
Un lessico dislessico del cibo, contro tempo e contro corrente. Contro quel mondo variegato di affabulatori, avvelenatori, blogger, commercianti, chef, consulenti, criminali, dietisti, guru, industriali, nutrizionisti, presentatori, professori, ricercatori, ristoratori, sofisticatori, truffatori - solo per elencare le categorie principali, rigorosamente in ordine alfabetico e non di apparizione. In tutta questa confusione la nostra cultura alimentare sembra essere diventata estranea a se stessa: l'uomo non è più ciò che mangia, non sa più cosa mangia e neppure perché.
La disuguaglianza economica è una delle questioni più dibattute del nostro tempo. Ma pochi sarebbero pronti a sostenere che la disuguaglianza è un male peggiore della povertà. I poveri soffrono perché non hanno abbastanza, non perché altri hanno di più, né perché qualcuno ha decisamente troppo. Allora per quale ragione tanti si preoccupano più dei ricchi che dei poveri? In questo saggio provocatorio, Harry G. Frankfurt, uno dei più influenti filosofi contemporanei, contrappone argomenti stringenti a chiunque sostenga che la giustizia sociale consiste nel raggiungere l'uguaglianza economica o nel ridurre la disuguaglianza: il nostro dovere morale è quello di eliminare la povertà, mentre stabilire l'uguaglianza economica non è di per sé un obiettivo moralmente rilevante. Anzi, può distrarre dal compito davvero importante, che è quello di assicurare a ciascuno la quantità di risorse necessarie per vivere una vita soddisfacente. In questo quadro l'eliminazione delle disuguaglianze non è più un obiettivo primario, ma semmai un effetto collaterale degli sforzi per eliminare la povertà. Presentandosi come una sfida a opinioni consolidate tanto a destra come a sinistra, "Sulla disuguaglianza" promette di avere un profondo impatto sul dibattito politico attuale. Come scrive il professor Gideon A. Rosen della Princeton University, è un libro piacevole da leggere, persuasivo nell'argomentazione, "uno di quei saggi filosofici che dovrebbero avere maggiore diffusione".
Le cosiddette primavere arabe, con il loro sostanziale fallimento, hanno suscitato nel mondo occidentale una delusione che ha portato molti a concludere che il rapporto tra islam e democrazia sia impossibile. Questo libro affronta finalmente il problema nella prospettiva corretta, mettendo in luce i meccanismi attraverso i quali culture e storie politiche diverse finiscono per fraintendersi. La prima cosa da capire - ci dice Riccardo Redaelli, che da anni si occupa di geopolitica e storia del Medio Oriente - è che la religione islamica non è una realtà monolitica, bensì storicamente diversificata secondo le etnie, le culture e le regioni di quel mondo. Il secondo punto è che i concetti di democrazia e di Stato nazionale, affermatisi nei nostri sistemi occidentali e basati sul concetto di libertà individuale, risultano difficilmente applicabili nelle società islamiche perché estranei alle loro tradizioni. È invece la rivelazione coranica il fondamento dei loro sistemi politici e statuali, pur se in declinazioni molto diverse. Ma le esperienze di (teo)democrazia islamica sono state finora deludenti, come mostra qui Redaelli analizzando le più significative, e spesso hanno addirittura finito per dividere e polarizzare quelle società. A complicare la situazione, le visioni radicali e militanti hanno rinverdito il mito del califfato islamico da riportare in vita sulle ceneri degli Stati nazionali moderni.
"Sviluppo sostenibile": è una formula in cui il sostantivo e l'aggettivo sono in lotta tra loro. Lo sviluppo infatti è inteso come figlio di una crescita illimitata, la quale però diventa sostenibile solo se viene limitata per rispettare i vincoli posti dalla natura. La contraddizione tra economia ed ecologia resta irrisolta. Per sciogliere il nodo non bastano rimedi tecnici, occorre che siano ripensati il modello di economia e la forma della convivenza sociale. In tale ottica questo libro propone un'idea integrale di sostenibilità e la correla con quella di democrazia.
Si delinea così il progetto di una società sostenibile, che è tale quando il suo ordinamento non offende la natura e non stravolge gli esseri umani. Per giungere a questa meta è imprescindibile l'impegno a costruire un'economia differente, concepita non più secondo il paradigma della produzione e del consumo in vista dell'accumulazione di capitale, bensì secondo il paradigma della cura del bene comune. Un'economia è davvero sostenibile quando sostiene equamente l'umanità intera e tutela gli equilibri naturali. La sostenibilità integrale riunisce il versante ambientale e quello antropologico, il quale si attua allestendo condizioni di vita che non disumanizzano persone e comunità.
Il percorso del testo si apre evidenziando come l'economia vigente risulti insostenibile non solo sul piano ecologico, ma già agli occhi del giudizio etico. Ciò chiarisce quanto sia miope ostinarsi a riformare il sistema per farlo "ripartire", mantenendone intatti i presupposti. Invece esso va superato portando alla luce un'economia che sia espressione fedele della democrazia. Qui non si tratta solo della forma di governo, ma della forma di società. Una società è realmente democratica se la dignità delle persone e il bene comune vengono rispettati. Solo una simile forma di convivenza potrà integrare sostenibilità ambientale e sostenibilità antropologica. La vera alternativa alla tendenza oggi prevalente - la mercatizzazione che soffoca tutto sotto il predominio del denaro - è la democratizzazione. Essa costituisce quel processo di trasformazione storica che assume la dignità umana, il bene comune e l'armonia con la natura come principi capaci di ispirare logiche organizzative e regole specifiche per un'economia che non faccia vittime.
Roberto Mancini è ordinario di Filosofia teoretica all'Università di Macerata. Inoltre insegna Economia Umana e Sviluppo sostenibile nell'Accademia di Architettura dell'Università della Svizzera Italiana a Mendrisio. È autore di numerosi volumi ed è editorialista della rivista Altreconomia.
La distinzione tra fede e politica - affermava mons. Luciano Monari, all'epoca vescovo di Piacenza - Bobbio, incontrando gli amministratoti locali piacentini il 15 novembre 1999 - è ormai un dato acquisito che nessuno desidera rimettere in discussione. Il Vangelo, ricordava ancora, non insegna quale politica fiscale, urbanistica o assistenziale possa rispondere con maggiore efficacia alle esigenze delle persone in una data situazione. Per questo a chi sceglie di impegnarsi in questo campo, sottolineava, bisogna chiedere lo sforzo della comprensione, della conoscenza reciproca, della formazione. Punti di riferimento che hanno guidato il pensiero e l'azione di mons. Monari anche a Brescia, dove ha promosso e sostenuto la nascita di una Scuola di formazione per l'impegno sociale e politico. In questa pubblicazione trovano spazio le riflessioni e le relazioni che negli anni il Vescovo di Brescia ha proposto ai partecipanti alla scuola e, indirettamente a tutte le persone che credono che l'impegno della politica sia esigenze perché assume le forme di un servizio al bene dell'umanità.
La Chiesa cattolica sta vivendo una stagione di profonde riforme interne che investono settori molto delicati della sua vita istituzionale. Uno degli aspetti più controversi riguarda la sua attività finanziaria, talvolta toccata da scandali avvolti da un'apparente impenetrabilità, e sono in molti a credere che tali questioni non siano del tutto estranee alla storica decisione di Benedetto XVI di abbandonare il soglio di Pietro. Senza accondiscendere a inutili dietrologie, questo libro muove da alcuni fatti nuovi che stanno cambiando il volto della Chiesa, la quale - in modo poco appariscente - sembra allontanarsi progressivamente dalla struttura concordataria stabilita nei Patti lateranensi del 1929 e confermata col Concordato del 1984. L'introduzione dell'euro, la riforma dello lor e del più ampio sistema economico e finanziario vaticano secondo i principi antiriciclaggio e antiterrorismo riconosciuti dalla comunità internazionale producono interrogativi nuovi, cui questo volume cerca di rispondere con un linguaggio accessibile, ma senza cedere a pericolose semplificazioni.
Paralisi della rappresentanza, congelamento della competizione tra idee progettuali, ossessioni unanimistiche, allergia per il pensiero non allineato. Ciò che ci ostiniamo a chiamare governo è il mero esecutore e garante della forza normativa del fatto. Nel tempo esecutivo solo lo status quo è legittimo. Il resto è solo velleità, agitazione sterile e senza prospettive. Che è quanto dire che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.
"In Italia assistiamo a un fenomeno politico inquietante: un populismo di tipo nuovo, virulento e nello stesso tempo istituzionale. Tanto più preoccupante perché emerge non dal margine ma dal centro stesso del potere. Non dal basso ma dal cuore del Governo. Crisi di fiducia verso la politica e ripudio della sua lontananza e delle sue lentezze, crisi della rappresentanza e delle sue istituzioni, crisi dei partiti e del ceto politico. Matteo Renzi è riuscito a mettere a valore ognuna di queste diverse faglie di crisi del sistema politico italiano. Tutte trasformate, come in un gioco di prestigio ben architettato, da problemi in risorse. Una paradossale operazione che valorizza un modello di gestione del potere esplicitamente post-democratico, fondato su una forma estrema di decisionismo. Non si tratta di una questione di stile, o di comunicazione. Tutto ciò che si consuma sotto i nostri occhi allude a una vera e propria mutazione genetica del nostro assetto istituzionale e dell'immaginario politico che gli fa da contorno. È il risultato di prassi reiterate e con più protagonisti, frutto di un processo cominciato già col governo tecnico di Monti, l'exploit del Movimento Cinque Stelle, la rielezione di Napolitano, fino al suo compimento con il governo Renzi."
Il popolo e gli dei si sono allontanati irrimediabilmente. La Grande Crisi ha separato con un abisso i diversi gironi della società e si è spezzata la catena di connessioni tra il popolo e l'élite. Abbiamo ceduto sovranità a sfere sovranazionali e a oscuri poteri finanziari, coperti dall'impunità e inquinati dai conflitti di interesse. Siamo diventati sudditi di regni lontani. La politica e gli italiani non hanno più molto da dirsi. Il rapporto si è deteriorato e si è spento nella reciproca separatezza. Siamo un popolo vitale, dobbiamo però riprendere la strada dello sviluppo e recuperare sovranità. E soprattutto dobbiamo ridurre le distanze tra sempre più ricchi e sempre più poveri. Non si riaccende la fiamma dei desideri senza interpretarli, senza individuare un orizzonte condiviso, senza riscoprire il fascino di un sogno collettivo.
In democrazia bisogna rinunciare alla verità pur di garantire la pace civile? Questo è il nodo cruciale, centrale per la filosofia politica, che Nida-Rümelin affronta nel volume. Negli ultimi anni la democrazia come forma politica e sociale, ma anche come forma di vita, è venuta a trovarsi chiusa fra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato ha dovuto fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si spacciano per tali, e dall'altro ha dovuto misurarsi con modelli economici che la considerano un presunto ostacolo sulla strada di un'economia mondiale dominata dai colossi di internet, dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale. Ci sono dunque soprattutto ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della verità nella democrazia. Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono perciò sempre rivedibili, che cosa ci rimane allora? Altro non resta nella forma di vita eminentemente umana (Lebenswelt) se non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni - empiriche e normative - che sono certamente permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con essa coincidenti. La tesi dell'autore è che la verità sia indispensabile in politica poiché senza di essa la democrazia perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa.
In questo ultimo mezzo secolo di fine millennio, la pedagogia italiana ha perso il suo modello autoctono e ha guidato le nuove generazioni a volte con il timone preso in prestito da altri Paesi. Le conseguenze sono leggibili nella vita e nelle inquietudini dei giovani, dagli anni '60 in poi. In tale scenario, la pedagogia umanistica di don Milani si è posta sempre più all'attenzione di coloro, il cui paradigma educativo è strutturato sul concetto di educazione come processo di umanizzazione, il cui contenuto è la realtà così come noi la viviamo, con le sue innovazioni e le sue contraddizioni, la sua storia, e il cui metodo è quello dell'amore e del dono. Tutto questo ha indotta l'autrice ad analizzare le motivazioni profonde che hanno spinto questo prete-maestro a lottare per l'umanizzazione di Barbiana, un borgo dimenticato da tutti. Alla sua pedagogia ancora oggi possiamo attingere per riflettere sulla società globale e sulle sfide connesse ai meccanismi della povertà e dell'emigrazione e trarre ispirazione per un "impegno pedagogico politico" per la "città dell'uomo" che richiede l'incrocio tra soggettività e oggettività e impegno da parte dell'adulto educatore, per risolvere positivamente il conflitto generazionale. È infatti aiutando i giovani a capire la propria vocazione umana-sociale-civile-religiosa, a esaminare, senza ipocrisia, il proprio atteggiamento nei confronti di "Dio, dell'io e dell'altro", su cui si regge l'idea di "comunità"...
Potendo scegliere, oggi, dove vi piacerebbe nascere? In Danimarca o in Siria? Pochi avrebbero dubbi: la Danimarca è una nazione ricca, con uno stato sociale tra i più efficienti al mondo e una speranza di vita tra le più alte; la Siria è nel mezzo di una sanguinosa guerra civile, ma anche prima della guerra le cose non andavano nel migliore dei modi. Ma perché la Danimarca è la Danimarca e la Siria è la Siria? La differenza - sostiene Runciman - è tutta politica. Che lo si voglia o no, la politica è importante, e se vogliamo operare nel mondo e migliorarlo, è anche l'unico strumento che abbiamo a disposizione. David Runciman riassume i temi portanti della teoria politica, presentando in maniera estremamente chiara il pensiero dei giganti indiscussi: Machiavelli, Hobbes, Constant, Montesquieu, Weber, Rawls, contestualizzando i loro scritti e applicando le loro idee al "qui e ora", nella nostra epoca tecnologica e globale. C'è senz'altro une disaffezione profonda da parte dei cittadini occidentali nei confronti della politica, che sempre più spesso è percepita come appalto di una casta privilegiata e distante dal mondo reale. Questo breve libro arriva dunque nel momento giusto, a ricordarci che la politica può arrivare a generare sia la Danimarca sia la Siria. Dipende.