I rapporti tra musica e filosofia sono sempre stati complessi e insidiosi. Da un lato, la filosofia ha visto nella musica un semplice allettamento dei sensi, fonte di piacere e di soddisfazione più che occasione di riflessione, dall'altro l'ha considerata come un'esperienza privilegiata di contatto con l'assoluto e con il divino, al punto da volerne quasi imitare forme e ritmi. Il primo capitolo del volume ripercorre gli snodi fondamentali della storia del pensiero musicale e si sofferma sullo scarto di consapevolezza che, a partire dal romanticismo, ha fatto sì che la riflessione filosofica sulla musica prendesse uno sviluppo e un'importanza prima sconosciute. Il secondo capitolo rilegge la tradizionale questione del ruolo del sentimento nell'arte dei suoni, inserendosi così in una discussione che è oggi tornata di attualità e occupa gran parte della riflessione dedicata alla musica dall'estetica analitica angloamericana. Il terzo capitolo prende in esame la questione della tecnica, richiamandosi alle elaborazioni critiche e teoriche proposte dai grandi autori dell'estetica musicale novecentesca - da Adorno a Dahlhaus - e confrontandosi con le tesi emergenti nell'ambito delle poetiche musicali contemporanee, da Xenakis a Boulez.
Nell'epoca in cui i festival di filosofìa riscuotono il successo dei grandi concerti rock, si può forse cominciare a dire che la filosofia è aperta a tutti quelli che hanno voglia di sperimentarla, non solo agli specialisti. La filosofia discute di temi e problemi che riguardano tutti. Che cosa è giusto o sbagliato? Come si conduce un ragionamento corretto? Che cosa conosciamo? Si tratta allora di capire come entrare nel mondo della filosofia. Come imparare le regole del gioco. I 4 giovani filosofi autori del libro hanno scelto di discutere di filosofia con Gregory House, l'originale protagonista di una delle serie tv più seguite di tutti i tempi, Dr. House M. D. Perché si può fare filosofia anche senza i manuali. In maniera appassionante, rigorosa, ma anche divertente... divertente come guardare la propria serie televisiva preferita.
La filosofia della musica ha avuto un grande sviluppo durante gli ultimi trent'anni, in virtù degli avanzamenti fatti nella comprensione della natura della musica e della sua estetica. Peter Kivy è stato al centro di questo rinnovamento e con questo saggio ha scritto la sua summa della materia, una spiegazione delle questioni filosofiche più importanti legate al mondo musicale. La sua proposta teorica viene discussa tenendo conto della storia del pensiero musicale (da Platone e Aristotele alla Camerata fiorentina, da Kant, Hegel e Schopenhauer a Hanslick e Gurney) e attraverso il confronto argomentativo con le tesi di altri filosofi contemporanei.
"Abitare la distanza" è la condizione dell'uomo, caratterizzata dal paradosso: egli è dentro e fuori, vicino e lontano, ha bisogno di un luogo, di una casa dove "stare" ma poi, quando cerca questo luogo, scopre il fuori, la distanza, l'alterità. Nello scenario del pensiero contemporaneo, l'autore interroga i filosofi che guardano in questa stessa direzione - Heidegger, Derrida, Lacan, ma anche Merleau-Ponty, Ricoeur, Bateson -, non solo descrivendo una condizione "impossibile" ma soprattutto indicando un modo, un atteggiamento, un "come" stare nel paradosso. E proponendo alcuni esercizi - nello stile di possibili pratiche filosofiche - relativi allo sguardo, all'ascolto e alla scrittura.
Testimonianza di una nobile e sincera amicizia, il libro è il generoso omaggio di un grande filosofo a un filosofo più giovane che da principio ne ha seguito le tracce, per imporsi poi con un’opera originale. Omaggio filosofico, ovviamente: per quanto non manchino pagine intensamente affettuose che conferiscono un caldo colorito alle ricorrenti riflessioni sull’amicizia, il volume è dedicato a una lettura del pensiero di Jean-Luc Nancy (ben noto anche in Italia), considerato sotto una particolare angolazione, la questione del tatto, in tutti i significati che la parola ha assunto nella cultura occidentale, da quello erotico a quello religioso, da quello gnoseologico a quello etico. In un serrato dialogo con una tradizione che muove dall’antichità, ma con particolare attenzione a quella che Derrida chiama una linea filosofica «franco-tedesca», il libro, pur incentrato su Nancy, ne mette a confronto la scrittura con le tesi classiche in numerose digressioni che muovono da Aristotele per toccare Descartes e S. Giovanni della Croce, il Nuovo Testamento e Kant, il problema di Molineux e Maine de Biran, Husserl e Merleau-Ponty, Lévinas e Heidegger. Derrida tuttavia non elabora un trattato, e meno che mai si preoccupa di tracciare un capitolo della storia della filosofia occidentale, ma, secondo lo stile che caratterizza la sua splendida maturità, affida a un scrittura straordinariamente affascinante, benché non facile, il compito di cercare «nel solco di Heidegger, la specificità di un pensiero che non si riduca né alla poesia, né alla filosofia né alla scienza».
Accompagnato dai lavori di Simon Hantai
GLI AUTORI
JACQUES DERRIDA nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, nei pressi di Algeri. Ha insegnato prevalentemente a Parigi e negli Stati Uniti, e ha ottenuto lauree e dottorati honoris causa in molte Università presenti nel mondo. Riconosciuto come uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, ha prodotto lavori che sono stati tradotti in una decina di lingue e che sono stati oggetto di convegni e incontri in Francia, Italia, Germania, Inghilterra, Canada, Stati Uniti e Giappone. Muore a Parigi il 9 ottobre 2004.
Un libro sull'origine dell'umanità, su Dio e sulla creazione di Eva, sul paradiso terrestre e sul peccato originale. Ma non si tratta di un libro di teologia. Piuttosto, è un'indagine di confine fra storia dell'arte e storia delle idee. In primo piano c'è la donna che Dio volle dare come compagna all'uomo: Eva che nasce dalla costola di Adamo, Eva che si lascia sedurre dal serpente tentatore e afferra il frutto proibito, Eva che porta, in eterno, la colpa della perdita dell'Eden e del peccato originale. Un mito, quello della coppia originaria, che pervade l'arte, la fede e la cultura occidentale: lo si ritrova raffigurato sulla facciata di Notre Dame, nel portale d'Adamo a Bamberga, nella Cappella Brancacci a Firenze, nella Cappella Sistina in Vaticano. E lo si incontra, persino più spesso, in una ricca tradizione di testi che muove da san Paolo e sant'Agostino per giungere, attraverso una quantità di commenti medievali e moderni, sino a oggi. Dopo aver presentato le immagini e i racconti, le diverse incarnazioni e interpretazioni che del mito sono state prodotte nel tempo, Kurt Flasch dà conto della rielaborazione che la cultura europea ha compiuto di un materiale mitologico nato originariamente in Oriente e indaga le dottrine e le costruzioni di pensiero originate dal racconto paradisiaco: il tema del peccato originale e della salvezza.
Averroè (1126-1198), il filosofo e scienziato arabo-spagnolo celebre in Occidente soprattutto per i suoi commentari al pensiero di Aristotele, fu uno degli intellettuali più controversi del suo tempo. Rampollo di un'eminente famiglia della sua città natale, fu lui stesso per molti anni fedele servitore dei sovrani almohadi, che dal 1147 presero a regnare in Africa e nella Spagna musulmana. Caduto in disgrazia, fu esiliato, le sue dottrine vennero condannate e fu vietato lo studio della sua filosofia. Poco prima della morte, venne tuttavia riabilitato e accolto a corte. Studioso poliedrico e versatile, ha lasciato contributi in campo non soltanto filosofico, ma anche teologico, giuridico e scientifico. Massimo Campanini ricostruisce la vicenda di questo importante protagonista della cultura medievale, mettendo in luce i principali aspetti del suo pensiero, analizzando i caratteri specifici di un'eredità filosofica destinata a esercitare un'influenza decisiva sul sapere dell'Occidente latino, e individuando nella natura "militante" del progetto culturale che egli elaborò il tratto più moderno e perspicuo dell'intera sua opera.
Che cosa lega logica e mistica, linguaggio e forma di vita? L'aspetto più affascinante del pensiero di Ludwig Wittgenstein è affrontato in queste pagine dal grande storico della filosofia antica Pierre Hadot. E cioè proprio da chi ebbe il merito di introdurre, alla fine degli anni cinquanta, il pensiero di Wittgenstein in Francia, con una serie di conferenze tenute presso il College Philosophique diretto da Jean Wahl. I quattro saggi scritti tra il 1959 e il 1962 e qui riuniti da Hadot costituiscono un itinerario unico nel suo genere: il filosofo, e non lo storico o lo specialista, si interroga sulla natura dell'indicibilità che il Tractatus logico-philosophicus ha svelato nel cuore del linguaggio, e la reinterpreta alla luce delle nozioni centrali delle Ricerche filosofiche, quelle di "gioco linguistico" e di "forma di vita". Questo libro famoso ci pone con la sua prosa piana e felice di fronte a un'immagine nuova e più vicina di Wittgenstein, l'immagine che ha poi ispirato l'idea centrale dell'opera di Hadot: il linguaggio filosofico, e dunque l'essenza della filosofia, è un'attività, o meglio un "esercizio spirituale".
Caratteristica peculiare dell'approccio arendtiano all'interpretazione dell'esperimento totalitario - di cui i campi di concentramento sono l'"istituzione centrale" - è la "cristallizzazione" storica di due elementi strutturali che troviamo alle origini della Grande Tradizione occidentale: da un lato la metamorfosi della politica in biopolitica; dall'altro la perdita della concezione del potere come dynamis e come spazio del tra a favore della razionalità onnipervasiva dell'homo faber. Dentro tale cornice si dipana il fil rouge che lega i saggi contenuti in questo volume: alcuni di essi ruotano intorno alla "teoria politica del giudizio" proposta da Hannah Arendt, relativa a quale forma etico-politica assuma l'atto prettamente umano del giudicare quando l'oggetto del giudizio sono esseri umani o azioni che sembrano aver perso del tutto ogni connotazione "umana"; gli altri esplorano il suo ardito tentativo di "ripensare il totalitarismo", sia in riferimento ai terrificanti e per tanti versi inconcepibili eventi che hanno marchiato indelebilmente il secolo scorso, sia applicando le categorie interpretative dell'ermeneutica arendtiana del totalitarismo alla contemporaneità e alle perverse dinamiche politiche del presente.
Frankfurt esamina l'idea di "verità": esiste? è davvero importante? Attingendo alla logica, alla linguistica, alla filosofia morale, a esempi quotidiani e passi di autori come Spinoza o Shakespeare, Frankfurt dimostra che conoscere la verità (o alcune verità) è di vitale importanza per la società e per la nostra stessa vita personale. Per questo i filosofi postmoderni che ritengono impossibile distinguere tra vero e falso forse, in fondo in fondo, non dicono la "verità".
La riflessione epistemologica di Michael Polanyi può, a buon diritto, annoverarsi come una delle più interessanti ed originali espressioni della cosiddetta "nuova filosofia della scienza". Essa ha la sua espressione più compiuta nella definizione della conoscenza scientifica come "conoscenza personale", che trova nel presente testo tutti gli elementi della futura elaborazione, corredati per di più dalle splendide e rivelative metafore del "golfista" e dello "scassinatore".
Che senso ha la vita? Perché sono qui? Perché dovrei fare la cosa giusta? E che cos'è la cosa giusta? Sono domande tutt'altro che facili. Ma alcune delle menti più brillanti della storia hanno lasciato idee e linee di condotta per il nostro benessere psicologico. Le concezioni di Platone sul bene e sul male, il consiglio di Aristotele di seguire in ogni situazione ragione e moderazione, i pensieri di Kierkegaard sulla morte, la saggezza tradizionale degli "I Ching" o la teoria dell'imperativo di Kant possono rivelarsi straordinariamente utili per affrontare problemi concreti. Questo libro riporta il pensiero dei grandi pensatori della filosofia di tutti i tempi, insegnando a vivere meglio il presente.