corrotte, sbagliate, fra persone strane e persone normali. In un modo o nell'altro entrambi aspirano alla normalità, Connell per un'innata benché riprovevole pulsione di conformità, Marianne forse per sfuggire a quella cruda e pervasiva sensibilità che tanto dolore le causa e che facilmente vira all'autodistruttività. C'è Jane Austen in queste pagine, la forza del suo dialogo, la violenza sotterranea delle sue relazioni, e l'omonimia di Marianne con l'eroina del suo romanzo piú celebre ne è un indizio. Per anni Marianne e Connell si ruotano intorno «come pattinatori di figura», rischiando la vita e salvandosela, chiedendosi, promettendosi, negandosi, dimostrandosi che quella che li lega è una storia d'amore. La conclusione è un capolavoro di tenera e dolente maturità, per un'autrice oggi ventottenne che a ogni nuovo passo sbaraglia tutte le aspettative.
Esiste un'isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull'acqua, ed è lì che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant'anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l'altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze». Questo romanzo limpido e intenso forse è una piccola storia d'amore, forse una grande lezione sulla possibilità di non fermarsi. Di espiare, dimenticare, ricominciare. «Vederli andare via è la cosa più difficile, perché: dove andranno. Sono ancora così piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui».
«Il malinteso», così Carlo e Margherita chiamano il dubbio che ha incrinato la superficie del loro matrimonio. Carlo è stato visto nel bagno dell'università insieme a una studentessa: «si è sentita male, l'ho soccorsa», racconta al rettore, ai colleghi, alla moglie, e Sofia conferma la sua versione. Margherita e Carlo non sono una coppia in crisi, la loro intesa è tenace, la confidenza il gioco pericoloso tra le lenzuola. Le parole fra loro ardono ancora, così come i gesti. Si definirebbero felici. Ma quel presunto tradimento per lui si trasforma in un'ossessione, e diventa un alibi potente per le fantasie di sua moglie. La verità è che Sofia ha la giovinezza, la libertà, e forse anche il talento che Carlo insegue per sé. Lui vorrebbe scrivere, non ci è mai riuscito, e il posto da professore l'ha ottenuto grazie all'influenza del padre. La porta dell'ambizione, invece, Margherita l'ha chiusa scambiando la carriera di architetto con la stabilità di un'agenzia immobiliare. Per lei tutto si complica una mattina qualunque, durante una seduta di fisioterapia. Andrea è la leggerezza che la distoglie dai suoi progetti familiari e che innesca l'interrogativo di questa storia: se siamo fedeli a noi stessi quanto siamo infedeli agli altri? La risposta si insinua nella forza quieta dei legami, tenuti insieme in queste pagine da Anna, la madre di Margherita, il faro illuminante del romanzo, uno di quei personaggi capaci di trasmettere il senso dell'esistenza. In una Milano vivissima, tra le vecchie vie raccontate da Buzzati e i nuovi grattacieli che tagliano l'orizzonte, e una Rimini in cui sopravvive il sentimento poetico dei nostri tempi, il racconto si fa talmente intimo da non lasciare scampo.
Nella casa in mezzo al bosco che fu l'abitazione e l'atelier di Amada Masahiko, il grande artista autore del misterioso quadro «L'assassinio del Commendatore», vive ormai da qualche mese il giovane pittore protagonista di questa storia. La dimora è sperduta, ma non del tutto isolata: nel primo volume, «Idee che affiorano», avevamo conosciuto Menshiki, un vicino ricchissimo e sfuggente mosso da motivazioni solo a lui note. O la piccola Akikawa Marie, studentessa del corso di disegno tenuto dal protagonista, che per una volta sembra abbassare le difese e stringere un legame profondo col suo professore. Per non parlare del Commendatore stesso... Con «Metafore che si trasformano» si conclude l'«Assassinio del Commendatore». Come un mago al culmine del suo potere incantatorio, Murakami Haruki dà vita a un intero universo (a più di uno, a dire il vero...) popolato di personaggi, storie e enigmi che hanno la potenza indimenticabile dei sogni più vividi. Ma non è solo il gusto per il racconto a muoverlo: una volta giunto al termine di questo viaggio visionario, il lettore si scopre trasformato come i personaggi di cui ha letto le avventure, esposto, quasi senza averne avuto consapevolezza, al cuore pulsante della grande letteratura. «L'assassinio del Commendatore», a quel punto, inizia a svelare i suoi mille volti: una riflessione, molto realistica (e attuale), sulle ferite della storia, sulla colpa e la responsabilità. Una terapia per sopravvivere ai traumi. Una guida pratica per orientarsi nel mondo delle metafore. Ma anche un racconto fantastico sui mostri che ci divorano dall'interno, sulle paure che ci sbranano nella notte dell'anima; e su come, quei mostri, possiamo vincerli: prendendoci cura di chi arriverà dopo di noi.
Zvi Luria ha poco più di settant'anni quando un neurologo gli diagnostica un principio di demenza senile. All'inizio la malattia lo porterà soltanto a commettere piccole distrazioni, sbagliare un nome, confondere un altro bambino per suo nipote, oppure visitare il letto di uno sconosciuto in ospedale convinto di essere al capezzale di un vecchio amico in coma. Poi però tutto diventerà più duro e passo dopo passo la sua lucidità finirà con l'essere completamente compromessa. Zvi però è sempre stato un uomo preciso e pragmatico, prima di andare in pensione aveva lavorato come capo ingegnere ai lavori pubblici, e non riesce ad accettare di essere destinato in breve tempo a fare una fine del genere. Sua moglie Dina, una pediatra di fama legata a lui da un amore ancora tenero, lo sa benissimo, e lo convince ad aiutare Assael Maimoni, che ha preso il suo posto ai lavori pubblici. Maimoni sta però lavorando al progetto di un tunnel segreto, che trascina Zvi nel cuore del conflitto israelo-palestinese. In mezzo a questo caos mentale e geopolitico Zvi a un certo punto rischia di perdere anche Dina, la sua unica ancora di salvezza... Come può un uomo che è sempre stato affidabile e solido, un punto di riferimento per famiglia e amici, un ingegnere, scendere a patti con il proprio inevitabile declino mentale? Come possono farlo sua moglie e i suoi figli? Come ci si comporta di fronte alla razionalità che lentamente svanisce? E come si affronta la paura? Yehoshua costruisce intorno a queste domande una toccante meditazione sull'identità e sull'amore, sui gesti che è necessario compiere prima di congedarsi. Una vicenda intima e privata che s'intreccia a doppio filo con quella collettiva e politica del popolo palestinese e di quello israeliano, vicinissimi eppure così distanti dal trovare un modo per esistere insieme.
Gli ampi boulevard, le luci infinite, gli spettacoli piú arditi, le avanguardie piú innovatrici, e poi la disinvoltura dei costumi, la ricchezza e il disordine della vita artistica, lo stile dispensato in ogni minimo dettaglio... Nessuno scrittore dell'Otto e Novecento ha saputo resistere al richiamo di Parigi, e tutti hanno lasciato traccia del loro incantamento in racconti e romanzi entrati di forza nell'immaginario globale, al punto che oggi è impossibile visitarla per la prima volta senza avere l'impressione di conoscerla da sempre. Corrado Augias, parigino di adozione e fine conoscitore della storia anche artistica della città, ha raccolto venti fra i racconti più belli su Parigi: da Balzac a Zola, da Gertrude Stein a Vila-Matas, da Irène Némirovsky a Benjamin, una carrellata di storie, visioni e descrizioni che ne celebrano la grandezza e ne illuminano i misteri nascosti. Perché la città delle luci non è priva di ombre, dai grandi romanzi popolari tessuti su storie sinistre ai gialli affidati all'intuito del commissario Maigret. Parigi è città di pietra e di fantasia. Quello che si compone è un mosaico di voci e immagini, ma è anche una sorprendente guida di viaggio. Non c'è rue o arrondissement che non abbia generato un suo riflesso letterario, e attraverso le pagine dei grandi scrittori si può meglio comprendere la vera natura di Parigi, luogo dell'immaginazione prima ancora che reale, «di tutte le città del mondo, la più vistosa e la più invisibile».
Texas, ultimo scampolo dell'Ottocento. Il mondo è cambiato, ma la storia continua. Niente più mandrie di bestiame che percorrono praterie immense, ma treni che tagliano l'orizzonte. Tutto riprende da dove era iniziato, però con un salto di una ventina d'anni: Woodrow Call è di nuovo nella terra da cui si era allontanato per un'ormai leggendaria spedizione nel Montana. Tanti suoi amici di un tempo non ci sono più, come non ci sono più i nemici che conosceva bene, gli indiani e i messicani. I nuovi nemici sono i fuorilegge, che imperversano su entrambe le sponde del Rio Grande. Il capitano Call, «il più famoso Texas Ranger di tutti i tempi», è ormai un cacciatore di taglie. La sua fama lo precede e proprio per questo viene ingaggiato da un magnate delle ferrovie yankee per scovare un giovane bandito messicano che rapina i suoi treni e uccide i passeggeri. Sembrerebbe una faccenda di ordinaria amministrazione, ma Call è un eroe al tramonto, pieno di acciacchi e prigioniero dei ricordi, e ha bisogno di un compagno fedele per condurre la caccia. Come sempre convoca Pea Eye, suo caporale ai tempi dei ranger. Ma il mite Pea Eye ora è sposato con Lorena, l'ex bellissima prostituta dai tempi di Lonesome Dove, ha cinque figli e una fattoria da mandare avanti: la sua fedeltà va soprattutto alla famiglia. Call scopre di colpo che il suo rassicurante passato lo respinge, proprio mentre un irriconoscibile presente gli si para davanti sotto le sembianze di Ned Brookshire, un timoroso ragioniere di Brooklyn che gli viene messo alle costole dalla compagnia ferroviaria per tenere i conti della missione, ma soprattutto del terribile Joey Garza, un imberbe messicano gelido e individualista che colpisce con metodi inediti e imprevedibili.
Che cos'è l'andare in montagna senza la conquista della cima? Un atto di non violenza, un desiderio di comprensione, un girare intorno al senso del proprio camminare. Questo libro è un taccuino di viaggio, ma anche il racconto illustrato, caldo, dettagliato, di come vacillano le certezze col mal di montagna, di come si dialoga con un cane tibetano, di come il paesaggio diventa trama del corpo e dello spirito. Perché l'Himalaya non è una terra in cui addentrarsi alla leggera: è una montagna viva, abitata, usata, a volte subita, molto lontana dalla nostra. Per affrontarla serve una vera spedizione, con guide, portatori, muli, un campo da montare ogni sera e smontare ogni mattina, e soprattutto buoni compagni di viaggio. Se è vero che in montagna si cammina da soli anche quando si cammina con qualcuno, il senso di lontananza e di esplorazione rinsalda le amicizie. Le notti infinite in tenda con Nicola, l'assoluta magnificenza della montagna contemplata con Remigio, il saliscendi del cammino in alta quota, l'alterità dei luoghi e delle persone incontrate. Questo è il viaggio che Paolo Cognetti intraprende sul finire del suo quarantesimo anno, poco prima di superare il crinale della giovinezza.
Venezia, una gondola al chiaro di luna, la voce calda del vecchio crooner Tony Gardner, che un tempo ammaliava le folle. Esiste scenario più romantico per una serenata all'amore che fu? Esiste scenario più crudele? Illustrato da Bianca Bagnarelli.
Un giorno, sul lungosenna, Jean perde l'equilibrio: dalla riva del presente precipita in un vortice di ricordi che credeva perduti. Anche se il tempo ne ha sfumato i contorni, a Jean tornano in mente numeri di telefono inventati, fermate del metrò, dediche scritte con l'inchiostro blu. Ma i dettagli più irrisori sono indizi per ritrovare le donne che Jean ha incontrato e che ora, come spettri evanescenti, eludono la sua presa nel labirinto della memoria. Nelle piante le gemme dormienti rimangono a riposo anche per diversi anni - fino a cento nella quercia - e si schiudono un giorno, per caso. Ai ricordi di Jean succede la stessa cosa: il titolo di un libro intravisto su una bancarella del lungosenna basta a destare le immagini di un passato che credeva di avere smarrito. Come trasportato da una nuvola di impalpabile malinconia, Jean ritorna così alla Parigi della sua giovinezza, alle passeggiate della domenica pomeriggio, agli incontri nei caffè all'alba, agli arrondissement deserti nel caldo d'agosto. Scene, dettagli, parole che scortano il protagonista ad appuntamenti con fantasmi in bianco e nero, lo investono di paure dimenticate, lo seducono con fughe da porte secondarie e dedali di strade parigine in cui nascondersi. La geografia dei luoghi si fonde con i ritratti sfuggenti di donne dal fascino sibillino: Martine, Mireille, Geneviève, Madeleine, la signora Hubersen, una ragazza di cui Jean omette il nome perché coinvolta in un misterioso delitto. E proprio come se avessero commesso un crimine in preda a un raptus emotivo, i ricordi del narratore - che a volte sembrano tanto coincidere con quelli dell'autore - non implorano né oblio né perdono, bensì l'impunità immeritata che il tempo garantisce anche ai piú feroci assassini. Ma non c'è una legge dei ricordi a sancirne la prescrizione: in questi casi non resta che rinviarli al giudizio inappellabile della nostalgia.
Una borsa con qualche vestito e le matite per disegnare. Quando la moglie gli dice che lo lascia, il protagonista di questa storia non prende altro: carica tutto in macchina e se ne va di casa. Del resto che altro può fare? Ha trentasei anni, una donna che l'ha tradito, un lavoro come pittore di ritratti su commissione che porta avanti senza troppa convinzione dopo aver messo da parte ben altre aspirazioni artistiche, e la sensazione generale di essere un fallito. Così inizia a vagabondare nell'Hokkaid?, tra paesini di pescatori sulla costa e ry?kan (le tipiche pensioni a conduzione famigliare giapponesi) sulle montagne. Finché un vecchio amico gli offre una sistemazione: potrebbe andare a vivere nella casa del padre, lasciata vuota da quando questi è entrato in ospizio in preda alla demenza senile. Il giovane ritrattista accetta, anche perché il padre dell'amico è Amada Tomohiko, uno dei pittori più famosi e importanti del Giappone: abitare qualche tempo nella casa che fu sua, per quanto isolata in mezzo ai boschi, è una tentazione troppo forte. Quando si trasferisce lì, il nostro protagonista capisce che la sua decisione ha dato il via a una serie di eventi che cambieranno per sempre la sua vita... anzi, la sua realtà. Prima lo intuisce quando scopre un quadro che Amada Tomohiko aveva nascosto nel sottotetto subito dopo averlo dipinto, molti decenni prima: è una scena misteriosa e apparentemente indecifrabile, che però trasuda una violenza maligna e indicibile. Poi ne avrà la certezza quando, una notte, sente il suono flebile eppure inconfondibile di una campanella provenire dal folto del bosco. Facendosi coraggio decide di seguire quel suono che sembra aver attraversato dimensioni sconosciute: dietro un piccolo tempio abbandonato, in mezzo agli alberi, c'è un tumulo di pietre. C'è davvero qualcuno - o qualcosa - che agita una campanella lì sotto? «L'assassinio del Commendatore» (di cui questo «Idee che affiorano» è il primo volume) è il grandioso ritorno di Murakami Haruki alle atmosfere fantastiche e sospese di «1Q84»: un'indagine sulla forza riparatrice dell'arte e quella distruttrice della violenza; su come sopravvivere ai traumi individuali (ad esempio la fine di un amore) e a quelli collettivi (una guerra, un disastro); sul fare tesoro della propria fragilità e diventare ciò che si è.
Leone ha sei anni e ogni tanto, senza una ragione, si mette a pregare nei luoghi piú impensati. Lo fa perché ha paura, perché desidera, perché si sente solo? Sua madre, che non crede, continua a interrogarsi, mentre vive la sua vita frenetica di donna separata, tutta presa dal lavoro e dalle fatiche quotidiane. Leone prega, e le cose che chiede un po' si avverano. Si sarebbero avverate comunque? E quanto conta il filo segreto che lega una nonna e un nipotino? L'unica certezza è che il mondo intorno cambia, e nessuno sarà piú com'era. Paola Mastrocola ha scritto un romanzo sul potere dirompente del credere in qualcosa. E noi lettori siamo chiamati a chiederci cosa sia questa preghiera ingenua e laica, questo gesto cosí spontaneo e naturale che riguarda tutti noi, al di là di qualsiasi fede. Quale sia l'essenza della magia che, a volte, sembra circondare le nostre vite.
Alí ha perso tutto. Eppure non ha mai creduto che la Storia potesse riservargli qualcosa di brutto. Non a lui che è sopravvissuto alla battaglia di Montecassino combattendo per la Francia. Non a lui, a cui il cielo ha - letteralmente - donato un torchio e Dio un primogenito bello e sano come Hamid. Ma quando nel 1962 l'Algeria ottiene l'indipendenza, Alí non è più l'uomo onorato e rispettato del suo piccolo villaggio. Ha dovuto collaborare con gli oppressori francesi: ora nuovi oppressori lo perseguitano in nome di un'altra bandiera. Alí deve lasciare per sempre - ma questo ancora non lo sa - gli uliveti della sua amata montagna in Cabilia. Hamid è ancora piccolo quando perde tutto per la prima volta. O meglio, scambia tutto quello che ha: l'innocenza per lo spettacolo delle torture della guerra civile, la casetta sul crinale per una tenda in un desolante campo d'accoglienza, i suoi fieri genitori per due ombre svuotate da un'anonima banlieue francese. Di quello sradicamento Hamid finisce per farne una religione, condannando il paese della sua infanzia all'oblio e se stesso alla condizione permanente di straniero. Naïma ha perso l'Algeria prima ancora di poterla avere. Perché il padre Hamid non ha mai voluto raccontarle niente, sua nonna non parla la sua lingua, la metà dei suoi zii è nata in Francia, suo nonno Alí è morto da tempo e in fondo va bene così. Naïma è francese e pensa di non avere nulla in comune con quel paese sulla riva opposta del Mediterraneo. Fino a quando per lavoro non è costretta a visitare l'Algeria e decide di conoscere meglio la travagliata storia della sua famiglia. Anche se tutti la considerano «un'algerina» - soprattutto negli anni del terrorismo e della xenofobia che infetta l'Europa - Naïma capisce presto che un paese non è un tratto somatico e non si può ereditare.
Nel 1995, mentre il mondo impara a usare le email e a comunicare via internet, Selin è una matricola a Harvard. Per lei comunicare, con o senza internet, è sempre stato un problema. Il suo rapporto con il mondo passa soltanto attraverso i romanzi: e cosi tutto della vita universitaria le pare assurdo. Il cavo Ethernet della connessione di dipartimento serve per impiccarsi? Se si compra tequila per la festa, come mai anche il sale? E perché nessuno si rende conto di desiderare solo ciò che non può avere? Quando però incontra Ivan tutto cambia. E per la prima volta capisce quanto è bizzarro e doloroso il desiderio e quanto è difficile ottenere ciò che si vuole davvero. Elif Batuman fa, con una grazia e un umorismo davvero unici, qualcosa di straordinario: il racconto della giovinezza. Di quel tempo, cioè, in cui ogni esperienza ci viene incontro come se fosse la prima volta, di quell'epoca della vita (l'unica) in cui impariamo tutto, sempre, in ogni momento. Ma anche di quell'età di cui, come diceva Proust, non ripeteremmo nulla, di quei giorni che rivisti oggi, per quanto offuscati dal filtro della nostalgia, ci appaiono come una lunga e disperante sequela di errori, passi falsi, malintesi. Di idiozie. Un tempo pieno di noia e giri a vuoto, ma che allora ci sembrava pieno di senso, decisivo, eccitante (domanda: quindi cos'è che rende significativi certi fatti della vita e altri meno? Non sarà forse il modo in cui li raccontiamo, dice Batuman, il modo in cui ne facciamo letteratura?)
1859. Un uomo in fuga dai suoi fantasmi s'imbarca su una baleniera diretta verso il grande Nord. Non immagina che l'inferno può essere bianco come il ghiaccio artico. Un romanzo di avventura e sopravvivenza, scatenato e nerissimo, inarrestabile come il destino, implacabile come la vendetta.
«Ecco uno dei libri piú belli dell'anno. Ci sono pezzi di bravura che sembrano arrivare direttamente da Moby Dick» - The Independent
«Le acque del Nord di Ian McGuire è un libro d'avventura esplosivo, inquietante, che non si riesce a smettere di leggere. McGuire è un narratore nato» - Michiko Kakutani, The New York Times
Del resto sembra già una nave di dannati: a bordo della baleniera, Sumner si ritrova di fronte un'umanità perduta e violenta. Ma soprattutto si ritrova di fronte un uomo brutale, che sembra essere l'incarnazione stessa del male: Henry Drax, il ramponiere. Quando sulla nave viene ucciso un giovanissimo mozzo, primo di una serie di brutali omicidi, Sumner è costretto a guardare in faccia il suo passato e a sfidare nuovamente l'orrore. Candidato al Man Booker Prize. Inserito in ogni lista dei migliori libri dell'anno dal «New York Times» al «Wall Street Journal», passando per il «Guardian» e il «New Statesman». Bestseller sia negli Stati Uniti sia in Inghilterra. Amato da Colm Tóibín, Hilary Mantel e Martin Amis. La Bbc ne farà una serie televisiva. Insomma, McGuire ha convinto tutti, pubblico e critica, e non c'è da stupirsi. Perché in queste pagine c'è tutto quello che qualunque lettore vorrebbe trovare: avventura, emozione, suspense. Le acque del Nord è un thriller, un romanzo storico e di viaggio, un grande racconto che tiene incollati fino all'ultima pagina. Ma soprattutto è la prova di scrittura magistrale di un autore che ha trovato la sua personalissima voce letteraria guardando a Melville, Dickens, Conrad e McCarthy.
Entra Clitennestra. «Ho dimestichezza con l'odore della morte», esordisce la regina di Micene, che quell'odore lo conosce bene. L'ha sentito sul corpo della figlia primogenita Ifigenia il giorno in cui il marito Agamennone l'ha sacrificata agli dèi per ottenerne il favore nella guerra imminente, dopo averla attirata all'accampamento con l'inganno. Moglie furiosa e madre straziata, Clitennestra prepara a lungo la sua vendetta e, al ritorno del re, si appresta a sentire di nuovo l'odore della morte, quella di Agamennone questa volta, fra le mura del loro palazzo e per sua stessa mano. Colm Tóibin fa rivivere le figure classiche della casata di Atreo e, intaccando la loro mitica intangibilità, le rende personaggi di carne e sangue, dotati di psicologia, motivazioni e tonalità. La Clitennestra di Tóibin è ancora la rancorosa regina del mito, ma è anche una donna alle prese con la gestione modernamente complessa del potere e con un amante, Egisto, su cui modulare desiderio e controllo. La sua Elettra è la figlia fedele che pretende la retribuzione del sangue, ma è anche la vittima di abbandono che cerca nelle ombre un sollievo dalla solitudine. Per tutti loro il processo di umanizzazione è reso particolarmente efficace dalla scomparsa di un orizzonte divino a cui ubbidire e delegare. Nel mondo della "Casa dei nomi" gli antichi dèi stanno svanendo e la loro legge vacilla. Non prega più Clitennestra, si chiude la porta che conduceva Elettra ad Agamennone. Non ad Apollo si deve il piano di vendetta attuato da Oreste, né alle Erinni la sua follia. Pensieri e progetti, speranze e disperazioni si avviano a essere unicamente mortali. A Oreste, che nella tragedia di Eschilo sparisce dalla scena bambino per farvi ritorno solo da adulto in veste di vendicatore matricida, Tóibin regala un'adolescenza, un'avventura, un amore e un dubbio.
La prima volta che Teresa li vede stanno facendo il bagno in piscina, nudi, di nascosto. Lei li spia dalla finestra. Le sembrano liberi e selvaggi. Sono tre intrusi, dice suo padre. O tre ragazzi e basta, proprio come lei. Bern. Tommaso. Nicola. E Teresa che li segue, li studia, li aspetta. Teresa che si innamora di Bern. In lui c'è un'inquietudine che lei non conosce, la nostalgia per un'idea assoluta in cui credere: la religione, la natura, un figlio. Sono uno strano gruppo di randagi, fratelli non di sangue, ciascuno con un padre manchevole, carichi di nostalgia per quello che non hanno mai avuto. Il corpo li guida e li stravolge: la passione, la fatica, le strade tortuose e semplici del desiderio. Il corpo è il veicolo fragile e forte della loro violenta aspirazione al cielo. E la campagna pugliese è il teatro di questa storia che attraversa vent'anni, quattro vite, un amore. Coltivare quella terra rossa, curare gli ulivi, sgusciare montagne di mandorle, un anno dopo l'altro, fino a quando Teresa rimarrà la sola a farlo. Perché il giro delle stagioni è un potente ciclo esistenziale, e la masseria il centro esatto del mondo.
Con La vita delle ragazze e delle donne Einaudi conclude la pubblicazione dell'opera completa di Alice Munro. Nel 2013 Alice Munro è stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura.
«Perché quel che volevo – scrive Munro – era ogni singola cosa, ogni strato di conversazione e pensiero, pennellata di luce su una corteccia d'albero come su un muro, ogni odore, ogni buca, dolore, fessura, illusione, tenuti immobili, insieme: in un'inestinguibile radiosità».
La vita delle ragazze e delle donne , pubblicato per la prima volta in Canada nel 1971, è l'unica incursione di Alice Munro nella forma-romanzo, seppure declinata secondo il metodo e lo stile inconfondibile dell'autrice. In principio Del ha nove anni, l'età delle curiosità complesse di un bambino che anticipa la propria pubertà. Sono gli anni Quaranta: da qualche parte è in corso una guerra i cui echi contaminano anche l'egloga rude di un Ontario lontanissimo dal precipizio della Storia. Quali e quanti sono i riti di passaggio dall'infanzia alla giovinezza, dall'inesperienza all'ingresso nel solco della vita? Non esiste un'età edenica per le ragazze e le donne di Alice Munro: la bambina Del fiuta il pericolo senza saperlo nominare; l'adolescente Del gioca con il sacro animata dal desiderio di contraddire la laicità di sua madre e dallo zelo di un sentimento acerbo e acceso come ogni primo amore. Del rifiuta e insieme difende le stravaganze della madre che illuministicamente si ostina a vendere enciclopedie nel medioevo fanatico di religione di una campagna inospitale. Ha nostalgia di Dio, ma registra il Suo eterno scacco nella vita degli uomini e degli animali. A quattordici anni Del è attratta dai languidi misteri del sesso fantasticato, conosce l'agrodolce di una complicità tradita con l'amica Naomi, e nel fervore con cui anno dopo anno un'insegnante si dedica ad allestire la recita della scuola, intuisce il seme tragico di una vita senza sbocchi. Poco dopo Del è pronta per un privato rito di iniziazione sessuale, come la Gerty MacDowell di James Joyce, una Nausicaa corrotta dal desiderio di sapere, vedere, piacere. L'Eden che non c'è mai stato è ora comunque inesorabilmente alle spalle; è tempo di battesimi, di vere e proprie deliberate rinascite. Del ha diciassette anni e già intravede anche il concludersi dell'adolescenza. Sperimenta la perdita e l'amore; si tuffa nel delirio di una relazione senza ossigeno. E infine accetta per sé la necessità della scrittura e si congeda con la promessa di un'integrità scintillante che rimanda i lettori al dono di storie radiose, credibili, sublimi.
Una storia civile e attualissima, che cattura fin dalla prima pagina. Il nuovo grande romanzo del vincitore del Premio Campiello 2015. Marco Balzano ha la sapienza dei grandi narratori: accorda la scrittura al respiro dei suoi personaggi.
«La strada per noi significava tutto».
Nicolai Lilin torna a Fiume Basso, il quartiere di Bender in cui è nato e cresciuto. E ci racconta la sua storia con gli occhi di un ragazzino che per la fretta di diventare grande è disposto a buttarsi negli scontri piú violenti. Ma anche a trascorrere le giornate al fiume insieme ai suoi amici, giocando a farsi trasportare dalla corrente. Kolima impara a schivare i colpi nelle risse, impara i codici della guerra fra bande, ma soprattutto impara a conoscere il mondo attraverso i tatuaggi.
Nella periferia degradata dell'ex Urss tutto sta cambiando. Alcuni criminali accettano il traffico di droga, altri restano all'angolo. C'è chi viene a patti con la polizia e chi si rifiuta e si rifiuterà sempre di farlo. È in atto una guerra interna fra vecchie e giovani leve, che ha frammentato la criminalità organizzata. E in questa spaccatura si fanno strada con ferocia le nuove bande. I Ladruncoli, la sezione giovanile della casta Seme nero, i Fratellini, appassionati di sport da combattimento, i Punk, anarcoidi e spesso ubriachi o drogati, i Metallari, i piú temprati già ai tempi dell'Urss, le Teste d'Acciaio, di chiara impronta nazifascista. Ciascuna banda ha un modo differente di tatuarsi. Il tatuaggio è un collante sociale, segna l'appartenenza, ma è anche uno strumento di comunicazione, in certi casi addirittura un linguaggio. A patto di non infrangere il tabú: mai chiedere a un criminale cosa significa il disegno che ha addosso. I tatuaggi riprodotti in questo libro sono una chiave per entrare in un mondo. Perché ogni fuorilegge sulla pelle porta una firma, che è l'espressione dei suoi sogni e della sua storia, e insieme un'ammissione di paura. L'unica confessione che farà mai dei suoi peccati. Forse persino l'ultimo disperato tentativo di strappare la propria anima dalle zanne del demonio.
Ranocchio salva Tokyo di Haruki Murakami è un romanzo surreale firmato dal maestro del romanzo giapponese. Tokyo Blues è ormai lontano per lo scrittore nipponico e nella nuova storia le problematiche d’amore vengono sostituite da quelle esistenziali e politiche. Un giorno il signor Katagiri rientra da lavoro e trova nel suo salotto un enorme ranocchio che gli parla con grande cortesia e gli dice che ha bisogno del suo aiuto per sconfiggere una terribile forza che si aggira per la città di Tokyo e che potrebbe presto spazzare via tutto. Il Gran Lombrico, una creatura mostruosa che vive sottoterra, scatenerà presto un terremoto il cui epicentro sarà proprio sotto l’ufficio di Katagiri. Per fermarlo il ranocchio ha bisogno di lui. Ma Katagiri non capisce il perché proprio lui sia così essenziale visto che è davvero un uomo qualunque con caratteristiche qualunque. Katagiri è piccolo di statura, fa un lavoro normalissimo e conduce una vita ordinaria. Ma allora perché dovrebbe riuscire a salvare Tokyo dalle forze del male? Il mistero si snoda in tutte le pagine di Haruki Murakami e conduce sino ai piccoli gesti eroici e straordinari che ha fatto Katagiri nella sua vita e che lo hanno reso in qualche modo speciale. Un racconto metaforico e straordinariamente poetico è racchiuso nelle pagine di Ranocchio salva Tokyo.
Il giorno in cui la famiglia trasloca nel New Hampshire, davanti agli occhi si apre un incanto: la casa è immacolata, le doghe di legno percorse dalle ombre del bosco, il tetto verniciato di un azzurro fiabesco. L'estate caldissima sembra non voler mai terminare, ma le allusioni misteriose nelle conversazioni con i vicini e i colleghi fanno presagire una minaccia. In un batter d'occhio arriva la neve, il grande fiume è già ghiacciato, bisogna attrezzarsi: le bambine e il cane ammirano in silenzio lo spettacolo bianco in cui vivranno per un anno. Tra sputaneve elettrici e cataste di legna, orsi nel giardino e incendi divampati nella canna fumaria, piste di fondo oniriche e impronte calcate nel bianco per essere certi di ritrovare la strada, la grande scoperta è che il gelo può diventare un membro della famiglia, una lente d'ingrandimento, un modo di sentire. L'esperienza quotidiana del freddo è un'avventura estrema, a cui non siamo più abituati e che potrà sorprenderci come una possente rivelazione. Con la praticità dell'uomo di casa e lo sguardo del filosofo, Roberto Casati ha elevato un altare al freddo in mezzo a betulle sottili che in primavera finalmente raddrizzano la schiena.
Cosa sarebbe stato della nostra vita se invece di quella scelta ne avessimo fatta un'altra? Che persone saremmo oggi se quel giorno non avessimo perso il treno, se avessimo risposto al saluto di quella ragazza, se ci fossimo iscritti a quell'altra scuola, se... Ogni vita nasconde, e protegge, dentro di sé tutte le altre che non si sono realizzate, che sono rimaste solo potenziali. E cosi ogni individuo conserva al suo interno, come clandestini su una nave di notte, le ombre di tutte le altre persone che sarebbe potuto diventare. La letteratura, e il romanzo in particolare, ha da sempre esplorato la «vita virtuale»: non la vita dei computer, ma i destini alternativi a quelli che il caso o la storia hanno deciso, quasi che attraverso la lettura si riesca a fare esperienza di esistenze alternative. Paul Auster ha deciso di prendere alla lettera questo compito che la letteratura si è data: e ha scritto "4321", il romanzo di tutte le vite di Archie Ferguson, quella che ha avuto e quelle che avrebbe potuto avere. Fin dalla nascita Archie imbocca quattro sentieri diversi che porteranno a vite diverse e singolarmente simili, con elementi che ritornano ogni volta in una veste diversa: tutti gli Archie, ad esempio, subiranno l'incantesimo della splendida Amy. Auster racconta le quattro vite possibili di Archie in parallelo, come fossero quattro libri in uno, costruendo un'opera monumentale, dal fascino vertiginoso e dal passo dickensiano, per il brulicare di vita e di personaggi. Ma c'è molto altro in "4321". C'è la scoperta del sesso e della poesia, ci sono le proteste per i diritti civili e l'assassinio di Kennedy, c'è lo sport e il Sessantotto, c'è Parigi e c'è New York, c'è tutta l'opera di Auster, come un grande bilancio della maturità, e ci sono tutti i maestri che l'hanno ispirato, c'è il fato e la fatalità, c'è la morte e il desiderio.
Segreti di famiglia. Crocevia della Storia. Un vecchio prozio giramondo parte da Parigi verso ogni angolo della terra per sognare e scrivere le sue affascinanti storie d'avventura. La nipote ventenne, seria e ben salda nella realtà, scava nelle pieghe del tempo per scoprire la verità su un uomo che non conosce e sulla propria famiglia. Su viaggi nel mondo che in fondo altro non sono che viaggi nel passato e nei misteri della vita.
Un anno veramente particolare ha inizio per Hélène quando dalla provincia si trasferisce a Parigi per studiare archeologia. La ragazza va ad abitare in una piccola camera sui tetti ospite del prozio Daniel. Lo zio Daniel è un vecchio giramondo, chiacchierone e un po' eccentrico che, usando lo pseudonimo di H. R. Sanders, scrive Il marchio nero, una serie di romanzi di avventura per ragazzi. Hélène non ha mai letto i libri dello zio e in verità non ama molto neppure lui. I due non potrebbero, infatti, essere piú diversi: seria, precisa e severa lei, rumoroso, scherzoso e affabulatore lui. Ma il fidanzato della ragazza, Guillaume, un giovane brillante che riesce a rendere allegro tutto quello che tocca, è invece fin da bambino un ammiratore di H. R. Sanders e riesce a convincere Hélène a interessarsi di piú a Daniel e ai suoi avventurosi viaggi in ogni angolo del pianeta. I due si mettono cosí sulle tracce dell'infanzia e della giovinezza di Daniel Ascher scoprendo diversi misteri della sua vita: perché lo zio compare soltanto a un certo punto nelle foto di famiglia? Perché il suo cognome non è lo stesso della nonna ed è di origine ebraica? Comincia allora una ricerca tra i quartieri parigini: da rue d'Odessa a Montparnasse, dove il padre di Daniel aveva prima della guerra uno studio fotografico, poi a Clermont-Ferrand, a Saint-Ferréol, a Moulins fino a Manhattan. Con pazienza e metodo, da vera archeologa, Hélène scopre piano piano un uomo di cui ignorava tutto. Scopre ad esempio che Daniel è l'unico sopravvissuto di una famiglia composta da padre, madre e una sorella amatissima, tutti scomparsi a Birkenau, e che i suoi viaggi giovanili negli Stati Uniti nascondono un altro mistero familiare che renderà il vecchio giramondo molto piú prossimo ad Hélène e a suo fratello. Seguendo le tracce lasciate da Daniel nelle strade della sua città e fra le righe dei suoi libri si rivela piano piano il ritratto di un uomo ferito, diviso fra due identità e prigioniero di un amore impossibile ma fatale. E la scoperta di un'altra casa nel sotterraneo, in fondo a una botola, getta una nuova luce sui viaggi avventurosi dello zio. Forse l'unico vero viaggio che Daniel abbia mai fatto è sempre stato un viaggio nel passato. Déborah Lévy-Bertherat ha scritto un libro delicato, emozionante e dal ritmo avvolgente riuscendo nelle sue pagine a dar vita a personaggi vivissimi a cui è impossibile non affezionarsi.
Un gruppo di giovani esploratori nella foresta amazzonica scopre che l'oscurità più spaventosa non è quella che li circonda, ma quella dentro di loro. Due ragazzini trovano una pistola semiautomatica, e il colpo che sparano segna il primo confine della loro vita. Un estraneo minaccioso si presenta alla porta di una famiglia borghese riunita per Natale: la sua visita sarà l'inizio della fine delle loro tante ipocrisie. Il vecchio pontile di una città di mare crolla sotto lo sguardo, pieno di compassione ma impotente, di un Dio che dall'alto osserva il dolore e la grazia nascosti in ogni dramma. La prima raccolta delle storie brevi dell'autore dello "Strano caso del cane ucciso a mezzanotte" è stata accolta in Inghilterra e negli Stati Uniti come un capolavoro di talento narrativo, di inventiva e equilibrio. Sono nove racconti lirici e intensi, nove storie che spaziano dall'essenzialità di un fantastico surreale e allusivo, all'avventuroso più scatenato. In ognuno di questi racconti Mark Haddon infonde lo stesso calore. Una scrittura capace di una profonda empatia, in grado di rivelare tutta la dolcezza e la malinconia che abita il cuore degli uomini.
Quando s'imbatte nel caso del piccolo Michele, scomparso dall'auto dei genitori in un'area di sosta senza lasciare traccia, il commissario Striggio sta attraversando un periodo piuttosto complicato. A casa, Leo vorrebbe che lui la smettesse di nascondere il loro amore, soprattutto al padre. E il padre, dal canto suo, sta per arrivare da Bologna con una notizia sconcertante. La sparizione di Michele - un bambino "speciale", dotato di capacità di apprendimento straordinarie e con seri problemi di relazione - è un ordigno destinato a far deflagrare ogni cosa. A riattivare amori, odii, frammenti di passato che ritornano: perché in gioco è soprattutto l'umanità, in tutte le sue declinazioni. E forse la soluzione può venire più facilmente proprio dalla dimensione interiore che dagli snodi di un'indagine tradizionale. Per questo, mentre indaga, il commissario vive, pensa, si distrae, si perde. Così gli altri intorno a lui. Fois scolpisce una galleria di personaggi tridimensionali e vivi: gli abitanti della sua storia si scoprono deboli e spesso bugiardi, capaci di rancore ma al contempo in grado di perdonare e di piangere le loro manchevolezze. Genitori, figli, fratelli, colleghi e amanti: tutti partecipi di un mistero che sta ben attento a nascondere la propria soluzione fino alle battute conclusive.
Nadia e Saeed vogliono tenere in vita il loro amore giovane e fragile mentre la guerra civile divora strade, case, persone. Si narra, però, che esistano porte misteriose che conducono dall'altra parte del mondo, verso una nuova speranza...Mohsin Hamid ha scritto un romanzo tenero e spietato, capace di dare un senso a questi tempi di disorientamento e follia con la potenza visionaria della grande letteratura. Exit West è un libro venuto dal futuro per dirci che nessuna porta può piú essere chiusa.
«In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiú in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un'aula scolastica e non le parlò». Saeed è timido e un po' goffo con le ragazze: cosí, per quanto sia attratto dalla sensuale e indipendente Nadia, ci metterà qualche giorno per trovare il coraggio di rivolgerle la parola. Ma la guerra che sta distruggendo la loro città, strada dopo strada, vita dopo vita, accelera il loro cauto avvicinarsi e, all'infiammarsi degli scontri, Nadia e Saeed si scopriranno innamorati. Quando tra posti di blocco, rastrellamenti, lanci di mortai, sparatorie, la morte appare l'unico orizzonte possibile, inizia a girare una strana voce: esistono delle porte misteriose che se attraversate, pagando e a rischio della vita, trasportano istantaneamente da un'altra parte. Inizia cosí il viaggio di Nadia e Saeed, il loro tentativo di sopravvivere in un mondo che li vuole morti, di restare umani in un tempo che li vuole ridurre a problema da risolvere, di restare uniti quando ogni cosa viene strappata via. Con la stessa naturalezza dello zoom di una mappa computerizzata, Mohsin Hamid sa farci vedere il quadro globale dei cambiamenti planetari che stiamo vivendo e allo stesso tempo stringere sul dettaglio sfuggente e delicato delle vite degli uomini per raccontare la fragile tenerezza di un amore giovane. In un certo senso Hamid ha ripetuto per l'oggi quello che i classici dell'Ottocento, ad esempio Guerra e pace, hanno sempre fatto: raccontare l'universale della Storia attraverso il particolare dei destini individuali, riportare ciò che è frammentario, l'esperienza del singolo, alla compiuta totalità dell'umano. Hamid ha scritto un romanzo di attualità sconvolgente, capace di dare un senso a questi tempi di disorientamento e follia con la potenza visionaria della grande letteratura. Con Exit West, Mohsin Hamid ha scritto il suo capolavoro.
Hisham Matar ha diciannove anni quando suo padre Jaballa, fiero oppositore del regime di Muammar Gheddafi, viene sequestrato nel suo appartamento del Cairo, rinchiuso nella famigerata prigione libica di Abu Salim e fatto sparire per sempre. Ventidue anni più tardi il figlio Hisham, che non ha mai smesso di cercarlo, può approfittare dello sprazzo di speranza aperto dalla rivoluzione del febbraio 2011 per fare finalmente ritorno nella terra della sua infanzia felice. Quel viaggio verso un presente ormai sconosciuto non è che lo spunto per un itinerario storico e affettivo ben più vasto. Visitando i luoghi e incontrando i parenti e gli amici che hanno condiviso con Jaballa decenni di prigionia nel «nobile palazzo» di Abu Salim, Hisham può recuperare un passato che risuona in lui con un'eco mai sopita e ritagliare i contorni di un padre che, in assenza di un corpo, risulta privo di confini. Le tappe del viaggio privato s'intersecano con la storia libica del ventesimo secolo, dalla resistenza all'occupazione italiana al flirt di Gheddafi con l'Inghilterra di Tony Blair. Ma anche all'antro più buio, all'orrore più raccapricciante, segue, in queste pagine, la luce di un dipinto di Manet, la melodia di un alam: la consolazione dell'arte e della bellezza come autentica espressione dell'uomo. E anche quando della speranza di ritrovare un padre vivo «non rimangono che granelli sparsi», lo sguardo di Matar continua a puntare risolutamente in avanti: «Mio padre è morto ed è anche vivo. Non possiedo una grammatica per lui. E nel passato, nel presente e nel futuro. Ho il sospetto che anche coloro che hanno sepolto il proprio padre provino la stessa cosa. Io non sono diverso. Vivo, come tutti viviamo, nell'indomani».
La gravidanza di Trudy è quasi a termine, ma l'evento si prospetta tutt'altro che lieto per il suo piccolo ospite. Ad attenderlo nella grande casa di famiglia (e nel letto coniugale) non c'è il legittimo marito di Trudy e suo futuro padre, John Cairncross, poeta povero e sconosciuto, innamorato della moglie e della civiltà delle parole, ma il fratello di lui, il ricco e becero agente immobiliare Claude. Dalla sua posizione ribaltata e cieca, il nascituro gode nondimeno di una prospettiva privilegiata sugli eventi in corso, ed è lui a metterci a parte di una vicenda di lutto e di sospetto dagli echi assai familiari. Certo, la scena non è quella corrotta e claustrofobica del castello di Elsinore. Certo, i due cognati fedifraghi, Trudy e lo zio Claude, non hanno regni nordici cui aspirare. Piuttosto a far gola ai due vogliosi amanti è l'edificio georgiano su Hamilton Terrace, decrepito ma d'inestimabile valore, incautamente ereditato da John, i cui pavimenti luridi e la cui onnipresente immondizia prendono il posto del marcio in Danimarca. Ma amletico è il crimine orrendo che il narratore vede (o meglio sente) arrivare, e amletico è pure il suo inesauribile flusso di pensieri dubitanti, gli stessi che hanno inaugurato al mondo la danza della modernità. Se nel testo shakespeariano l'origliamento, l'atto di spiare e raccogliere informazioni rovistando i recessi e gli anditi del regno, è spesso motore dell'azione, nel guscio l'udito è il senso privilegiato per ragioni fisiologiche, e a essere rovistati a pochissima distanza dal capo dell'inorridito narratore sono spesso e volentieri i recessi e gli anditi del corpo materno. Mentre all'orecchio non sempre affidabile del nostro eroe non-nato si dipana la tragica detective story, nella manciata di giorni che separano il suo «esserci» dal suo protetto «non-esserci» ancora, con il conforto di qualche buon vino giunto fino a lui dalle superbe degustazioni materne, e costantemente edotto sul mondo dai programmi radiofonici di approfondimento culturale che fortunatamente Trudy preferisce a quelli musicali, il nascituro ha tempo di riflettere su di sé, sulla complicata faccenda dell'amore, sul mondo, coi suoi orrori contemporanei e con le sue desiderate meraviglie. Ha tempo e curiosità sufficienti per farsi domande, interpretare i segni della sua realtà mediata, contemplare azioni e concludere che la sua sola salvezza, la salvezza dell'uomo, sta forse nell'esitazione.
Ci sono romanzi che toccano corde così profonde, originarie, che sembrano chiamarci per nome. È quello che accade con "L'Arminuta" fin dalla prima pagina, quando la protagonista, con una valigia in mano e una sacca di scarpe nell'altra, suona a una porta sconosciuta. Ad aprirle, sua sorella Adriana, gli occhi stropicciati, le trecce sfatte: non si sono mai viste prima. Inizia così questa storia dirompente e ammaliatrice: con una ragazzina che da un giorno all'altro perde tutto - una casa confortevole, le amiche più care, l'affetto incondizionato dei genitori. O meglio, di quelli che credeva i suoi genitori. Per «l'Arminuta» (la ritornata), come la chiamano i compagni, comincia una nuova e diversissima vita. La casa è piccola, buia, ci sono fratelli dappertutto e poco cibo sul tavolo. Ma c'è Adriana, che condivide il letto con lei. E c'è Vincenzo, che la guarda come fosse già una donna. E in quello sguardo irrequieto, smaliziato, lei può forse perdersi per cominciare a ritrovarsi. L'accettazione di un doppio abbandono è possibile solo tornando alla fonte a se stessi. Donatella Di Pietrantonio conosce le parole per dirlo, e affronta il tema della maternità, della responsabilità e della cura, da una prospettiva originale e con una rara intensità espressiva. Le basta dare ascolto alla sua terra, a quell'Abruzzo poco conosciuto, ruvido e aspro, che improvvisamente si accende col riflesso del mare.
Cem era un liceale nella Istanbul di metà anni Ottanta come tanti altri quando suo padre farmacista viene arrestato dal governo e torturato dalla polizia a causa delle sue frequentazioni politiche. Non farà mai più ritorno a casa. Per aiutare la madre Cem andrà a lavorare in una libreria: è qui, tra i romanzi e gli scrittori che vengono a trovare il padrone della libreria, che Cem inizierà a sognare di diventare uno scrittore. Rimarrà sempre con questo desiderio, con questa fame di storie, anche se la vita ha in serbo altro per lui: quando la libreria chiude, Cem diventa l'apprendista di mastro Mahmut, un costruttore di pozzi. Tra maestro e allievo si stabilisce un legame profondo, e il ragazzo sente di aver trovato in Mahmut quel padre che da lungo tempo ha perso. Mahmut e la sua ditta hanno un nuovo incarico: scavare un pozzo in un paese nei dintorni di Istanbul. Ed è li che Cem incontrerà l'attrice dai capelli rossi. Inizierà a spiarla mentre è in scena, indifferente alla tragedia a cui sta assistendo, concentrato solo su di lei, e poi nella casa dove vive col marito, per strada. Fino a quando l'ossessione erotica per questa donna più grande di lui si trasformerà in un'unica, folle, indimenticabile notte di sesso. Cem non potrebbe essere più felice: non sa che la sua vita cambierà per sempre e che il destino ha già iniziato a tessere la sua complicata, crudelissima, imprevedibile trama. Con la storia di Cem, personale e universale allo stesso tempo, Orhan Pamuk interroga i fondamenti letterari della civiltà occidentale e orientale, intrecciando l'Edipo Re di Sofocle con il Rostam e Sohrab di Ferdowsi per scrivere il suo romanzo più sorprendente e fulminante.
"Le tredici storie che compongono la seconda raccolta di Alice Munro, pubblicata nel 1974 e ora per la prima volta in Italia, sono accomunate in larga misura da uno sguardo retrospettivo sulle cose e da riflessioni postume su un passato che tramanda i suoi misteri senza risolvere rancori, gelosie e amori complicati e cattivi. Gli anni non possono spegnere gli incendi della giovinezza, i quali continuano imperterriti a consumare l'ossigeno delle relazioni. Quella tra le due sorelle Et e Char, per esempio, avvinghiate l'una all'altra dal risentimento non meno che dall'affetto, dall'invidia dell'una per la luminosa e invincibile bellezza dell'altra, dal ricordo di piombo di un fratellino annegato, e dalla loro futile rivalità sentimentale. O la danza macabra fitta di tradimenti e amarezze fra la narratrice del racconto 'Dimmi se sì o no' e il suo amante, al quale la donna si rivolge, ora che il caso l'ha messa in contatto con una lancinante verità su di lui. E nel solco delle relazioni difficili, in bilico tra generosi silenzi e slanci superflui, si colloca pure il racconto 'Cerimonia di commiato', nel quale la morte di un figlio adolescente riporta dopo anni sotto lo stesso tetto due sorelle, madre e zia del ragazzo, senza tuttavia riuscire a produrre un autentico riavvicinamento. Su tutte queste relazioni dilaga naturalmente l'acqua torbida e scura del rapporto tra madre e figlia del racconto finale, 'L'Ottawa Valley', costruito come una sorta di album di famiglia per viaggi paralleli nel passato." (Susanna Basso)