La ricerca spasmodica e frustrante della vita e di un'identità sessuale, fra autolesionismo e voyerismo, spingono una quarantenne insegnante di pianoforte negli squallidi peep-show della periferia viennese, nei cinema a luci rosse o tra le siepi del Prater, prima di rientrare a casa, sotto le lenzuola del letto che condivide con la tirannica madre. Al centro della narrazione il tormentato rapporto di forza tra le due che trasformerà in catastrofe sadomasochistica il tentativo della donna di legarsi a un suo allievo. "La pianista" è il romanzo più conosciuto di Elfriede Jelinek, premio Nobel per la letteratura nel 2004.
Tema centrale di questo romanzo è la musica, o meglio, quel grande circo incentrato su concerti, interviste, talk show televisivi del quale oggi pare che neanche la musica colta possa più fare a meno. In questo ingranaggio finisce Georg Zimmer, un giovane provincialotto tedesco impegnato nella disperata ricerca di un tema per la sua tesi di dottorato e ingaggiato dal più famoso musicista contemporaneo: dovrà aiutarlo nella stesura delle memorie e in un secondo momento anche di un inno "assolutamente inattuale, assolutamente anacronistico" per Elysian Fields, la più recente composizione del Maestro. Sballottato fra la Scozia, la Sicilia e New York, per Georg Zimmer il contatto con l'Arte si rivelerà ingannevole e molto doloroso.
Quando Anne inizia il suo diario, nel giugno 1942, ha appena compiuto tredici anni. Poche pagine, e all'immagine della scuola, dei compagni e di amori più o meno immaginari, si sostituisce la storia della lunga clandestinità: giornate passate a pelare patate, recitare poesie, leggere, scrivere, litigare, aspettare, temere il peggio. "Vedo noi otto nell'alloggio segreto come se fossimo un pezzetto di cielo azzurro circondati da nubi nere di pioggia", ha il coraggio di scrivere Anne. Obbedendo a una sicura vocazione di scrittrice, Anne ha voluto e saputo lasciare testimonianza di sé e dell'esperienza degli altri clandestini. La prima edizione del Diario subì tuttavia non pochi tagli, ritocchi, variazioni. Ora il testo è stato restituito alla sua integrità originale, e ci consegna un'immagine nuova: quella di una ragazza vera e viva, ironica, passionale, irriverente, animata da un'allegra voglia di vivere, già adulta nelle sue riflessioni. Questa edizione, a cura di Frediano Sessi - ora arricchita di una nuova prefazione di Eraldo Affinati - offre anche una ricostruzione degli ultimi mesi della vita di Anne e della sorella Margot, sulla base di testimonianze e documenti raccolti in questi anni.
"La vera via - afferma Kafka - attraversa una corda che non è tesa in alto ma rasente terra." È la via senza meta, un cammino infinito per strade interrotte e sentieri che sviano, un itinerario di salvezza fatto di indugi e drammatiche cadute su una impercettibile corda tesa rasoterra. Come una paradossale invocazione, come una lacerazione impossibile da rimarginare, la scrittura aforistica di Kafka evoca il dramma dell'uomo contemporaneo e celebra l'abbandono a una vita irrimediabilmente priva di senso. Una scrittura e un pensiero che molto devono ai temi dell'ebraismo, che testimoniano il destino storico del popolo nomade e senza patria come simbolo metafisico di un'esistenza sradicata.
Leona Dorn è soddisfatta della sua vita. Lavora in una casa editrice di Francoforte ed è innamorata del marito Julius, giornalista televisivo. Fino a quando, Julius le confessa di avere un'amante e se ne va di casa. Per Leona è come se il mondo le fosse crollato addosso: da quel momento si lascia vivere senza speranza di poter amare di nuovo. Ma poi incontra l'affascinante Robert Jablonski, vedovo in seguito al tragico suicidio della moglie, che le offre ciò di cui lei ha più bisogno: fiducia e conforto. Troppo tardi Leona capisce che l'uomo al quale si è aggrappata per dimenticare il naufragio del suo matrimonio ha in realtà una personalità schizofrenica, e si trova coinvolta in una realtà che assume sempre più i colori dell'incubo.
Dalla repressione stalinista all'Iraq, dai Balcani alla persecuzione degli zingari, Grass imbastisce un discorso sul mondo contemporaneo e sulla nostra attuale condizione di perdita, di estromissione dalle grandi decisioni della storia e dal sentirsi stranieri sia in patria sia fuori. Vecchi e nuovi focolai, insurrezioni e terrorismi ci obbligano a vivere "tra le guerre", grandi o piccole, realizzate ufficialmente per affermare la pace o per una qualche liberazione. Ma sempre guerre, con morti e soprusi. E, in tale situazione, il torto sta sempre dalla parte del più forte. E le colpe sono di chi tace. Grass non poteva non schierarsi con chi è senza voce, con chi non ha la parola e così interferisce, risponde picche ai diktat della Storia.
I romanzi di questa "Trilogia" nascono dalla tragedia di chi fu allontanato dal proprio paese in nome di una motivazione aberrante come quella razziale. In "L'amico ritrovato" questa lacerazione coincide con la fine dell'amicizia tra due compagni di liceo, Hans Schwarz, ebreo figlio di borghesi, e il nobile Konradin von Hohenfels. Il nazismo travolge questo legame come un contagio che sembra colpire anche l'amico di un tempo e portarlo al tradimento. La smentita verrà solo trent'anni anni dopo, imprevista e commovente, nell'ultima lettera scritta da Konradin in "Un'anima non vile". Così l'amicizia è al centro dell'esperienza di Simon Elsas che, tornato dall'esilio, lenirà le ferite dell'anima confrontandosi con i suoi amici di un tempo.
Al centro del racconto una serie di quadri che riproducono con diverse varianti un unico soggetto: la Dama in rosso. Il punto comune a tutti è l'anonimato degli autori, uno degli elementi su cui poggia il loro indubbio fascino. Protagonista, un disincantato professore di letteratura tedesca negli Stati Uniti, il quale, aiutato nelle ricerche dall'amico Nicolas Koszinski, intende scoprire il segreto nascosto in quelle immagini dipinte. Oggetto di tanta attenzione è Gabrielle d'Estrées, l'effigiata, giovane amante di Enrico di Navarra, divenuto re di Francia. Gabrielle, incinta di sei mesi, morì dopo alcuni giorni di lancinanti dolori nel 1599. Si trattò di morte naturale o di avvelenamento?
Composti tra il 1902 e il 1936, questi ritratti raccontano di Goethe, Schiller e Hölderlin, di Kleist, Dickens e Dostoevskij, ma al tempo stesso dicono molto anche di Walser, delle sue inclinazioni, idiosincrasie e gusti. Scelti per empatia o contrasto, per intima risonanza o alterità inconciliabile, gli scrittori su cui si sofferma sono protagonisti di piccole gemme o figure di quel teatro da cui lo scrittore fu sempre attratto. "Scrivere significa accalorarsi in silenzio": coerente con tale assunto, Walser è ora regista, ora attore che recita a braccio, ora sommo trasformista. Biografie immaginarie, monologhi ossessivi e commedie, questi ritratti sono approssimazioni all'immagine segreta che certi scrittori avrebbero potuto avere di se stessi.
Una stagione all'inferno. Dove l'inferno è l'io di chi racconta e insieme la scena, metropolitana, suburbana, in cui si muove, accompagnato dall'amico di sempre, Nutless e dall'amico alcolico e diabolico, Chinaski. Si procede muovendo dal centro verso l'esterno, dal chiuso di uno scantinato verso il quartiere e poi verso l'angoscia delle tangenziali, della piana "ipermercata", e verso un surreale interregno dove tutto può accadere. Oltre, vi è solo il viaggio, un viaggio lungo le strade defraudate di storia e di vita della "Balcanìa", verso i confini estremi di "Stanbùl", nelle taverne in cui la musica del rebetico riconferma vitalità e sconfitta. Epopea di perdenti, unica razza che ha potuto conoscere la grandezza e la bellezza.
Pubblicate nel 1936 a Zurigo, queste pagine scritte a volte anche vent'anni prima, sono l'ultima opera data alle stampe da Musil. Il titolo ironicamente contraddittorio richiama in prima istanza la sua particolare condizione di scrittore che, conosciuta una certa notorietà negli anni Venti, si sentiva ormai completamente isolato. Una condizione che però è tipica dello "scrittore tedesco" in generale: un sopravvissuto a se stesso che vive in una "profonda separazione dalla vita". Il nazismo, ma anche la standardizzazione dell'uomo e la crisi dei valori sono responsabili di questo processo. Da questo rapporto negativo dello scrittore con il proprio tempo, la tendenza a raccontare di "quisquilie", di immagini, riflessioni e storie che non sono storie.
Fra il settembre 1917 e l'aprile del 1918, Kafka soggiorna a Zürau, un borgo della campagna boema, ospite della sorella Ottla. Il diradarsi della presenza umana che sperimenta in questa situazione, suscita in lui un sentimento di lieve euforia, facendogli apparire quel periodo di tregua come il migliore della sua vita. Mette insieme una sequenza di fogli, ciascuno dei quali contiene un solo frammento numerato, dove ogni ridondanza, ogni accidentalità, ogni insistenza è abolita. Alcuni frammenti sono narrativi, altri consistono in singole immagini, altri ancora sono parabole. Ogni frase presenta un carattere di massima generalità e, al tempo stesso, sembra emergere da un vasto deposito di materia oscura.