Antonia Pozzi, poetessa e fotografa degli anni Trenta, è stata oggetto da alcuni decenni a questa parte, fin dal primo riconoscimento di Eugenio Montale, di una straordinaria riscoperta sia in Italia sia all'estero, resa evidente dal susseguirsi continuo di scritti critici e tesi di laurea su di lei, e di traduzioni dei suoi versi in varie lingue (a quelle precedenti, già numerose, se ne sono aggiunte recentemente due in tedesco, mentre è in preparazione una traduzione in francese). Per quel che riguarda la poesia, ricordiamo che, nonostante sia morta suicida a soli ventisei anni, Antonia Pozzi ha lasciato più di trecento composizioni, estremamente originali per temi e linguaggio e, sul piano della fotografia, ha prodotto circa tremila immagini, ormai oggetto di interesse nella loro autonomia espressiva. Il volume, oltre alle poesie, propone testi dai diari e dagli scritti critici come il saggio su Huxley e alcuni passi dell.introvabile tesi di laurea su Flaubert e dalle lettere scelte ai compagni di studi e ad Antonio Maria Cervi.
Un documento che tenta un varco fra le opposizioni di sacro e profano, fra interiore ed esteriore, esterno e interno: la voce, un tempo esperienza sacrale e di comunione della diversità, conosce in questo lavoro, in mezzo al caotico appiattimento, nell'anestesia generale di una città-pretesto, un'utilizzazione volta alla trasmissione della poesia di uno dei più significativi poeti al mondo. I testi vengono detti nel ritmo del quotidiano: il poeta (sempre in anticipo) e il traduttore (in ritardo) entrano nei luoghi di una Roma-pretesto rappresentata da sei vie d'uscita: la piazza, le rovine, la porta, la scala, la stazione e il giardino. Come nella tradizione la voce (sacra) fa tendere il quotidiano al simbolico, ma questo è un quotidiano sofferto come una preghiera dell'interiorità, una consapevole resa all'impossibilità di dire se stessi. Strand e Abeni riescono però a dare voce a un "fronte interno" attraverso la poesia e il suo doppio, la traduzione impossibile, sempre in ritardo. E ci si trova di fronte a una nuova disarmata armonia, che altro non alimenta se non il dubbio di portarsi a compimento. La voce ci arriva dallo spiraglio di un video dove si può sentire l'urlo o il sussurro degli invisibili. Si desiderava che il metronomo dell'eterno ritorno fosse il tic-tac del cuore materno.
Pubblicato nel 1917, "Dono d'amore" ("Palataka") è una raccolta di sessanta poesie che completa il percorso iniziato da Rabindranath Tagore con "Petali sulle ceneri" ("Pushpanjali"). Scritte e continuamente rimaneggiate in un lungo periodo tra il 1885 e il 1915, in ricordo dei grandi affetti perduti ma che sopravvivono nella vita del poeta, queste liriche contengono, accanto ai temi ricorrenti di tutta la sua opera - l'amore, il dolore, la solitudine, la natura, l'incontro con Dio, il significato della vita e della morte -, un messaggio che oltrepassa il tempo: ogni aspetto della vita è dono, bisognerebbe goderne finché lo si riceve, senza mai perdere di vista la sua gratuità e la gioia che se ne ricava. Proprio perché gratuito e impetuoso, questo "dono d'amore" arriva come una visita notturna, conosce l'impazienza, i segreti, lo scrosciare del monsone, il desiderio e l'emozione del ritrovarsi. Si alternano, nei vari componimenti, indimenticabili paesaggi sul Gange, spiagge sabbiose su cui le tartarughe prendono il sole, rive alberate e ombrose per i boschetti di bambù, stanchi pomeriggi afosi in cui, alla ricerca dell'amata, si arriva alla convinzione che sia fuggita via "nel silenzio e nelle parole", irrimediabilmente perduta.
Le trentotto poesie che formano il Citra sono state composte da Tagore nello spazio esatto di tre anni, tra il marzo 1893 e il marzo 1896. A quel tempo il poeta trentaduenne, sposato da dieci anni e padre di cinque figli (l’ultimo è del 1894), vive una vita familiare piena di interessi e di impegni a Calcutta ed è già apprezzato e conosciuto in patria per le sue numerose pubblicazioni.
Le poesie di questa raccolta sono state suddivise in cinque classi, secondo il tema dominante:
1) La percezione della bellezza; 2) l’amore per l’uomo e per la terra; 3) il Dio della vita; 4) il lavoro e il dovere; 5) la morte.
Destinatari
Giovani e adulti, appassionati di spiritualità orientale, interessati alla poesia, in particola- re quelli affezionati a Tagore.
Autore
Robindronath Tagore (Calcutta 1861- 1941) è il più grande poeta moderno dell’India, ma è anche drammaturgo, prosatore, filosofo e critico letterario. Nel 1913 vince il Premio Nobel per la Letteratura con l’opera Ghitangioli. Fonda una scuola divenuta in seguito Università Internazionale, ispirata ai valori della pace e della fratellanza. Organizza cooperative agricole e bancarie, promuovendo piccole industrie. Viaggia instancabilmente in Europa, Asia, America.
Twardowski è, da oltre trent’anni, il poeta più amato e pubblicato in Polonia; attraverso un linguaggio di estrema semplicità, la sua opera esprime un messaggio di bontà e speranza, animata al contempo da profonda umanità e tensione metafisica. Egli parla di Dio e dell’uomo ricorrendo alla cifra stilistica dell’ironia e del paradosso, perché «solo la lingua dei paradossi può dire ciò che supera il nostro intelletto».
Le donne nella poesia italiana contemporanea sono una presenza molto forte: dietro quella decina di autrici che tutti conoscono e molti amano c'è una ricchezza di voci emergenti di grande interesse e di sicuro valore. Questa antologia ne raccoglie dodici con la duplice intenzione: di farle leggere o rileggere a un giro di lettori abbastanza ampio e di confrontarle fra loro "a distanza ravvicinata", per vedere ciò che le unisce al di là dell'ineccepibile originalità delle singole scritture.
"Poemetto gastronomico e altri nutrimenti" di Tomaso Kemeny è un libro strano: da un lato pare una sorta di canzoniere-poema in cui tutta la realtà viene sottoposta alla prova della poesia: le persone amate, i poeti maestri, le ritualità cosmiche. Dall'altro manifesta un fluire narrante, apparentemente stralunato, in cui il libro si rivela una sorta di convivio dove immagini, ricordi, visioni si incontrano secondo un moto ondoso, creando una specie di moderna satura. Dallo sberleffo al desiderio del sublime (desiderio però controllato da un'ironia obbligatoria in questi casi), all'abbandono commosso di fronte a realtà concrete: elementari, non quotidiane. E in tal senso la prima parte del libro, il compatto "Poemetto gastronomico" che all'opera dà il titolo, si rivela il luogo di massima originalità. La lezione del Byron eroicomico, quello del Beppo e del Don Juan, attingente ai modelli italiani del Boiardo e del Pulci, si manifesta in Kemeny in forma di festosa poesia sul cibo e sulla gioia del vivere, un divertito canto alla vita che, nella sua piena felicità, porge la chiave per interpretare la seconda parte. Dove i nomi dei poeti amati e delle persone, i sogni notturni e cosmici di armonia celestiale, rivelano la loro natura malinconica, sempre confortata da un sorriso, realtà rara in poesia.