
Si parla sempre più di interculturalita, sempre meno di multiculturalismo. In effetti, la molteplicità culturale non è certo una novità. C'è sempre stata nella storia umana. E tutto questo potrebbe dirsi anche dell'interculturalità. Perché allora queste realtà sociopolitiche sono diventate problema? Semplice: perché nessuno tollera più culture egemoni. Ogni cultura rivendica una qualche parità ed esige rispetto: chiede di poter partecipare alla vita comune sulla terra senza anatemi. A volte anche senza restrizioni. Ma questo è davvero possibile? E soprattutto: questo è giusto? Sembra proprio di no. Senza alcune restrizioni, a volte no: dice l'etica. Anche le realtà culturali, come tutte le realtà di questo mondo, devono essere attraversate e illuminate dalla domanda intorno al bene e al male. Il fatto è che nessuna cultura è, in sé e per sé, buona o cattiva: va interrogata nelle sue forme e nelle sue pretese, perché potrebbe portare con sé elementi che giocano contro la comune umanità (per esempio, certi casi di mutilazione del corpo). Ogni cultura va rispettata e onorata, certo, ma a misura che essa, a sua volta, rispetti e onori l'umanità comune. Il principio del riconoscimento, che è il punto di riferimento regolativo di tutto il libro e che è l'ispiratore, più o meno celato, del recente passaggio dalla cifra fattuale del multiculturalismo alla cifra prescrittiva dell'interculturalità, deve poter dispiegare la sua universalità anche riguardo alle differenti identità culturali.
Possono il filosofo e lo scienziato imparare a perdersi in uno stato di morte apparente, a disattivare gli aspetti della propria esistenza che impediscono la nascita del pensiero? In "Devi cambiare la tua vita", Peter Sloterdijk presentava la pratica dell'esercizio come dimensione decisiva per un'esistenza improntata all'"elevazione". Qui si spinge oltre, in direzione dell'ascesi teoretica. Sprofondare in se stessi è la condizione per potersi ritrovare là dove l'arte di morire e l'arte di vivere teoreticamente si incontrano, per liberarsi dai vincoli che costituiscono un ostacolo alla teoria e per vedere se oggi sia ancora possibile astrarsi e pensare.
Nel titolo di questo omaggio alla professoressa Ales Bello sono indicati i temi di maggior interesse, che esprimono il messaggio teoretico fondamentale che si ricava dalla lettura delle innumerevoli opere della studiosa, interprete originale e propositiva della fenomenologia husserliana in Italia. I contributi spaziano dalla metafisica, alla filosofia della religione, alla teologia e mistica, dall'antropologia filosofica, all'etica, al diritto, alla psicologia e psicopatologia fenomenologica.
Il testo affronta le nozioni fondamentali della politica, facendo parlare i filosofi più rilevanti della tradizione occidentale e illustrando i temi salienti del discorso politico (autorità, potere, giustizia, diritti, rappresentanza, diritto di resistenza, costituzione, pluralismo, tolleranza, bene comune, globalizzazione, religione e politica). Se la politica deve essere di tutti, tutti siamo chiamati a conoscerne la storia e i concetti per essere capaci di affrontare il discorso pubblico con argomenti motivati, personali e critici.
Attraverso riferimenti essenziali alla formazione e allo spettro completo degli interessi di uno dei massimi esperti del mondo antico, viene offerta una testimonianza significativa circa la necessità che la civiltà occidentale ripensi in maniera profonda e rigorosa, ma anche spregiudicata, le sue radici culturali. Un colloquio che mostra l'attualità del pensiero antico, destinato ai giovani ma anche a chi troverà utile possedere in un volume agile un vero e proprio compendio del pensiero realiano.
Politica e morale paiono intrinsecamente antagoniste: un'antinomia di cui si fa carico la filosofia moderna, problematizzando la cesura fra reale e ideale. Max Schler prende le distanze sia da un approccio "monistico" ("ogni agire politico è subordinato alla legge morale individuale") sia da uno "dualistico" come quello teorizzato da Niccolò Machiavelli ("le norme morali sono indipendenti dalla politica").
L'inedito Politik und Moral (1926-1928), qui presentato e tradotto, vorrebbe essere la "quadratura del cerchio".
"La formula 'fine del moderno' - entrata da tempo in uso e oggi forse anche uscitane - suggerisce l'idea, in qualunque modo la si voglia intendere, che del moderno qualcosa è tramontato. Che, poi, si sia definitivamente concluso si può anche discutere, ma non v'è dubbio che Nietzsche si colloca al centro di questo snodo e ne rappresenta il radicale crocevia. Motus in fine velocior, e di questo Nietzsche è conseguenza e insieme manifestazione: non per caso formula la sua filosofia come un annuncio. Per la stessa ragione, costituisce un punto di non ritorno, un inevitabile transito. Ciò dà conto della ragione per cui proprio con Nietzsche venga quasi spontaneo passare al 'dopo Nietzsche'. E lui che suggerisce d'oltrepassarlo. Questo libro non è perciò, né vuole esserlo, una ricostruzione storico-critica del pensiero di Nietzsche, ma piuttosto insiste e si muove lungo quella traiettoria di pensiero, quella curvatura che Nietzsche ha impresso alla filosofia come luogo proprio per sollevare questioni di verità."
Il tema della natalità si pone come crocevia di molte tematiche arendtiane, a cominciare da quelle che riguardano il significato della vita politica, per passare attraverso i temi dell'identità, delle relazioni, del dolore, dell'amicizia, della promessa e del perdono. Il testo di Alessandra Papa percorre le questioni del rapporto tra il venire al mondo e il vivere nel mondo attraversando le opere di Hannah Arendt, e prestando particolare attenzione anche a quegli aspetti meno frequentati del suo pensiero, come le note a margine, le metafore, cioè quei riferimenti che la pensatrice chiama analogie congelate. Ne esce un quadro articolato, in grado di interagire con molte pagine della tradizione filosofica occidentale, interpellate attraverso la riflessione della stessa filosofa tedesca. Il risultato di questo lavoro non è soltanto quello di restituirei una lettura più complessa ed articolata del rapporto tra natalità e politica in Arendt, ma quello di fornire elementi teorici per una rilettura della questione antropologica nell'epoca in cui la politica ha la tentazione di “mettere le mani” sulla vita e diventare biopolitica.
"È curioso, ma il problema e la nozione dell'Autorità sono stati molto poco studiati" afferma Kojève in apertura di questo libro - scritto nel 1942, ma pubblicato postumo soltanto nel 2004 -, e aggiunge: "raramente l'essenza di questo fenomeno ha attirato l'attenzione. Eppure, in tutta evidenza, è impossibile trattare del potere politico e della struttura stessa dello Stato senza sapere che cosa è l'Autorità in quanto tale. Uno studio della nozione di Autorità, sebbene provvisorio, è quindi indispensabile". E mentre "La nozione di Autorità" giaceva nel chiuso di un archivio, solo in parte la riflessione filosofica è riuscita a colmare la lacuna additata da Kojève. Lo riconosceva esplicitamente Hannah Arendt, che dopo aver constatato "un crollo più o meno generale, più o meno drammatico, di tutte le autorità tradizionali" concludeva: "non siamo più in grado di sapere che cosa è effettivamente l'autorità", precisando che "la risposta a tale questione non si può assolutamente trovare in una definizione della natura e dell'essenza dell'autorità in generale". In realtà la risposta che la Arendt attendeva era già in queste pagine, dove Kojève, muovendo da un'analisi fenomenologica, riconosce quattro tipi "semplici, puri o elementari" di Autorità, che si rispecchiano in quattro filosofie: l'autorità del Padre (la scolastica), del Signore (Hegel), del Capo (Aristotele) e del Giudice (Platone).
I Rotary Club veneziani (Venezia, Venezia Mestre Torre e Venezia Riviera del Brenta) hanno raccolto in questo volumetto il pensiero e le libere opinioni di molti personaggi (politici, amministratori, docenti, studiosi, filosofi e teologi) sul tema dell'Etica e della Responsabilità di chi deve operare in conformità al bene, alla giustizia e allo sviluppo dell'uomo.
La filosofia sembra, in tempi pieni di disperazione, diffidare della speranza. Il tentativo di queste pagine è invece quello di rimetterla al centro della riflessione filosofica, attraverso uno statuto dialettico ben preciso. Ogni volta che speriamo, infatti, è in opera un lavoro sul negativo che prefigura una riconciliazione, una sutura, un passaggio di liberazione. Non che questa sutura sia prevedibile, essa si può solo sperare, appunto. Si tratta d'immaginare quel che non si può propriamente sapere. Un divieto d'ontologia libera la latenza etica della speranza e, finalmente, la rende esperienza autenticamente umana, capace di orientare e trasformare l'azione dell'uomo. È la regola della speranza che permette di custodire - fin dentro l'esperienza del negativo - l'irriducibile necessità del meglio, l'umana disposizione alla felicità, l'esigenza della giustizia, la trasfigurazione etica della totalità.