Formulata da Albert Einstein con qualche contributo da parte di amici e colleghi tra il 1907 e il 1917, la relatività generale è la teoria che oggi meglio descrive lo spazio, il tempo e la gravità. Con la chiarezza espositiva che lo ha reso celebre in tutto il mondo, Rovelli ne illustra i fondamenti fisici, filosofici e matematici, ne presenta la struttura formale, e ne deriva nel modo più semplice le sue stupefacenti predizioni - buchi neri, onde gravitazionali, espansione dell'universo, dilatazione del tempo... , senza trascurare alcune idee di base su come potrebbe essere estesa ai fenomeni quantistici. Per il lettore con formazione scientifica questo libro rappresenterà dunque una agile introduzione agli aspetti fondamentali della teoria, ma nel contempo lo scienziato e lo studente avanzato vi troveranno una discussione approfondita e originale della sua struttura concettuale. Nel secolo scorso la relatività generale ha rivoluzionato la fisica, ma è con le applicazioni e le osservazioni degli ultimi anni, coronate da numerosi premi Nobel, che sono esplose e diventate evidenti la sua vitalità e fecondità: Rovelli descrive questi risultati recenti, guidando così il lettore ad apprezzare «la scintillante bellezza e la semplicità delle idee su cui essa si basa».
Se Donald Dodd ha sposato Isabel anziché, come il suo amico Ray, una di quelle donne che fanno «pensare a un letto», se vive a Brentwood, Connecticut, anziché a New York, è perché ha sempre voluto che le cose, attorno a lui, «fossero solide, ordinate». Isabel è dolce, serena, indulgente, e in diciassette anni non gli ha mai rivolto un rimprovero. Eppure basta uno sguardo a fargli capire che lei intuisce, e non di rado disapprova, le sue azioni - perfino i suoi pensieri. Forse Isabel intuisce anche che gli capita di desiderarle, le donne di quel genere, «al punto da stringere i pugni per la rabbia». E quando, una notte che è ospite da loro, Ray scompare durante una terribile bufera di neve e Donald, che è andato a cercarlo, torna annunciando a lei e a Mona, la moglie dell'amico, di non essere riuscito a trovarlo, le ci vuole poco a intuire che mente, e a scoprire, poi, che in realtà è rimasto tutto il tempo nel fienile, a fumare una sigaretta dopo l'altra: perché era sbronzo, perché è vile - e perché cova un odio purissimo per quelli che al pari di Ray hanno avuto dalla vita ciò che a lui è stato negato. Isabel non dirà niente neanche quando Ray verrà trovato cadavere: si limiterà, ancora una volta, a rivolgere al marito uno di quei suoi sguardi acuminati e pieni di indulgenza. Né gli impedirà, pur non ignorando quanto sia attratto da Mona, di occuparsi, in veste di avvocato, della successione di Ray, e di far visita alla vedova più spesso del necessario. Ma Donald comincerà a non sopportare più quello sguardo che, giorno dopo giorno, lo spia, lo giudica - e quasi lo sbeffeggia.
Villejuif è l'estrema periferia di Parigi: oltre, non c'è che la campagna bianca di brina. È qui che la polizia ha rinvenuto, orrendamente mutilato, il cadavere di una prostituta. Solo un mostro può avere commesso un simile delitto. E chi altri può essere, il Mostro, se non il signor Hire, che tutti scansano con un brivido? Il signor Hire è piccolo, grasso, come se non fosse fatto né di carne né di ossa. Sul suo viso cereo spiccano baffetti che sembrano disegnati con la china. Tutti i suoi gesti hanno la rigida precisione di un cerimoniale. La sua stanza è «un blocco compatto, solido, uniforme di silenzio» dove non penetra la vita. La vita pullula nella stanza al di là del cortile dove vive Alice, la domestica dai capelli ramati, giovane, morbida e sensuale. Ogni sera il signor Hire la guarda spogliarsi, e fissa ogni dettaglio di quel corpo, di quella «polpa ricca, piena di linfa». La domenica, quando Alice esce con il suo innamorato, un ragazzo magro e cinico, il signor Hire la segue come un'ombra. Alice sa di quello sguardo puntato su di lei. Sa che dietro la finestra buia al di là del cortile c'è il signor Hire. Sono per lui quelle movenze piene di promesse? Anche lei lo spia. Perché? Quell'ombra esercita forse su di lei una perversa seduzione? O Alice è animata da un preciso disegno? Ed è davvero lui, il Mostro, ad aver commesso il delitto? Solo nell'epilogo ogni interrogativo troverà risposta, un epilogo nel quale tutto converge come per un disegno fatale - un epilogo preparato, momento per momento, eppure indicibilmente atroce. "Il fidanzamento del signor Hire" è la storia di un uomo grottesco e commovente che non può più o non vuole più controllare il suo destino. Ed è insieme la storia di una passione senza limiti, gelida e ossessiva come lo sguardo di colui che la vive - tanto morbosa da trasformare anche i lettori in voyeurs. È un noir funesto, un crudele romanzo d'amore - e un feroce rito tribale.
«Immagini dell'Italia», ha scritto un amico di Muratov, Boris Zajcev, non è un manuale di storia dell'arte: piuttosto, «un libro di iniziazione, di consacrazione all'Italia in quanto categoria dello spirito», sorretto da una «capacità virtuosistica di sentire l'Italia» - e, aggiungiamo, di restituirla in tono confidenziale al lettore, trasformato in interlocutore e compagno di viaggio. Ne abbiamo la prova soprattutto in questo secondo volume, dove Muratov riesce a comunicarci quel «sentimento di Roma», simile alla «felicità della giovinezza», che suscita la presenza vivente dell'antico: così, di fronte ai lauri «quasi umani» che crescono accanto alla Casina Farnese sul Palatino, abbiamo anche noi l'impressione che la metamorfosi di Dafne divenga comprensibile, e che torni a manifestarsi «un mondo perduto di immagini per metà umane e per metà naturali». A Muratov infatti non importa tanto conoscere il passato, quanto stabilire con esso un contatto, sicché gli sarà propizio, più dei Musei Vaticani o Capitolini dalla sconfortante e cimiteriale magnificenza, il Chiostro di Michelangelo alle Terme di Diocleziano, dove le ombre delle foglie e dei rami che scivolano sui marmi «sono una sorta di "trait d'union" fra il nostro mondo e l'antico, e la sola cosa che consenta al cuore di riconoscerlo e di credere nella sua vitalità». Si rivela per questa via la verità segreta delle opere d'arte, e da ultimo quella delle metope di Selinunte: il mito è «rischiaramento del mondo, liberazione dell'essenza spirituale di ogni cosa».
"Nessuno può pensare un pensiero per me, così come nessuno all'infuori di me può mettermi il cappello sulla testa". "Niente è così difficile come non ingannare sé stessi". "Ho detto una volta e forse con ragione: la civiltà passata diventerà un mucchio di rovine e alla $ne un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti". Questa raccolta di pensieri e annotazioni di varia natura appartiene al lascito manoscritto di Wittgenstein e rappresenta non già una fase della sua ricerca filosofica, ma una sorta di traversata aforistica di tutta la sua vita (il primo pensiero è del 1914, l'ultimo del 1951, anno della sua morte). Qui Wittgenstein, con maggior evidenza che altrove, parla innanzitutto a sé stesso, interrogandosi su ciò che il suo pensiero spesso presupponeva senza nominarlo: la sua visione della società che lo circondava, della musica, della letteratura, del cristianesimo, dell'ebraismo, della scienza.
La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C'è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi. Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l'aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II». Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos'è lo yoga e di come lo si pratica, e di un seminario di meditazione Vipassana che non era consentito abbandonare, e che lui abbandona senza esitazioni dopo aver appreso la morte di un amico nell'attentato a «Charlie Hebdo»; ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l'ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall'Afghanistan; di un'americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito - per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all'amore. Ancora una volta Emmanuel Carrère riesce ad ammaliarci, con la «favolosa fluidità» della sua prosa («Le Monde») e con quel tono amichevole, quasi fraterno, che è soltanto suo, di raccontarsi quasi che si rivolgesse, personalmente, a ciascuno dei suoi lettori.
Nel 1933 Osip Mandel'stam, poeta in disgrazia, «emigrato interno» in procinto di diventare carne da lager, «arde di Dante», e studia l'italiano servendosi della Divina Commedia. In Crimea durante la primavera scrive "Conversazione su Dante", ma quando tenta di pubblicarlo incontra una serie di rifiuti. Di certo il saggio non ha nulla a che vedere con il realismo socialista, né corrisponde al canone degli studi danteschi. Affrancando il «sommo poeta» italiano da secoli di retorica scolastica, Mandel'stam ragiona su ciò che presiede alla nascita della sua poesia: in primo luogo, la metamorfosi. Tutto, nella Commedia, è in movimento, e per il vero lettore, «esecutore creativo», leggere Dante significa rifiutarsi di restare incatenati a un presente che a sua volta è saldamente ancorato al passato: «Pronunciando la parola "sole" compiamo un lunghissimo viaggio al quale siamo talmente abituati che ormai viaggiamo dormendo. La poesia... ci sveglia di soprassalto a metà parola - parola che ci sembra molto più lunga di quanto credessimo -, e in quel momento ricordiamo che parlare è sempre essere in cammino». Unico poiché sembra comprendere tutti i linguaggi, quello di Dante evoca il mondo con irripetibile potenza, e la Conversazione di Mandel'stam, tripudio di luminose intuizioni, costrutti arditi e metafore inusitate (biologiche, musicali, meteorologiche, tessili), in una prosa continuamente attraversata da squarci di poesia, scorge e mette in luce i tratti più moderni, addirittura sperimentali, del suo poetare.
«Sto preparando» scriveva Cirlot ad André Breton nel 1956 «una summa simbolica, nella quale vengono raffrontate le conoscenze sul simbolismo di occultisti, psicologi, antropologi, orientalisti, storici delle religioni e autori di trattati». Facendosi guidare da personalità quali Marius Schneider, René Guénon, Mircea Eliade, Ananda Coomaraswamy, Cirlot spalanca davanti ai nostri occhi un universo affascinante, dove il simbolo agisce su ogni piano dell'esistenza, in luoghi lontanissimi tra loro e sin dalle origini dell'umanità; e addita la «radice segreta di tutti i sistemi di significato», il «sostrato comune» a tutte le tradizioni simboliche, sia orientali che occidentali. Sin dall'Introduzione - un excursus vertiginoso che dallo sviluppo del simbolismo conduce fino al problema dell'interpretazione, passando, tra gli altri, per il simbolismo onirico, il simbolismo alchemico e la teoria degli archetipi di Jung - Cirlot ci immerge in un oceano di luminose analogie, segnalandoci infine che il suo è «più un libro di lettura che un testo di consultazione»: come tale lo leggeranno dunque i lettori avvertiti, che non potranno non restarne ammaliati.
Per generale consenso, Vertigo [La donna che visse due volte] è il più inestricabile tra i film di Hitchcock - e per alcuni il più bello (o uno dei due o tre supremi). Questo libro si propone di dire perché. E perché Vertigo abbia un film gemello: Rear Window [La finestra sul cortile], che invece è usualmente considerato molto più semplice e immediato, mentre si potrebbe rivelare altrettanto vertiginoso. Ma parlare di questi due film è come parlare del cinema in sé, quindi anche di Max Ophuls, di Rita Hayworth, dell'epifania della «diva» e di un romanzo di Kafka che è innervato dal cinema da capo a fondo: Il disperso [America].
Ci sono scrittori così affascinanti, ha notato Manganelli, che riescono a cambiarti l'umore: scrittori come Singer, capace di creare personaggi simili a «figure da affresco, pantografie, immagini proiettate sulle nubi». È la grandezza che qui sprigiona il seducente e contradditorio Hertz Grein, tormentato da un'insaziabile sete carnale - si divide infatti fra la virtuosa moglie Leah, la minacciosa amante Esther e Anna, il nuovo amore - e insieme dal richiamo di un'osservanza religiosa al cui rigore non sa sottomettersi, pur riconoscendo che si tratta di «una macchina da guerra per sconfiggere Satana». Hertz sa bene che un ebreo, per quanto creda di essersi allontanato da Dio, non potrà mai sfuggirgli: sta soltanto girando in tondo, «come una carovana persa nel deserto». Intorno a lui e ai suoi dissennati grovigli amorosi - in una New York che sul finire degli anni Quaranta, per chi giunge da Varsavia o Berlino, ha le irresistibili attrattive di un gigantesco arazzo visionario -, una folla di personaggi in vario modo straziati dalla vergogna di essere vivi: come Boris Makaver, il padre di Anna, occupato durante il giorno dai suoi lucrosi affari ma sopraffatto la notte da una sofferenza terribile quanto «un dolore fisico»; o come il professor Shrage, matematico convertitosi alla parapsicologia, che vive nella speranza di ritrovare la moglie Edzhe, trucidata dai nazisti. Tutti turbati dal silenzio di Dio o - per usare ancora le parole di Manganelli - investiti «della grandezza del sacro, e della sua sproporzione».