"L'uomo teme soprattutto la morte. È così da sempre. La paura viene da lontano, dall'inizio. Se la morte è l'estrema minaccia che il Dio veterotestamentario rivolge ad Adamo, ciò significa che Dio sa che la morte è quel che Adamo teme di più." Sin dai suoi primi passi l'uomo ha tentato di difendersi dalla morte e di comprenderne il senso. Così, partendo dai miti, attraverso le religioni sempre si è confrontato con questa sconcertante evidenza del venir meno, dell'assenza di ciò che era presente, delle metamorfosi. Ma è solo con il pensiero filosofico che nel popolo greco è stato messo a fuoco il rapporto delle cose e degli eventi con il nulla. Un nulla, una assenza totale, che ha conferito un carattere tanto più radicale alla morte e alle riflessioni su di essa. Si incomincia a morire — e a nascere — di fronte al nulla e ha così inizio la paura estrema della morte. Per il nichilismo contemporaneo, al quale perviene lo sviluppo estremo — e più coerente — del pensiero filosofico, ogni cosa è destinata ad andare nel nulla. Eppure, discutendo anche con molti suoi interlocutori, Emanuele Severino fa capire i motivi per i quali si deve affermare che l'andare nel nulla delle cose e degli eventi non è qualcosa di "evidente", di "sperimentabile". Un'affermazione che solo apparentemente è paradossale, perché al contrario essa esprime la maggiore fedeltà all'apparire del mondo. Non solo: "Si dice che 'ognuno di noi' sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l'esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita)". Nelle pagine di questo saggio, Severino si rivolge al lettore con un linguaggio chiaro e suggestivo, guidandolo nel labirinto delle grandi domande, delle questioni irrisolte a cui da sempre la filosofia cerca di dare risposta.
Il testo vuole incarnare una possibile mediazione tra universi culturali lontani ed essere una lettura propedeutica per chi intenda addentrarsi nella tematica, lasciando che la fede cristiana s’interroghi liberamente sul ‘gender’. Un approccio sereno e critico sia alla cultura laica di genere – della quale si esaminano i nodi principali – sia a quella cattolica, con l’intento di superare le reciproche diffidenze e cercare insieme una verità umanizzante per tutti. L’obiettivo è gettare delle basi condivisibili su cui costruire una sintesi teologica più ampia. Un testo che, nell’esaminare i nodi teoretici, volge lo sguardo alla recente campagna ‘anti-gender’, cercando di fornire le coordinate utili a svelenire il clima e muoversi al suo interno con padronanza di lessico e concettualità. In questo senso, l’opera vuole essere uno strumento per formatori, pastori e attivisti che vogliano introdursi nella complessità senza scorciatoie, per cogliere la ricchezza del ‘pensiero di genere’: nell’orizzonte della promozione di un benessere comunitario e individuale.
Damiano Migliorini è dottorando in Scienze Umane all’Università di Verona, specializzato in Scienze Religiose, ‘Recognized Visiting Student’ a Oxford nel 2016 e Durham nel 2017. Docente di Filosofia e Storia, Casco Bianco nel 2014, ha pubblicato alcuni contributi teologici e filosofici in riviste scientifiche italiane e internazionali. Tra i suoi testi: L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi (con B. Brogliato, 2014), Lineamenti di cristeologia (2017), Eternal Immolation (2017), Relations. Ontology and Philosophy of Religion (curato con D. Bertini, Mimesis 2018).
"La vita, il sapere della vita e, tra vita e conoscenza, il discorso quotidiano. Cioè il fluire continuo di quella lingua che ci fa al tempo stesso contemporanei e antichi, figli del nostro tempo ed eredi di tradizioni e di epoche passate che in noi e attraverso di noi coesistono simultaneamente. Questo il quadro teorico, che ha a fondamento Inizio (Jaca Book, 2016) e che qui si snoda in tre scritti esemplificativi ed esemplari. Nel primo e nell’ultimo il riferimento è a Giovanni Gentile: in occasione del celebre incontro con Mussolini sul Lago di Garda nel 1943, che causò in seguito la morte violenta del filosofo; e poi nel controverso rapporto personale di Gentile con Croce, sino alla sua drammatica fine. Il testo centrale vede agire in contemporanea vari personaggi, con riferimento all’anno 1857 sia a Ginevra, sia, più in generale, all’Europa: Wagner e sua moglie Minna; Mathilde Wesendonck, modello di Isotta; Alfred Escher, il padre della ferrovia del Gottardo; Francesco De Sanctis in esilio; Marx ed Engels di fronte alla crisi economica; la prima rivoluzione indiana contro gli inglesi; il terremoto della Basilicata. In questo mondo in rapida rivoluzione industriale si snodano i discorsi della borghesia colta, della conoscenza, del pensiero e dell’arte, e il loro sottile, invisibile tratto comune."
La cultura moderna ha spesso stornato la generazione dalle categorie ontologiche, antropologiche ed etiche fondamentali, o l'ha mantenuta, ma nel senso dell'autoproduzione idealista. Sennonché la stessa identità soggettiva e, di seguito, l'umana capacità di fare esperienza feconda, richiedono la generazione da parte di altri per essere attivate: grazie alle relazioni benefico-virtuose guadagniamo le nostre capacità fondamentali (cognitive, riflessive, deliberative, espressive, dialogiche, tecniche, ecc.). Insomma, la generatività è la dimensione antropologicamente sintetica, a partire dalla quale è possibile giudicare le relazioni umane, che sono sempre generative o de-generative, sempre istituenti o destituenti altri. A dispetto della sentenza secondo cui «la mia libertà finisce dove comincia la tua», si può invece dire che «la mia libertà esiste perché c'è la tua, e se la tua è benefica, inoltre ha senso anche, e principalmente in vista della relazione generativa benefica reciprocante con la tua». Il presente volume ha focalizzato la categoria della generazione, prefissandosi il compito di conseguire un incremento di riflessione critica su questa categoria ontologica, antropologica ed etica cruciale. Postfazione di Francesco Botturi.
ll volume è la prima trattazione in lingua italiana, introduttiva ma il più possibile completa e aggiornata, dell’Etica delle virtù (Virtue Ethics), una corrente dell’etica contemporanea ancora poco conosciuta e coltivata nell’Europa continentale, che pone al suo centro proprio la nozione di virtù. Nonostante questo termine non sia oggi particolarmente usato e apprezzato sul piano del linguaggio comune, l’interesse che esso ha suscitato da qualche decennio permette di presentare la Virtue Ethics come un vero e proprio filone dell’etica contemporanea con radici classiche, che si distingue da quelli deontologico e utilitarista-consequenzialista. Dopo un excursus sui principali autori riconducibili alla Virtue Ethics, il libro ne prende in esame i più rilevanti e dibattuti snodi concettuali da una prospettiva tematica o problematica, ed evidenzia i nessi tra le virtù e altre dimensioni dell’agire umano. Segue, infine, un’ampia e aggiornata bibliografia.
La tesi principale attorno alla quale si articola il libro è che nel pensiero moderno il discorso su Dio non è semplicemente un "tema", ma si costituisce come un "problema", in relazione all'assunto cartesiano del "problema della conoscenza" come pregiudiziale. Sotto tale aspetto la filosofia kantiana e quella hegeliana si presentano come due diverse soluzioni rispetto al "problema di Dio". Kant ha il merito di cogliere l'aporia di fondo che caratterizza le "dimostrazioni razionalistiche" dell'esistenza di Dio e Hegel quello di ripristinare la teologia filosofica eliminando la separazione moderna tra il "pensiero" e l'"essere", ossia il presupposto ch'è comune al razionalismo (nonché all'empirismo) e allo stesso Kant.
Fichte, Schelling e soprattutto Hegel disegnano, agli inizi dell'Ottocento, i grandi sistemi del pensiero idealista che culminerà con la rivoluzione materialista di Marx, con il positivismo e le filosofie che, come quella di Schopenhauer e Nietzsche, metteranno in crisi le grandi visioni unitarie del pensiero. L'Ottocento è anche l'età della scienza, con Darwin, la logica formale, la rivoluzione della termodinamica e le geometrie non euclidee e il secolo in cui si sviluppano le scienze umane: linguistica, antropologia, psicologia, sociologia. La filosofia novecentesca, segnata dalle riflessioni sul linguaggio, si articola nella pluralità delle grandi tradizioni, dal neokantismo alla fenomenologia, dallo storicismo alla filosofia analitica, dal neoidealismo all'esistenzialismo, dalla psicoanalisi ai marxismi, dalla semiotica allo strutturalismo, dalle teorie sull'intelligenza artificiale alle riflessioni contemporanee su etica e giustizia, sino alle neuroscienze cognitive e alla bioetica.
"Come i greci insegnavano che conoscenza è reminiscenza, così la filosofia moderna insegnerà che tutta la vita è una ripresa. [...] Ripresa e reminiscenza rappresentano lo stesso movimento ma in direzione opposta, perché ciò che si ricorda, è stato, ossia si riprende retrocedendo, mentre la vera ripresa è un ricordare procedendo. Perciò la ripresa, ammesso che sia possibile, rende l'uomo felice, mentre la reminiscenza lo rende infelice, a condizione però che l'uomo si dia tempo di vivere e non cominci appena nato a trovare un pretesto per riandarsene, magari con la scusa di aver dimenticato qualcosa. Il solo amore felice è l'amore-ricordo, ha detto un certo scrittore. Bisogna convenire che è giusto, purché non si dimentichi che esso al principio ha reso l'uomo infelice. L'amore-ripresa è in verità il solo amore felice perché non porta con sé, al pari dell'amore-ricordo, l'inquietudine della speranza, né la venturosa trepidazione della scoperta, né la commozione della rimembranza, ma soltanto la felice certezza del momento. La speranza è un vestito nuovo fiammante, che non fa pieghe né grinze, ma non puoi sapere se ti va, né come ti va, perché non l'hai mai indossato. Il ricordo è come un vestito smesso, per quanto bello non puoi indossarlo, perché non ti entra più. La ripresa è una veste che non si può consumare, che non stringe né insacca, ma dolcemente aderisce alla figura. La speranza è una bella fanciulla che ci guizza via dalle mani."
Vicissitudini umane, accadimenti storici e scoperte scientifiche degli ultimi decenni sentenziano inesorabilmente che l’uomo è un essere provvisorio in confronto all’evoluzione dell’universo in cui vive e alla storia biologica di cui è partecipe. Intanto indaga su se stesso, interpreta e inventa vita. La “persona umana” non si arrende all’incertezza e non si consegna ai labirinti del provvisorio. Il volume entra in dialogo con ciò che l’uomo dice di se stesso in tempi di crisi, mentre rivolge attenzione all’antropologia filosofica classica, saggiandone la consistenza e la fondatezza dell’offerta ancora per la contemporaneità. Un viaggio, insomma, per continuare a pensare e sperare fra passato e futuro per riproporre un presente più ricco di senso, a pensare e pensarsi come protagonisti delle proprie vite, alla ricerca di un orizzonte stabile per l’esistenza personale e delle comunità umane.
Questo libro è un elogio della libertà di esplorare mondi possibili. Essere aperti al mondo significa trovarsi nella condizione di sperimentare costantemente una molteplicità infinita di incontri possibili con il mondo stesso e scoprire, al contempo, il valore inestimabile della sua incompletezza. Sono due le figure che fanno da guida lungo questo percorso alla scoperta del senso della possibilità: l’esploratore di connessioni e il coltivatore di memorie. Il primo va alla ricerca di verità e di validità e s’imbatte in un ventaglio di alternative, mentre il secondo ha lo sguardo rivolto al passato, repertorio sconfinato di possibilità. La tensione tra queste due figure spalanca una consapevolezza: l’utopia è un mondo sociale possibile, costruito con i materiali del mondo attuale. “I frammenti di un discorso utopico ci invitano a esplorare lo spazio delle possibilità, entro i confini che il mondo ci concede.” In un confronto serrato con i più grandi pensatori della filosofia occidentale, Veca dimostra che il senso della possibilità si nutre di incertezza e di incompletezza e si oppone a ogni dittatura del presente, tutelando invece lo spazio per gli esercizi dell’immaginazione, e dunque per la visione politica e per la libertà. Un saggio necessario per riconquistare il futuro senza arrendersi mai nella ricerca incessante della giustizia sociale.
È un’utopia voler costruire un mondo più solidale? L’immagine della poesia sociale è stata usata da papa Francesco per definire l’attività e l’impegno delle organizzazioni cooperative e dei movimenti popolari, ai quali egli si è rivolto in occasione di tre incontri mondiali. La vita di queste realtà, non riducibile a manifestazioni confinate in specifici contesti geografici, come quello latino-americano, è oggi molto vivace e particolarmente utile per l’aggiornamento sociale della Chiesa e per la ricerca in ambito filosofico e sociologico. Sulla scena pubblica locale e globale si muovono infatti nuove organizzazioni aggreganti che fanno emergere inediti contesti e processi di collaborazione. Esse identificano gruppi, animati da comuni interessi, in grado di promuovere risposte condivise ai bisogni che accomunano persone diverse per ceto, nazione o classe sociale.
L'affermazione di fondo è che la bellezza non valga da elemento accidentale, accessorio, che non resti soltanto fatto dell'arte, ma sia essa vista come un carattere dell'opera o come un carattere della cosa stessa cui l'opera d'arte rinvia. La bellezza dice comunque, a monte di questa distinzione, qualcosa dell'essere. Alla questione del bello inerisce dunque la questione ontologica. Nella convinzione che il bello sia tema di interesse metafisico, che sia anzi tema esso stesso metafisico, il lavoro intrapreso cerca di rintracciare la prospettiva secondo la quale la «contemplazione» - termine con cui si preferisce indicare la riflessione speculativa - possa cogliersi come «opera della bellezza».