Dopo settant’anni il nome di Aldo Gastaldi (Genova 17 settembre 1921 – Desenzano del Garda 21 maggio 1945) continua a risuonare nella memoria di chi ha preso parte alla lotta di liberazione.
Sottotenente del 15° Reggimento Genio, a pochi giorni dall’armistizio sale in montagna e nel giro di pochi mesi, con il nome di “Bisagno”, diventa il comandante più amato della Resistenza in Liguria.
Gastaldi interpreta il ruolo non come potere, ma come servizio: è il primo a esporsi ai pericoli e l’ultimo a mangiare, riserva a se stesso i turni di guardia più pesanti. Si conquista così l’amore e la stima degli uomini e delle popolazioni contadine, senza il cui sostegno la lotta partigiana sarebbe stata impossibile.
Cattolico, apartitico, con un carisma straordinario, si oppone con decisione a ogni tentativo di politicizzazione della Resistenza. È ricordato come “primo partigiano d’Italia”. La sua statura umana e cristiana ha segnato la vita di molti compagni.
I saggi raccolti in questo volume hanno un’ispirazione comune: cercano di ricostruire le mentalità sociali e religiose dell’Ottocento. Gli scritti raccolti nella prima parte ruotano attorno al tema centrale della questione romana, che ha assunto nel XIX secolo un’importanza centrale e permette di mettere in luce il modo di credere, gli atteggiamenti mentali, la psicologia religiosa, la sensibilità di prelati e fedeli negli anni del pontificato di Pio IX. La costante proposta della meditazione della morte, ad ammonimento dei peccatori e dei nemici della Chiesa, l’annuncio o la costatazione dei castighi riservati da Dio agli usurpatori del potere temporale, già in questo mondo e soprattutto nell’aldilà, la lettura provvidenzialistica di avvenimenti politici e di eventi naturali alla ricerca del prossimo trionfo del papa perseguitato sono motivi che si presentano costantemente nei discorsi e negli scritti di Pio IX, sulla «Civiltà Cattolica», nella predicazione, negli almanacchi popolari. Nella seconda parte si delineano i modelli femminili dell’Ottocento, con una incursione nel Seicento, analizzati con lo sguardo e il giudizio di Alessandro Manzoni. Si sottolineano stereotipi e modelli antichi, che si ripropongono in chiave religiosa e civile e che senza alcuna incrinatura sottolineano la necessaria sottomissione della donna. L’atteg­gia­mento evidenzia un’altra reazione di fronte a un aspetto centrale della società moderna, considerato demoniaco. C’è un forte parallelismo infatti tra il richiamo all’obbedienza e alla sottomissione rivolto alla donna e l’atteggiamento, assai simile, richiesto ai fedeli dalla gerarchia ecclesiastica. Quando alla fine dell’Ottocento e nel primo Novecento si può riscontrare un’evoluzione, questa riguarda sia la Chiesa che la società e, quindi, anche il modello femminile.
Sono trascorsi quarant'anni dall'uccisione di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, ma la sua immagine nelle polaroid scattate durante la prigionia all'interno del «carcere del popolo» resta impressa nella memoria individuale e collettiva.
Quelle due fotografie, più una terza, quella del suo corpo acciambellato nel baule della R4, non erano mai state lette in profondità. L'attenzione si era sempre concentrata sulle vicende oscure del sequestro e della prigionia, sulle lettere e sull'esecuzione del leader democristiano. In questa nuova edizione del libro, che è anche un racconto, Marco Belpoliti analizza l'uso delle immagini compiuto dalle Brigate Rosse durante gli anni di piombo, rilegge le foto di Moro attraverso l'opera di autori come Andy Warhol, Marshall McLuhan, Pier Paolo Pasolini, John Berger, e interpreta quegli scatti come il segno di un cambiamento in corso negli anni Settanta nell'utilizzo del corpo da parte degli uomini politici. Moro appare come l'ultimo esempio del passato, mentre il corpo stava divenendo lo strumento principale della comunicazione politica. Fotografandolo come un re deposto, i brigatisti hanno umanizzato Aldo Moro, così che la sua immagine continua a interrogarci ancora oggi sul potere, sul terrorismo e sull'idea di un'utopia politica realizzata con il sangue.
Gennaio 1848. Per protestare contro l’amministrazione austriaca, i milanesi presero un’iniziativa a dir poco sorprendente: decisero di non fumare più. L’obiettivo era chiaro: colpire le entrate erariali provenienti dalla tassa sul tabacco. Nel mese di febbraio, il dissenso raggiunse il palco della Scala: la popolarissima ballerina austriaca Fanny Elssler venne subissata di fischi appena entrata in scena e abbandonò il teatro.
Furono queste le prime avvisaglie dei movimenti che si trasformarono di lì a poche settimane nelle Cinque giornate di Milano. Fra il 18 e il 22 marzo per la prima volta il popolo, la borghesia e la nobiltà combatterono insieme, e furono il massimo esempio di rivoluzione nel segno dell’egalitarismo: non ci furono capi preordinati, ogni strada, ogni quartiere decideva al proprio interno qual era la risoluzione migliore da prendere per scrollarsi di dosso quella che veniva considerata da tutti un’occupazione nemica.
Tra amori extraconiugali, intrighi e voltafaccia, divampa l’epopea delle lotte, delle barricate, dei professori che guidavano l’assalto dei propri studenti, delle alabarde della Scala trasformate in armi, mentre l’odiatissimo feldmaresciallo Radetzky era asserragliato nel Castello Sforzesco. Fino alla ritirata austriaca, che diede spinta alle speranze di tutta la penisola.
In un racconto emozionante e ricco di aneddoti inediti, seguiamo le gesta di uomini e donne che dando vita alla rivolta meneghina segnarono l’inizio del Risorgimento italiano.
«Pochi minuti prima, gli uomini nella stanza erano nove. Tra loro, neanche un tedesco: è una faccenda tutta tra italiani. Perché in quella stanza, a colpi di sibilate nervose, di silenzi e di svelamenti veri o presunti, si è appena consumata una trattativa. O qualcosa del genere. Si sono fronteggiate due diverse idee di Italia: una, quella fascista, che sta irrimediabilmente franando; l’altra che pare avere la vittoria in pugno. Perché, tra ordini di conferma e voci di disdetta, tutti sanno che è l’ora della resa dei conti. Siamo a Milano, alla fine della giornata che segna l’alba di una nuova Italia: sono le 19 e qualche minuto del 25 aprile 1945.»
Questa è la storia di tre vite che si intrecciano indissolubilmente. Una storia di clandestinità, di estenuanti bracci di ferro e di colpi di mano. Di tre uomini che, combattendo contro i nazifascisti, il 25 aprile 1945 provano a rifare un paese da capo. Raffaele Cadorna, Ferruccio Parri e Luigi Longo sono nati a pochi chilometri e a pochi anni l’uno dall’altro, con retroterra differenti, biografie politiche e culturali diversissime, eppure con un destino comune. Pochi ricordano i loro nomi di battaglia: il generale Valenti, comandante del Corpo volontari della libertà, e i suoi due vice, Maurizio e Italo, alias comandante Gallo. Un militare, un azionista e un comunista che il 26 agosto del 1944 si incontrano per la prima volta, in clandestinità, e si stringono la mano. Senza sapere cosa succederà nei mesi successivi, senza sapere dove saranno e se ci saranno, alla fine di tutto, otto mesi dopo. E chiedendosi chi di loro sarà ai posti di comando, al momento dell’insurrezione. Sono ore che segnano una delle rotture più profonde della storia italiana, quelle in cui i vertici della lotta di liberazione si incontrano con i gerarchi di Salò in Arcivescovado, a Milano. Tutto intorno alla trattativa divampa l’insurrezione, mentre alla radio si sente una voce calma e determinata che intima ai fascisti: «Arrendersi o perire».
Daniel Mendelsohn da bambino restava seduto per ore ad ascoltare i racconti del nonno. Erano storie di un tempo lontano e quasi magico, di un piccolo villaggio della Polonia, Bolechow, in cui la vita scorreva felice. C'era però un punto in cui la voce del nonno si rompeva, oltre il quale non riusciva ad andare, come volesse nascondere un segreto troppo doloroso. Che ne era stato durante l'Olocausto del fratello Shmiel, della moglie e delle loro quattro bellissime figlie? Molti anni dopo Daniel scopre una serie di lettere disperate che il prozio Shmiel aveva indirizzato al nonno. Quelle lettere custodiscono frammenti del passato di una generazione perseguitata e cancellata per sempre, che in queste pagine ritorna a vivere davanti ai nostri occhi.
Dalle origini del piccolo villaggio ai primi conflitti in politica estera, alla crisi della repubblica, alla nascita dello stato imperiale, ai suoi problemi organizzativi, economici, sociali e religiosi, per giungere sino ai tentativi di riforma della tarda antichità, il libro traccia in maniera sintetica le linee fondamentali della storia di Roma. Sono poi affrontati i temi relativi alla cristianizzazione, alle migrazioni dei popoli, al crollo dell'impero in Occidente e ai tentativi di restaurazione in Oriente. Infine viene gettato uno sguardo sulla perdurante eredità di Roma.
Dopo l’autobiografia intellettuale e politica di Credere, tradire, vivere, Galli della Loggia propone qui il nucleo forte della sua riflessione storiografica.
«… la nostra storia, che fino a non molto tempo fa avevamo il diritto di considerare tutto sommato felice, sembra per mille segni essere giunta invece a un presente (che ormai dura da anni) carico di incognite e di presagi che, sempre di più, felici non appaiono per nulla… Ci serve un’altra storia per tornare ad abitare il futuro»
un contributo a ripensare l’intero corso della nostra storia che l’approdo odierno, così intriso di senso di fallimento e di sconfitta, obbliga a ripercorrere. Ne emerge il viluppo di contraddizioni che l’Italia unita si porta dietro dall’inizio, cioè da quella «vera e propria cellula germinale» che fu il Risorgimento. Ad esso risalgono infatti non solo tratti strutturali del Paese come il divario Nord-Sud, ma anche caratteri del suo sistema politico come l’assenza di un partito conservatore, l’avversione per il costituzionalismo liberale, una «ideologia italiana» fatta di enfasi sul ruolo degli intellettuali, di populismo e di moralismo, che nutre di fatto tutte le pur diverse culture politiche del nostro Novecento.
I cinque agenti della scorta di Aldo Moro: chi erano e perché vivono ancora.
«Quando chiuderete le pagine di questo libro potrete dire di conoscerli e non potrete più dimenticarli.» - dalla Prefazione di Mario Calabresi
Il 16 marzo 1978, in via Fani, a Roma, le Brigate rosse rapirono Aldo Moro e uccisero i cinque uomini della sua scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti. Per decenni le attenzioni di storici e giornalisti si sono incentrate sulle figure dei terroristi, a cui sono stati dedicati articoli, libri, dibattiti e interviste, mentre le vittime venivano trascurate se non del tutto dimenticate. Lo storico Filippo Boni ha sentito il bisogno personale e civile di ricostruire le vite spezzate di questi cinque servitori dello Stato e per farlo è andato nei luoghi in cui vivevano, a parlare con le persone che li avevano amati e conosciuti: genitori, figli, fratelli, e fidanzate a cui il terrorismo ha impedito di sposare l’uomo che amavano. In questo libro, Boni ha raccolto le toccanti storie di vite umili ma piene di sogni e di affetti, restituendo così verità e memoria a quei corpi prima trucidati e poi dimenticati e al tempo stesso componendo uno straordinario affresco di un’Italia semplice e vera, che resistendo alle atrocità della storia si ostina a guardare al futuro.
Frutto di un decennio di ricerche, il libro ricostruisce per la prima volta integralmente l’itinerario biografico e intellettuale del filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin (1909-1997) e svela, grazie anche a fonti inedite, l’importanza che vi ebbero gli eventi e i confronti con alcune tra le maggiori personalità del Novecento: da Weizmann a Ben-Gurion, da Churchill a Thatcher, da T.S. Eliot a Wittgenstein. Emergono così l’attenzione verso la dimensione dell’appartenenza e l’impegno sionista, la critica ai nazionalismi aggressivi e l’interesse per il pluralismo culturale, che rendono ancora attuale la proposta filosofica berliniana. La rilettura finale delle riflessioni di Berlin sul liberalismo e sul pluralismo fa dell’opera una rigorosa, ma accessibile, introduzione al suo pensiero.
La vicenda Moro costituisce un caso internazionale per eccellenza. Ancora da raccontare nei suoi risvolti più oscuri. Tra gli anni Sessanta e Settanta la politica estera morotea, soprattutto quella mediterranea, e il disgelo nella politica interna tra Dc e Pci rappresentarono un pericolo gravissimo per gli equilibri mondiali. Sulla base di documenti desecretati a Londra e a Washington (e delle recenti acquisizioni dell'ultima commissione d'inchiesta parlamentare sul caso Moro), Giovanni Fasanella dimostra che una parte delle amministrazioni Usa, con gli inglesi e la complicità a vari livelli e in fasi successive di Francia, Germania e Unione Sovietica insieme con Cecoslovacchia e Bulgaria, avevano interessi convergenti a fermare Moro. Come confermano anche le testimonianze di ambasciatori e politici dell'epoca riportate in questo libro. L'autore riesce a saldare testimonianze e documenti inediti, offrendoci una ricostruzione completa del contesto internazionale e delle complicità interne in cui maturò il delitto Moro.
Ispirata dalla plastica contrapposizione fra la Torre del Mangia e la Piazza del Campo a Siena, potente metafora urbanistica delle due forme antitetiche in cui si è incarnato il potere nella società umana - quella verticale e centralistica delle strutture gerarchiche e quella orizzontale e distribuita delle reti -, la rilettura dell'età moderna e contemporanea proposta da Niall Ferguson è intesa a restituire al modello organizzativo «reticolare» quel valore di forza propulsiva del cambiamento che gli storici hanno a lungo misconosciuto o, comunque, sottovalutato. Pur prendendo nettamente le distanze dai teorici della cospirazione, che attribuiscono a élite e sette segrete (i massoni, gli Illuminati, i banchieri ebrei) il ruolo di effettivi manovratori delle leve del potere, Ferguson mostra come la storia umana sia caratterizzata dall'alternarsi di lunghe epoche segnate dal predominio delle gerarchie e di periodi più brevi, ma straordinariamente intensi e dinamici, di egemonia delle reti, favorite anche da radicali innovazioni tecnologiche. Guardando poi all'epoca moderna, l'autore considera più da vicino le due grandi «ere delle reti»: i tre secoli che dall'invenzione della stampa, dalle importanti scoperte geografiche e dalla Riforma sono culminati nel crollo dell'ancien régime a fine Settecento, e gli ultimi cinquant'anni che, a partire dagli anni Settanta del Novecento, hanno visto l'impetuosa espansione della tecnologia digitale e la rapida diffusione delle reti sociali odierne, che hanno letteralmente rivoluzionato la vita di gran parte dell'umanità. Ma al riconoscimento e alla rivalutazione del ruolo delle reti nella storia Ferguson associa, contestualmente, una sferzante critica dell'utopia libertaria di «netizen» liberi e uguali nell'ultrademocratico e paritario regime del web, che gli appare caratterizzato piuttosto dagli eccessi di violenza sui social e dall'estrema vulnerabilità a ogni tipo di propaganda, compresa quella terroristica, e a ogni forma di «fake news». Al punto che, per lui, solo il modello gerarchico può garantire un qualche principio di stabilità geopolitica perché «la lezione della storia è che affidarsi alle reti per governare il mondo è una ricetta perfetta per l'anarchia».