La sensibilità marca profondamente la nostra esistenza: piene di forme sensibili sono la vita diurna così come quella che ci regalano i sogni notturni, la musica che ascoltiamo gli affetti che proviamo e i sapori che gustiamo. Ma la sensibilità è anche facoltà attiva: parlando, disegnando, modificando la materia che ci circonda produciamo ogni volta sensibilità. Se la scienza, la filosofia, il diritto ci hanno abituato a scorgere nella razionalità il tratto distintivo della specie umana, e nella ragione la facoltà che rende veramente umana la vita dell'"homo sapiens", il libro di Emanuele Coccia infrange questa lunga tradizione di pensiero, riabilitando una modalità negletta eppure onnipresente della nostra esistenza. Ancor prima di essere pubblicato in italiano, "La vita sensibile" è già stato tradotto in francese, spagnolo, portoghese e rumeno, ed è stato recensito su "Le Monde".
Il volume, non previsto come pubblicazione dall'autore stesso, si presenta nella forma di raccolta di saggi più o meno brevi, in gran parte già pubblicati autonomamente in anni precedenti, riuniti quindi dalle figlie di Sestov; fu pubblicato per la prima volta in Francia nel 1964. Qui presentato in prima traduzione italiana, il volume costituisce per un verso un'espressione importante del pensiero sestoviano dell'ultimo decennio di vita dell'autore, contrassegnato dalla radicalizzazione del dualismo tra pensiero "speculativo", fondato sulle acquisizioni della ragione, e pensiero "esistenziale", fondato sull'esigenza di forzare le evidenze della ragione e per questo aperto alla "rivelazione". Per altro verso, esso è anche una rappresentazione importante del procedimento della riflessione filosofica di Lev Sestov, basata su uno stringente confronto, interiore e dialogante piuttosto che oggettivo e analitico, con le più diverse personalità in campo filosofico, letterario e religioso. L'opera è anche per queste ragioni una delle tappe centrali per la comprensione della ricezione, da parte della filosofia esistenziale di orientamento religioso, di alcuni momenti fondamentali dell'esperienza spirituale tra l'Oriente e l'Occidente dell'Europa.
Leggere "Presenza e immortalità" significa immergersi nelle riflessioni di Gabriel Marcel che hanno al centro il mito di Orfeo ed Euridice, vissuto come ricerca indefessa di una presenza perduta. Le pagine del diario scritto durante la Seconda guerra mondiale e quelle dei saggi che lo accompagnano rendono il lettore un viandante che attraversa un mondo straziato, esposto alla tentazione della diserzione e della disperazione assoluta, un mondo svuotato di senso, avvolto dal buio e dalla minaccia della morte. Proprio nella notte, però, l'anima tenta un faticoso percorso verso il chiarore dell'aurora. La filosofia di Marcel non è un pensiero dell'io che costruisce attorno a sé un sistema autoreferenziale, ma è aperta radicalmente all'alterità: essa è per essenza polifonica, come sottolinea il filosofo. La polifonia, connettore del pensiero di Marcel con il teatro e con la musica, designa l'attestazione concreta e drammatica dell'alterità plurale, degli altri, del mio corpo, di me a me stesso. E proprio quest'opera è uno sforzo teso ad affermare che l'io è originato da un noi plurale che sta al suo centro come un appello continuo e una fonte inesauribile di irradiazioni ontologiche e intersoggettive. Prefazione di Glauco Tiengo.
Con questo libro si sostiene che l'esistenza di Dio può essere affermata dal punto di vista razionale anche in mancanza di adeguate argomentazioni. Non è una tesi diffusa. Di solito si richiedono "prove" o "dimostrazioni": così il semplice credente viene ricacciato nella sfera del fideismo se non del miracolismo. Oppure si esige che egli si affidi al confronto di motivi pro et contro: ma così si rischia di ridurre la fede al calcolo delle probabilità. In questo saggio, invece, col rigore epistemologico della filosofia analitica anglosassone, e per il tramite della tradizione cristiana riformata, viene avanzata una posizione di tipo agostiniano. Con essa sembra rivivere la grande prospettiva dei primi cristiani, quella della philosophia Chrìstus.
Per quale motivo gli abitanti della Terra hanno da sempre avvertito la chiamata del Sacro? Qualsiasi nome sia stato assegnato a questo sentimento, si tratta di qualcosa di relativo alla volontà umana di conoscere. Una certa tradizione filosofica pare dirci che il compito dell’uomo è quello di ricercare la verticalità, mirando a spazi celesti, e lasciandosi alle spalle una processualità puramente orizzontale, la quale non può che spingerlo a lasciare lo spazio precedentemente occupato.
Donà, al contrario, invita il lettore a dubitare che il Sacro richiami l’uomo all’esteriorità, e a ipotizzare invece che esso lo chiami a partire dalle profondità di un mare incondizionato sul quale è sospesa la nostra fragile esistenza terrena. Soltanto il vero creatore, colui che è capace di portare il non essere all’essere, sarebbe dunque in grado di disvelare il carattere incondizionato proprio al Sacro.
Massimo Donà è docente ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute, San Raffaele di Milano, dove insegna Metafisica e Ontologia dell’arte. Da diversi anni è curatore, con Romano Gasparotti, dell’opera postuma di Andrea Emo. Tra le sue numerose pubblicazioni, segnaliamo: Sulla negazione, Milano 2004; Filosofia della musica, Milano 2006; Arte e filosofia, Milano 2007; I ritmi della creazione. Big Bum, Milano 2009; Santificare la festa, Bologna 2010; Filosofia. Un’avventura senza fine, Milano 2010. Con Mimesis ha pubblicato: Il mistero dell’esistere. Arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di René Magritte, 2006; L’aporia del fondamento, 2008; La “Resurrezione” di Piero della Francesca, 2009; Il tempo della verità, 2010; Abitare la soglia, 2011.
Luca Taddio è dottore di ricerca in Filosofia, insegna Estetica all’Università di Udine. Il suo interesse di ricerca prevalente è la filosofia della percezione e la teoria dell’immagine. È autore di numerosi racconti filosofici, per lo più raccolti nel volume Spazi immaginali (2004).
Salvatore Lavecchia è docente di Storia della Filosofia Antica presso l’Università degli Studi di Udine. Ha pubblicato studi sulla lirica greca di età arcaica e classica (Pindari Dithyramborum Fragmenta, Roma 2000), sulla storia della religione greca, su Platone (Una via che conduce al divino. La «homoiosis theo» nella filosofia di Platone).
I grandi narratori sono stati in grado di darci dell’io una rappresentazione di straordinaria efficacia, che aiuta a comprendere meglio quel che al riguardo hanno faticosamente voluto dire i filosofi.
E questo accade perché spesso sono stati proprio i grandi scrittori, in particolare Wolfgang Goethe, Jean-Jacques Rousseau, Henry James e Marcel Proust, ad anticipare quanto circa i confini di quell’io è stato messo in evidenza dall’altro rivale della riflessione filosofica: l’indagine scientifica.
Stefano Poggi insegna Storia della filosofia all’Università di Firenze. Nelle nostre edizioni ha pubblicato La vera storia della Regina di Biancaneve (2007) e curato, con M. Bettetini, I viaggi dei filosofi (2010).
Le pagine di questo libro presentano di Descartes uno degli scritti più significativi, quelle Meditazioni metafisiche che hanno costituito il privilegiato punto di riferimento per gran parte del pensiero moderno, da Vico a Leibniz, passando per Malebranche e Spinoza. L’offerta in versione italiana, latina (1641-1642) e francese (1647) è un esplicito invito alla lettura di un classico della cultura filosofica e scientifica.
Questo libro racconta la storia di una donna (1891-1942) che è stata chiamata Edith in famiglia, signorina Edith Stein al liceo, dottoressa Edith Stein all'università, suor Teresa nel Carmelo, matricola 44074 ad Auschwitz e ora, per la chiesa, è santa Teresa Benedetta della Croce.
Traduttore dei classici dell'ermeneutica contemporanea - Schleiermacher, Heidegger, Gadamer -, Giovanni Moretto ha saputo coniugare l'arte ermeneutica in quanto dialogo tra lingue e culture altre con una perspicua definizione della disciplina, divenuta un modello di riflessione per la filosofia e per la teologia. L'interpretazione dei testi, proprio nel chiarificare i sensi reconditi delle pagine interrogate, fa rivivere l'ispirazione che ha animato quell'autore, in quanto classico del pensiero. Ispirazione che fa tutt'uno, per Moretto, con la libertà dell'atto ermeneutico: fa rivivere le tracce di universalità che solcano i testi della filosofia e della teologia in quanto mattoni della "chiesa invisibile", di cui fa parte ogni uomo che rifletta sulla propria destinazione etico-religiosa. La stessa interpretazione filosofica della Bibbia - il libro dei libri - indica dunque alla teologia e alla filosofia l'intima vocazione a non fermarsi al particolare dell'interpretazione filologica, ma a saper guardare alla totalità. Un'ermeneutica che, tenendo gli "occhi sempre e solo rivolti al tutto", con un'espressione cara a Moretto, insegna a "ben vedere".
Da questa antologia emerge l'originalità di una riflessione che verte sull'oggettività dei valori disvelandone al contempo l'intrinseca contraddittorietà. se i valori, infatti, sono indipendenti dal soggetto, è quest'ultimo che, nell'esercizio del suo assentire o dissentire, li rende validi. Una "relatività" del soggetto rispetto ai valori che non è "relativismo", perché essi sono plurali ma non indifferenti…
Nella BAbele dei valori Hartmann è oggi una voce fuori campo la cui classicità è proprio nella tensione all'universale che dovrebbe essere in ogni seria indagine filosofica.
Quale eredità ci ha lasciato Kant? A partire dai suoi primi scritti sino alle sue opere fondamentali, si delineano qui - e vengono discussi - i concetti chiave della sua 'filosofia pratica', e i loro effetti sino a oggi: pena, (doveri verso la) natura, dignità. Categorie che, se in Kant hanno una fondazione morale, si declinano anche in senso giuridico. È il caso emblematico della pena - oggetto del primo capitolo - con riferimento alla quale Kant, al di là degli scopi che con essa si possono perseguire, è alla ricerca di un principio di giustificazione. Centrale anche il rapporto fra l'uomo e la natura, indagato nel secondo capitolo. Di fronte alle sfide dello sviluppo e dell'ambiente, alle urgenze dell'ecosistema, paiono trasformarsi gli stessi termini in gioco: le teorie etiche che coinvolgevano il soggetto-uomo si estendono ora ad altri soggetti, agli animali e al pianeta. E che ne è della dignità umana? Il terzo capitolo evidenzia che l'attuale dibattito intorno a questo principio è certamente diverso da quello verificatosi nell'immediato dopoguerra. E tuttavia, ora come allora, se non basta il semplice ritorno a Kant per risolvere i problemi, il richiamo al 'nocciolo duro' della dignità, che consiste nel considerare l'uomo come 'fine in sé', può continuare a offrire un punto cardinale per orientarsi.