
Riflessioni in forma dialogica sui grandi temi della modernità per dare una risposta alle grandi problematiche della vita. Un sondaggio sull'opinione della gente circa l'anima degli animali, la testimonianza di un medico sulle derive esoteriche della medicina orientale, la distruzione portata dal terremoto in Emilia: semplici fatti tratti dalle pagine dei quotidiani che divengono occasione di dialoog e di riflessione su temi universali e costitutivi della filosofia moderna (la fede, la scienza, la morte, il perchè del male), oltre che spunti per recuperare il pensiero di san Tommaso d'Aquino, Cartesio, Spinoza, Leibniz e Voltaire.
La genialità di Pavel Florenskij, "Leonardo da Vinci russo", grande filosofo e scienziato nei primi decenni del secolo scorso, si colloca pienamente all'interno della grande tradizione di un popolo. Il filosofo russo pone, infatti, al centro della sua ricerca la questione della istina, cioè della verità vivente. La verità vivente pulsa dal di dentro della struttura dell'io e lo interroga riguardo alla questione del rapporto con la sua origine. La vita non consiste in una neutrale opacità, ma in una domanda rivolta al soggetto e perennemente rinnovata. La vita cioè costringe il soggetto a rivedere la concezione e gli schemi del suo discorso. Florenskij raccoglie la sfida, affrontando l'avventura del sapere con uno sguardo differente. Questa sfida non fu solo scientifica, ma fu una opposizione radicale al regime stalinista sovietico, che in un primo tempo lo tollerò per sfruttare le sue capacità e innovazioni scientifiche e poi lo giustiziò come dissidente. La ragione che egli prospetta è costituita da un'alterità generativa, che istituisce l'io nella forma della testimonianza. Tale ragione allargata dall'accoglienza profonda del mistero è in grado di giungere fino alla testimonianza. Il martirio del filosofo, in tal senso, è il vivo compimento di un pensiero. Le antinomie della vita e della storia non costituiscono per Florenskij una paralisi della ragione, ma sono occasioni sempre nuove e drammatiche per pensare la grandezza e la libertà di un destino donato.
Mai come oggi architettura e natura appaiono in conflitto insanabile. Per quanto si sforzi di diventare sostenibile, l'architettura continua a essere la più umana tra le arti, quella che più afferma il possesso umano sulla natura. Il libro sovverte questa idea, sostenendo che, se pensata filosoficamente, l'architettura è invece la più inumana fra le arti, quella maggiormente consegnata all'altro dall'umano, la natura. Anzi, l'architettura può mettere in opera la natura e aprire a un nuovo epos del non-umano. Il volume argomenta questa tesi intrecciando differenti tradizioni di pensiero: lo spazio in Platone con lo zimzum nella qabbalah ebraica, la concinnitas in Alberti con lo spazio indicibile di Le Corbusier, il non-altro in Cusano con lo spazio potenziale di Winnicott, il pensiero della rovina in Simmel con la natura di città di Stig L Andersson. In ogni capitolo la teoria dialoga con singole opere artistiche e architettoniche, dalla cui lettura emergono elementi inediti, ribaltando talvolta interpretazioni consolidate. "L'umano e l'inumano" propone una nuova e paradossale teoria dell'architettura che si fonda sul ritrarsi per donare spazio, e trova il suo compimento in una filosofia del gioco. È nel gioco che infine l'umano si salda all'inumano, la filosofia dell'architettura alla filosofia della natura.
DESCRIZIONE: La responsabilità per la vita che nasce e per la vita che muore è allo stesso tempo radicale e difficile. Quando e perché riconosciamo che nella provetta di un laboratorio o nel corpo di una donna c’è qualcuno e non più solo qualcosa? Siamo autorizzati a manipolare i geni per far sì che vengano al mondo persone "migliori" e con la prospettiva di una maggiore felicità? Abbreviare la sofferenza di chi non ce la fa più e chiede il nostro aiuto può essere l’ultimo gesto della compassione e della solidarietà? Ci sono risposte diverse a queste domande. Non per questo, tuttavia, è inevitabile concludere che nell’epoca del pluralismo l’unica verità che rimane è la voce della propria coscienza e tutto si risolve lasciando che ciascuno faccia a modo suo. La bioetica, andando appunto alle radici dell’umano, incalza il pensiero a ridefinire l’ambito di quel che può valere per me e insieme per tutti, assumendo i risultati del progresso scientifico, ma sapendo che non è solo dalla scienza che l’uomo può ricavare l’indicazione di quel che deve fare. Questa resta la sfida della filosofia e della politica, chiamate entrambe a riconoscere che sulla vita, in ogni caso, non si hanno solo diritti.
COMMENTO: Una guida alle principali questioni della bioetica, con riferimento ai più controversi dibattiti attuali (fecondazione assistita, cellule staminali, trapianti...)
STEFANO SEMPLICI insegna Etica sociale all’Università di Roma "Tor Vergata". È direttore della rivista "Archivio di Filosofia" e del Collegio universitario "Lamaro-Pozzani". Fra le sue pubblicazioni più recenti: Il soggetto dell’ironia (Cedam, Padova 2002); come curatore, Il diritto di morire bene (il Mulino, Bologna 2002) e Il mercato giusto e l’etica della società civile (Vita e Pensiero, Milano 2005).
La prospettiva pedagogico didattica ermeneutica esistenziale si è andata progressivamente affermando negli ultimi decenni fino ad occupare oggi un posto significativo tra le visioni educative e i
modelli didattici utilizzati nella prassi educativa. Il testo costituisce la decima e conclusiva pubblicazione della collana “Educare oggi”, nata nel 2017, in memoria di Zelindo Trenti, primo teorizzatore della visione ermeneutica esistenziale e docente di pedagogia religiosa all’Università Salesiana di Roma. Si intende con esso offrire, a conclusione del percorso di studio e sperimentazione pluriennale,
una sintesi dei più quotati studiosi della materia, sui diversi aspetti: filosofico, teologico, psicologico, pedagogico e didattico.
Questo libro ripercorre la storia del pensiero occidentale con una chiave di lettura forte e originalissima. Le storie della filosofia, in effetti, sono due. Quella che si studia sui manuali è la versione ufficiale, il canone maggiore. I nomi che costellano questa tradizione sono illustri. Eppure, il canone maggiore è anche la vicenda di un lungo allontanamento dalla vocazione autentica della filosofia: "La filosofia sta da una parte sola. Essa scorre sulla linea che abbiamo chiamato minore". Rocco Ronchi tratteggia un percorso più silenzioso, e tuttavia ricchissimo di tesori spesso nascosti, il solo a non aver tradito il compito più urgente della filosofia. È il canone minore, che conta tra le sue fila William James negli Stati Uniti, Henri Bergson in Francia, Giovanni Gentile in Italia, Alfred North Whitehead in Gran Bretagna. Nomi prestigiosi, ma marginali nel dibattito odierno. Pensatori raffinatissimi, che sulla soglia del Novecento hanno pensato non il loro secolo, ma il secolo successivo, il nostro. La rivoluzione del canone minore non mette più al centro l'uomo con i suoi valori, il soggetto con la sua esperienza e i suoi desideri. Al contrario, questa nuova versione della storia della filosofia è profondamente antiumanistica e immoralistica, perché rivolge la sua attenzione alla natura, allo splendore della sua immanenza assoluta, alla sua incomprensibile e infinitamente intelligente processualità. In un dialogo serrato con la scienza contemporanea, Ronchi si chiede che cosa sono il tempo e la vita e dimostra che la filosofia è necessariamente una filosofia della natura.
Da sempre il sogno della filosofia è quello di provocare uno stato prossimo alla veggenza. Per farlo, la filosofia deve affidarsi a concetti spiazzanti, che non temono il paradosso, in rotta con l'esperienza ordinaria. Gilles Deleuze (1925-1995) è stato uno dei pensatori contemporanei più fedeli a questa inaugurale vocazione della filosofia, e il libro di Rocco Ronchi ci consente di gettare uno sguardo estremamente originale sul suo laboratorio teorico. Ci suggerisce come il lavoro filosofico di Deleuze si radichi in un'esperienza vivissima del suo tempo, si tratti del Maggio 68, del cinema come arte specificamente novecentesca, delle scienze del vivente come antica questione filosofica esplosa all'estrema frontiera del sapere contemporaneo. Ci mostra come la forza innovativa di questo pensiero nomade ed enigmatico coincida in realtà con la sua piena appartenenza a una linea che discende direttamente da Platone, passa attraverso Plotino e Cusano, arriva a Spinoza, Nietzsche, Bergson, Whitehead. E ci introduce passo a passo ad alcune delle creazioni concettuali più avanzate e feconde del pensiero deleuziano: quelle di vita, evento, differenza, immanenza.
La filosofia da Platone a Hegel si è autocompresa. In quanto scienza della verità, essa si pensa come consustanziale all'essere stesso dell'uomo: è la traduzione della "meraviglia" in un dire logico che, a differenza di un dire autoritario degli arcaici "maestri della verità", sa rendere ragione davanti a tutti del proprio detto. Ma la verità avrebbe potuto assumere questa potentissima veste logica se non si fosse riflessa nello specchio deformante della scrittura alfabetica greca? L'autore in questo saggio mette in contatto campi di indagine e ricerche (epigrafia, antropologia culturale, linguistica) che normalmente hanno proceduto separatamente e delinea con chiarezza una genealogia dell'atteggiamento teoretico.
Cos'è la natura? In un'epoca dominata da nuove scoperte, dalla crescita tecnologica, da una nuova sensibilità ecologica, ma anche da nuovi fenomeni inquietanti, come pandemie globali e squilibri dell'ambiente, risorge potente la domanda su quale sia un comportamento davvero aderente alla natura nella vita di una persona. Forse per riaccostarci all'essenza della nostra specie occorre una sapienza antica e sempre nuova. Vogliamo una vita più naturale? Chiediamo ai poeti. E loro ci guideranno. In uno stile che unisce saggio e narrazione, Davide Rondoni perlustra gli interrogativi che sorgono intorno al tema della natura, senza pregiudizi e senza censure, sfidando molti luoghi comuni .