
Il Giappone è uno dei paesi orientali che più a lungo e più fedelmente ha mantenuto viva la tradizione buddhista attraverso i secoli. A partire dalla sua introduzione dalla Cina nel V e VI secolo, e sviluppando forme autoctone di grande interesse e originalità, il buddhismo è stato uno dei più importanti elementi culturali e spirituali del paese, e ancora oggi costituisce una realtà vitale e largamente diffusa tra la popolazione, tanto che la sua conoscenza è indispensabile per la comprensione della cultura giapponese sia tradizionale sia moderna. Questo libro presenta un'antologia dei più importanti testi del buddhismo giapponese, accompagnati da un'introduzione storica che consente una comprensione generale delle varie epoche, del suo sviluppo e delle sue principali scuole, dalle Tendai e Shingon alle Jodo, Jodo shinshu, Nichiren, Jishu e Zen. I testi per quanto è possibile sono completi e tutti tradotti dalla lingua originale, allo scopo di offrire al lettore un'accurata panoramica di una dimensione culturale e religiosa che ha incontrato negli ultimi anni anche in Italia un notevole interesse. La conoscenza diretta dei testi sarà dunque uno strumento utile per chiunque desideri comprendere in modo più approfondito la storia del buddhismo e della cultura giapponese, sia per curiosità personale, sia perseguirne la pratica.
Il contributo più innovatore di Fernand Braudel ha dato agli studi storici è senza dubbio lo sforzo di capire e interpretare i fenomeni di lunga durata. In "Civiltà materiale, economia e capitalismo", lo studioso francese ha approfondito la sua visione della storia, quasi prendendo a pretesto le vicende di quattro secoli per analizzare nelle sue diversa complessità e contraddizioni il passato, collegarlo strettamente al presente e rileggerlo in chiave antropologica. In questo volume l'avventura dell'uomo è ricostruita attraverso il cibo che i diversi paesi offrono o che dal lavoro umano sono messi in grado di offrire, le bevande, i tipi di abitazione, l'abbigliamento, gli ausili diversi per dare alle società un fondamento materiale solido.
Ben prima dell'inizio canonico della globalizzazione, fondamentali tendenze storiche rivelano l'interdipendenza dei cambiamenti politici e sociali a livello planetario. Eventi mondiali come le rivoluzioni europee del 1789 e del 1848 si riverberarono all'esterno mescolandosi con le convulsioni che si producevano all'interno di altre società. Dall'altro lato, eventi esterni all'emergente "nocciolo" europeo e americano dell'economia industriale contribuirono a plasmarne le ideologie forgiando nuovi conflitti politici e sociali. Nel corso di tali processi, anche le forme dell'agire umano si adattarono reciprocamente finendo con l'assomigliarsi dappertutto nel mondo. Attingendo a una mole sterminata di conoscenze, Bayly ripercorre il sorgere di uniformità globali nello Stato, nella religione, nelle arti, nei rapporti di genere, nelle ideologie politiche e nella vita economica nel corso del XIX secolo. Il quadro che si disegna è una "world history" che si sottrae a qualunque visione unidirezionale, che accetta di essere decentrata e segnata dalla discontinuità, dalle rotture non preannunciate e insieme dal permanere di antiche forme di dominio.
"Bando agli indugi, è venuto il momento di svelare ciò che non andrebbe svelato - la storia del desiderio del professore. Però non posso farlo senza prima chiarire in modo soddisfacente, almeno per me, se non per i vostri genitori, perché ho deciso di eleggervi a miei voyeur, miei giurati e miei confidenti, perché ho deciso di esporre i miei segreti a persone che hanno la metà dei miei anni, e che perlopiù non ho mai visto né conosciuto. Perché voglio un pubblico, quando la maggior parte degli uomini e delle donne preferiscono tenere tali faccende per sé oppure rivelarle solo ai più fidati confessori, laici o religiosi? Cosa rende necessario, addirittura appropriato, che mi presenti a voi giovani sconosciuti in guisa non di insegnante ma di primo dei testi di questo semestre? Sono devoto alla finzione, e vi assicuro che quando sarà il momento vi spiegherò tutto quel che so in proposito, ma a dire il vero nulla vive in me quanto la mia vita».
Il 2 settembre 1859, al largo delle coste cilene, il vascello americano Southern Cross in servizio tra Boston e San Francisco si trovò immerso, nel bel mezzo di una violenta tempesta, in un'aurora australe color rosso sangue, insolitamente intensa, mentre lampi elettrici dello stesso colore avvolgevano lo scafo e i pennoni. Nello stesso istante, un po' ovunque nel mondo, le cabine telegrafiche smisero simultaneamente di funzionare; alcune andarono in fiamme. Qualcosa di invisibile aveva colpito violentemente la Terra. L'unico uomo che sapeva cosa era successo si chiamava Richard Carrington, un astronomo dilettante che nel suo osservatorio privato, a sud di Londra, era stato in quelle ore il primo testimone di un brillamento solare e aveva subito intuito il significato dell'evento. Quella del 1859 fu probabilmente la più intensa tempesta magnetica solare che abbia mai investito il nostro pianeta. Se accadesse oggi, in un inondo che non usa più il telegrafo, bensì la radio, i satelliti per le telecomunicazioni, internet, il GPS, l'effetto sarebbe imprevedibile e forse disastroso. Ma fortunatamente dal 1859 ad oggi, grazie alle intuizioni di Carrington e di quanti presero il suo posto nello studio del magnetismo solare e dei suoi effetti sul nostro pianeta, sappiamo molte più cose.
Quella di Galluccio è una poesia che tende a far affiorare "il lato rovescio del pensiero" attraverso vari modi: slittamenti semantici, spazi deformati, visionarietà onirica. In questo contesto entra in gioco anche una serie di metafore tratte dal linguaggio matematico che rimandano a un mondo di certezze e di perspicuità continuamente disatteso. Come nella poesia dedicata a Georg Cantor, vera e propria cerniera a metà del libro, dove alcuni aspetti di pensiero del grande matematico diventano l'occasione per una percezione diretta e acuta della complessità e del "confronto terreno fra infiniti". I versi di Galluccio muovono da una ferita esistenziale che trova espressione in varie forme di disagio quotidiano, dilatandosi e trasformandosi in simboli capaci di spostare verticalmente le immagini, le distanze, i nodi irrisolti. Senza fare esplicitamente una poesia metafisica, Galluccio recupera tutta la pregnanza di scorie e residui della realtà interiore ed esterna, come se il prolungamento di questi dettagli potesse condurre, non tanto a risposte pacificanti, ma a nuove domande, a nuovi problemi che nessun teorema sembra in grado di risolvere.
In un giorno d'estate soffocante, un avvocato si mette alla ricerca del suo gatto e in un giardino abbandonato dietro casa incontra una strana ragazza. Una giovane coppia decide di fare uno spuntino notturno e assalta un McDonald's per avere trenta Big Mac, realizzando cosi' un segreto desiderio adolescenziale del marito. Nel racconto che da il titolo al libro, un uomo è ossessionato dalla incredibile, misteriosa scomparsa di un elefante dallo zoo del paese. E poi ancora una curiosa digressione sui canguri, un uomo che incendia granai per il gusto di vederli bruciare e le introspezioni di una giovane madre afflitta da insonnia.
Nel 1989 Toti Scialoja raccolse sotto l'insegna del "senso perso" tutte le sue poesie, fino ad allora riservate a un pubblico di amici, bambini e intenditori: da "Topo, topo, senza scopo, / dopo te cosa vien dopo?" sino a "La tristizia, il nevischio, il solstizio d'inverno / nel buio natalizio sono sempre di turno...". Partendo dalla strofa infantile si attraversa uno zoo di animali perplessi che si squamano in sillabe, si intrattengono con il gioco commerci non occasionali, si raggiunge la lirica dalla direzione più inattesa. Si chiedeva Giorgio Manganelli: "Non sarà Scialoja un petrarchesco che si è bruscamente accorto di quante possibilità offra una meticolosa dementia praecox?" Sono filastrocche filosofali: "Sento un topo nello stipo. / Lo spalanco: topo bianco!"; tiritere reiterate: "La mucca di Lucca / che gira in parrucca / in mezzo alla vigna / e allunga la lingua / ammicca o pilucca?"; invenzioni inveterate "Ieri vidi tre levrieri / mogi mogi, / oggi vedo tre levroggi neri neri, / che domani sloggeranno / levri levri"; lapidi lepide e rapide: "Ahi, la vespa / com'è pesta! Era vispa, / non fu lesta". Quello che oggi possiamo finalmente rileggere è l'inimitabile repertorio in cui Toti Scialoja ha collaudato l'esattezza del principio da lui stesso enunciato: "Nel nonsense la parola è alla prova del nulla".
Il passato raccontato da Michele Mari è quello mitico e irrecuperabile dell'infanzia, eroso negli anni da una diaspora di oggetti e sentimenti il cui ricordo continua a sanguinare. Ma in questi racconti non c'è mai il rimpianto di una perduta età dell'oro, perché la violenza immaginifica dell'autore opera un recupero altissimo di emozioni infantili legate a un universo in cui le sole figure amiche sono quelle dei propri personali mostri e di pochi, semplici ma "fatidici" giocattoli. Ogni pagina spalanca abissi di malinconia dove fanno irruzione visioni fantastiche e terrificanti, in cui riecheggiano nitide le voci degli autori più amati, Stevenson, London, Poe, Melville. Così i giardinetti che accolgono gli svaghi pomeridiani dei bambini diventano lande inospitali, dove s'aggirano tremende creature mitologiche come le Antiche Madri; così un puzzle segna l'iniziazione a un'ascesi quasi monastica, così le copertine di Urania o le canzoni degli alpini diventano la palestra di ossessive elucubrazioni mentali, e tutto è tanto più feticisticamente inventariato quanto più la vita sembra cosa riservata ad altri. Una narrazione di trasalimenti e precoci nevrosi, condotta con commozione ma anche con feroce umorismo dalla voce inconfondibile di Michele Mari. Il ritorno di un libro uscito da Mondadori nel 1997, e già considerato da molti un piccolo, imprescindibile classico.