
Un poeta e intellettuale ebreo racconta le vicende sue e di un gruppo di ebrei di Budapest nel 1944. Il momento storico è denso e tragico: dall'occupazione tedesca del paese, nel marzo 1944, attraverso i deboli tentativi del reggente Miklós Horthy di proteggere gli ebrei, fino all'avvento del governo filo-nazista di Ferenc Szàlasi. Testimone e vittima della follia antisemita, Ernó Szép, all'epoca sessantenne, osserva le sofferenze della sua gente, la crudeltà degli aguzzini, l'indifferenza di molti e la generosità di pochi eroici concittadini. E consegna una storia tragica che non rinuncia a cogliere, nell'abiezione, barlumi di pietà umana, di bellezza, persino di ironia.
La fine della Seconda guerra mondiale non fu immediata. Non ci fu nessun ritorno istantaneo alla pace: decine di milioni di profughi, sopravvissuti e prigionieri rimasero in preda alla fame, alle malattie, alle vendette dei vincitori. Le macerie delle città bombardate rimasero dov'erano per anni, soprattutto nella Germania sconfitta. Il primo anno del dopoguerra segnò anche il culmine delle tensioni tra Truman e Stalin, mentre in Cina vennero gettate le premesse per l'ascesa di Mao; si affermò il Congresso Nazionale Indiano di Gandhi, mentre in Medio Oriente prendeva corpo l'idea di uno Stato d'Israele. Quando comincia una guerra e quando finisce? Quali sono le tracce che non si possono cancellare? Ogni guerra genera altre guerre?
Ritrovati a Lodz dopo la guerra e conservati dalla sorella per cinquant'anni, i taccuini di Abram Cytryn costituiscono un documento eccezionale e sconvolgente sul ghetto di Lodz, dove Abram ha vissuto dal 1940 al 1944. Vi si descrive la vita quotidiana all'interno dell'universo concentrazionario con una lucidità sorprendente, un forte talento poetico e una frenesia che enfatizza la prossimità della morte. Dimenticati dalla storiografia italiana, nonostante i maggiori studiosi europei della Shoah li considerino un capolavoro della memoria, i "Racconti dal ghetto di Lodz" si inseriscono a pieno titolo nel solco tracciato da "Se questo è un uomo" di Primo Levi, dal "Diario" di Anne Frank e dagli scritti di Elie Wiesel, con i quali condividono un'urgenza drammatica: scrivere per non affondare, "scrivere per lottare contro l'inferno in terra", come sottolinea Frediano Sessi nella Prefazione, "per comporre un' opera letteraria capace di dare voce alle energie vitali di una comunità destinata allo sterminio e alla scomparsa totale; scrivere per ottemperare a un impegno preso con i morti del ghetto o di Auschwitz: innalzare al cielo una targa che obblighi il lettore a ricordare, in ogni tempo e in ogni luogo".
Alberto Mieli dopo settant'anni racconta per la prima volta alla nipote Ester la sua infernale esperienza da deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. "Non c'è ora del giorno o della notte in cui la mia mente non vada a ripensare alla vita nei campi, a quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere." Ricorda la vita in una Roma nazifascista, le leggi razziali e il giorno in cui è stato portato via dalle SS, dopo il tragico 16 ottobre 1943. Rivive, ancora con le lacrime agli occhi, l'arrivo nei campi, l'odore acre dei corpi che bruciavano nei forni crematori in funzione tutti i giorni. Parla del lavoro giornaliero e stremante, dei corpi senza vita ammassati gli uni sugli altri, della stanchezza e della fame continua e cieca che pativa, fame che ha portato alla pazzia e poi alla morte migliaia di deportati. Fame di cibo, di vita, di libertà. "Ad Auschwitz ho visto l'apice della cattiveria umana." Con queste parole Alberto Mieli racconta, con dolore, aneddoti e luoghi, parla delle torture subite. Ridisegna volti di gente incontrata e poi persa, spiega come sia riuscito a convivere tutta una vita con questa doppia cicatrice: una alla gamba, causata da una granata lanciata dagli Alleati esplosagli troppo vicino e che a volte ancora sanguina, e una più grande nel cuore.
Cinquecento anni fa, il 29 marzo 1516, il Senato della Repubblica di Venezia adottò un provvedimento che avrebbe cambiato per sempre la vita e il destino degli ebrei d'Europa: "Li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto appresso San Girolamo". Con tale atto legislativo nasce il primo "ghetto", un nome derivato probabilmente dalla presenza sul luogo di un getto, cioè una fonderia, e diventato poi, in tutte le lingue del mondo, sinonimo di emarginazione e segregazione. All'interno delle mura del Ghetto Novo, le cui porte venivano chiuse al tramonto e riaperte all'alba, furono ristretti gli ebrei di tre "Nationi" (Todesca, Levantina e Ponentina), diversi per paesi d'origine, idiomi e tradizioni. Taglieggiati dal fisco ed esclusi dalle professioni (a parte la medicina) e dai mestieri gestiti dalle corporazioni, per sopravvivere gli ebrei "todeschi" si dedicarono al prestito di denaro, mentre i membri delle comunità levantina e ponentina, composte perlopiù da marrani espulsi dalla Spagna e perseguitati dall'Inquisizione, continuarono la loro attività di mercanti, riuscendo in pochi decenni a tessere una fitta rete di scambi in tutti gli Stati affacciati sul Mediterraneo.
Nel marzo del 1933, appena due mesi dopo la presa del potere da parte di Hitler, Heinrich Himmler, il nuovo capo della polizia di Monaco, diede l'annuncio di aver scelto una fabbrica in disuso nei pressi di Dachau per farne un campo di concentramento per i prigionieri politici. Poche settimane dopo, le SS presero il controllo del posto, un capannone circondato da filo spinato, in grado di contenere non più di 223 prigionieri. Dopo questo modesto inizio, il sistema dei campi di concentramento crebbe fino a diventare un vastissimo panorama di terrore, che comprendeva 22 campi principali e l.200 satelliti sparsi tra la Germania e l'Europa controllata dai nazisti. All'inizio del 1945 i campi tedeschi contenevano circa 700.000 persone provenienti da tutta Europa. Lì morirono due milioni di uomini. In questo libro, lo storico tedesco Nikolaus Wachsmann ricostruisce la storia del sistema dei campi di concentramento tedeschi, le violenze, gli abusi, i massacri, facendo rivivere un'epoca atroce attraverso le vicende di quanti vi furono rinchiusi e lì tragicamente morirono.
È la sera della cena di gala, il momento clou della crociera sulla nave dei sogni, un immenso castello moderno che solca le onde celebrando il dominio dell'uomo sull'acqua. In comune con il Titanic però la Concordia ha solo lo sfarzo, perché la sua sicurezza è totale, affidata all'esperienza del comandante e alle macchine. È grazie alle macchine che la nave è viva. Senza di loro, quattromila persone andrebbero alla deriva. All'improvviso, l'acqua tracima dalla piscina per poi rientrarvi, quasi un avvertimento dell'elemento che l'uomo si illude di imbrigliare. Gli armadi si spalancano, i tavoli vacillano, gli ascensori impazziscono. Quando anche le luci si spengono e della nave rimane la sagoma cupa sullo sfondo più buio del cielo, dall'Isola del Giglio qualcuno coglie la tragedia, mentre a bordo comincia la notte più lunga. La notte del panico, delle speranze spezzate, delle vite intrecciate, dei codardi e degli eroi. Eroi come Russel Rebello, cameriere indiano, tanto fiero del suo lavoro che il suo bambino nella lontana India ha disegnato la nave chiamandola Russel II. Russel sa qual è il suo dovere: salvare i "suoi" ospiti. Attraverso i suoi occhi rivivono i divertimenti, gli svaghi e le storie di alcuni dei passeggeri imbarcati senza sapere che quel viaggio sarebbe stato il bivio della loro esistenza. Ed è sempre Russel a ricostruire in una sequenza mozzafiato le convulse ore dopo lo schianto. Perché lui è rimasto fino all'ultimo respiro della nave, è lui il vero capitano.
Nel 1972 il giovane diplomatico Enrico Calamai viene inviato dal Ministero degli affari esteri in Argentina con la carica di viceconsole. A Buenos Aires sembra di stare in Occidente, in Italia o in Spagna, e in effetti metà della popolazione è di origine spagnola e l'altra metà italiana. Sono tanti gli argentini con doppio passaporto, figli di emigrati che hanno la cittadinanza italiana. La comunità italoargentina è forte, variegata e ben integrata. Ci sono una miriade di associazioni italiane e non mancano quelle legate alla destra fascista, alla Dc, alla Cgil e al Pci. La situazione economica non è rosea, il clima politico è teso e sono molti i giovani impegnati. I militari aspettano e Isabelita Peron è sempre meno credibile. Nel 1974, poco dopo il golpe cileno, Calamai viene spedito a Santiago del Cile: l'ambasciata si è riempita di rifugiati di origine italiana (450 persone) che chiedono un asilo politico che il governo italiano non vuole concedere per non pestare i piedi all'esercito cileno e agli americani. Calamai, invece, aiuta i rifugiati: mette a punto una strategia che consente loro di scappare in Italia. Il periodo cileno è un'esperienza fondamentale per il giovane diplomatico. Nel 1976, quando i generali argentini prendono il potere, il governo italiano (siamo nel periodo non solo della guerra fredda ma anche della p2) è stato avvisato in tempo e l'ambasciata ha rafforzato i suoi dispositivi di sicurezza per impedire agli italoargentini in cerca d'asilo di entrare. La repressione argentina è più dura e subdola di quella cilena, ma Calamai riesce comunque ad aiutare molte persone, in maniera discreta, con una rete di soccorso e informazione che comprende l'inviato del ?Corriere della Sera”, il rappresentante della Cgil a Buenos Aires, un frate coraggioso, alcuni volontari dell'ambasciata e suo fratello, che lavora a ?Rinascita”. Ne salva tanti e cerca di avere notizie anche dei desaparecidos, fino a quando viene richiamato a Roma nel 1977.
Per molto tempo gli storici hanno dato per scontato ciò che era evidente ai testimoni dell'epoca: che la rivoluzione francese fu causata dalle idee radicali dell'Illuminismo. Negli ultimi decenni gli studiosi hanno invece cominciato a sostenere che la rivoluzione venne portata avanti dalle forze sociali, dalla politica, dall'economia o dalla cultura; da quasi tutto insomma, escludendo però i concetti astratti di libertà e uguaglianza. In questo libro, uno dei maggiori storici dell'età dell'Illuminismo restituisce alla storia intellettuale della Rivoluzione la sua legittima centralità. Attingendo copiosamente a fonti di prima mano, Jonathan Israel ricostruisce il gigantesco dibattito intellettuale che produsse e accompagnò le varie fasi della Rivoluzione francese, dimostrando come tali idee divisero i capi rivoluzionari in blocchi ideologici violentemente opposti, e come questi conflitti sfociarono infine nel terrore. Nella rivoluzione culminarono gli ideali di emancipazione e di democrazia dell'Illuminismo, se si concluse diversamente è solo perché tali idee vennero tradite.
Dopo il primo volume, dedicato a Israele e a come prese forma in simboli la sua esperienza sullo sfondo degli imperi cosmologici del vicino Oriente Antico, il secondo volume di Ordine e storia, un grande classico della filosofia politica, si rivolge all'area greca. Anche qui si attuò una rottura con la prospettiva cosmologica, grazie a un "salto nell'essere" in cui il mito fu oltrepassato nell'ordine trascendente-divino. Si trattò di un passaggio graduale, scandito dalla transizione dal mito alla filosofia. Esso prese avvio nell'epica omerica, con la creazione del mito olimpico e il risveglio della coscienza di un comune ordine egeo che poggiava su un passato minoico-miceneo. Proseguì con la Teogonia esiodea, in cui il materiale mitico, soprattutto omerico, venne riplasmato secondo un'intenzione speculativa. Approdò infine mediante l'anello intermedio dei "filosofi mistici" Senofane, Parmenide ed Eraclito - alla metafisica di Platone e Aristotele. Il termine di questa transizione trova espressione nella formula "Dio misura invisibile dell'uomo". Questo lungo percorso viene scandito da Voegelin in due volumi: il primo dei quali (quello presente) inizia dal remoto passato minoico e termina con i rivolgimenti dell'età della Sofistica.
La prima guerra mondiale fu una guerra strana. Nessun combattente sul campo di battaglia aveva un quadro preciso delle ragioni che lo avevano portato lì. E ancora oggi, sui libri di storia, si elencano molte concause, ma nessuna di esse sembra essere sufficiente per scatenare una guerra che costò quasi 10 milioni di morti e 21 milioni di feriti. Fu una guerra combattuta con armi moderne e strategia ottocentesche, in cui le borghesie occidentali di lanciarono con entusiasmo salvo poi rimanere sconvolte e cambiate per sempre. In questo volume si analizzeranno gli scenari prebellici, le strategie e le tattiche utilizzate sui vari fronti, gli armamenti, le ricadute psicologiche sui combattenti e i mutamenti economici e sociali che avrebbero portato al ventennio delle grandi dittature con, sullo sfondo, il secondo conflitto mondiale.