"Sembrava il paradiso" è l'ultimo romanzo di John Cheever, apparso solamente quattro mesi prima della sua morte. Il protagonista, Lemuel Lears, è un vecchio gentiluomo che vive in un paesino incantato, dove non è ancora arrivato un fast-food e neppure la ristrutturazione delle grandi ville per farne case di riposo per anziani alla fine del loro ciclo vitale. Il paradiso di Lears è rappresentato da un laghetto, il laghetto dei Beasley, dove ama pattinare d'inverno, un posto incantevole destinato però a scomparire a causa della speculazione edilizia e dell'inquinamento. Si sviluppa così un'intricata vicenda incentrata sul crudo ritratto della vita sessuale e sentimentale di Lears: vedovo gaudente, impegnato a non diventare anch'egli una discarica, si divide tra ricordi, incontri con una bella e capricciosa signora, istantanee follie omosessuali con il ragazzo dell'ascensore e la consolazione emotiva con un suo coetaneo. Perché in fin dei conti il suo problema, la sua vera paura, era proprio quella: la fine dell'amore. Già pubblicato nel 2007 con il titolo "Sembra proprio di stare in paradiso".
Il protagonista di questo "thriller esistenziale" è Harry Quinn, un reduce del Vietnam che vaga da una parte all'altra degli Stati Uniti, cambiando continuamente lavoro, nel vano tentativo di reinserirsi nella realtà. Irrequieto, solitario, involontariamente cinico, come un eroe hemingwaiano. La vicenda si svolge a Oaxaca, una cittadina del Messico piena di turisti, emarginati, funzionari corrotti, trafficanti di droga e forze della repressione. Quinn si reca là per cercare di liberare dal carcere Sonny, fratello della sua ex ragazza, coinvolto in un'intricata storia di droga. Rapidamente l'atmosfera si fa pesante e, nonostante il protagonista faccia di tutto per non farsi coinvolgere nei guai, attorno a lui cominciano a comparire dei cadaveri...
Maurizio Maggiani ha una predilezione per l'oralità, gli piace sentire e far sentire come il racconto nasca dalla voce, dall'ascolto, dal rapporto che si crea tra la logica dei fatti e l'eco profonda della parola che li restituisce. E questo un segno decisivo dei suoi romanzi e degli incontri con il pubblico dei lettori. Ebbene, qui Maggiani fa un passo avanti e imbocca con rabbia e ardore la via dell'invettiva, un'oralità che sale di volume e di passione oratoria, perché, senza meno, deve ottenere un risultato: andare a segno. L'attenzione si sposta dalla leggenda delle cose accadute allo scacco delle promesse non mantenute. Le promesse fatte dalla sua generazione. Non poteva ben considerarsi beata la gioventù di un dopoguerra che si apriva provvido di speranze, di ideali, di futuro, e di un'alimentazione equilibrata? E allora? Che cosa succede ai figli del privilegio? Che cosa dissipano mentre disegnano un mondo nuovo? Oltre il confine della battaglia combattuta si apre il cedere del sogno, la traduzione dei ribelli in mediocri esecutori, manager, reggicoda di molti poteri. Maggiani amministra colpi con generosità, li chiama maledizioni. E tali sono, maledizioni. Perché i destinatari dell'invettiva e quelli che, pur fuori dal tiro generazionale, si riconoscono, sappiano almeno fare i conti con la vergogna del fallimento.
Corso Bramard è stato il commissario più giovane d'Italia. Meditabondo, insondabile, introverso, capace di intuizioni prossime alla chiaroveggenza. Fino a quando un serial killer di cui seguiva le tracce ha rapito e ucciso la moglie Michelle e la piccola Martina. Da allora sono passati vent'anni. Corso vive in una vecchia casa dimessa tra le colline, insegna in una scuola superiore di provincia e passa gran parte del tempo arrampicando da solo in montagna, spesso di notte e senza sicurezze, nell'evidente speranza di ammazzarsi. Perché, come suole ripetere, "non c'è nessuna vita adesso". Eppure qualcosa è rimasto vivo in lui: l'ossessione, coltivata con quieta fermezza, di trovare il suo nemico. Il killer che ha piegato la sua esistenza e che continua a inviargli i versi di una canzone di Léonard Cohen. Diciassette lettere in vent'anni, scritte a macchina con una Olivetti del '72. Un invito? Una sfida? Ora, quell'avversario che non ha mai commesso errori sembra essere incappato in una distrazione. Un indizio fondamentale. Quanto basta a Corso Bramard per riprendere la caccia, illuminando una scena popolata da personaggi ambigui e potenti, un dedalo di silenzi che conducono là dove Corso ha sempre cercato il suo appuntamento, e il suo destino.
Quello di Leila Guerriero non è un racconto di fantasia ma una storia vera. Non è una storia estrema, né di eroismo, né di deriva, né di coraggio. E la storia semplice di un uomo comune che insegue un sogno e per realizzarlo è capace di ipotecare anni di vita e di risparmi. La cosa curiosa è che il sogno di quest'uomo è tutt'altro che straordinario: vincere una gara di ballo, diventare campione di malambo, una danza folkloristica dei gaucho argentini, che dura pochi minuti ma richiede la preparazione fisica e psicologica di un centometrista. Tutto si svolge a Laborde, una cittadina come altre, perduta nell'immensità della pampa, e riguarda una comunità ristretta in cui il campione di malambo assume i connotati di un eroe olimpico. Leila Guerriero decide di capire fino in fondo i meccanismi di questo microcosmo e dei personaggi, a tratti inverosimili, che lo popolano, trascinando il lettore, a forza di suspense e coup de théâtre, in un reportage capace di emozionare come un romanzo.
Le crisi sono eventi o processi storici doppiamente decisivi. Perché impongono di decidere, appunto, nella consapevolezza che "il tempo stringe" e che, dalle proprie decisioni, dipenderà l'alternativa tra vita e morte, salvezza e catastrofe, pace e guerra. E perché, nella stessa misura in cui procurano uno strappo nel corso normale delle cose, le crisi mettono a nudo aspetti dell'ordine politico e del suo linguaggio che, in condizioni di routine, passano quasi sempre inosservati: le diseguaglianze di potere politico ed economico, il grado residuo di efficienza e legittimità delle istituzioni, l'inadeguatezza o il logoramento dei linguaggi a disposizione degli attori. Questa ambivalenza della crisi è sempre più pronunciata anche nell'attuale momento storico. Dietro l'urgenza dei singoli eventi critici (la crisi economico-finanziaria, le "primavere arabe", la guerra civile siriana, la crisi in Ucraina) si profila, infatti, una crisi più comprensiva di tutte le determinanti fondamentali dell'ordine internazionale, dal progetto eccezionalmente ambizioso di ordine concepito agli inizi degli anni novanta su iniziativa americana, alla legittimità delle istituzioni interne e internazionali che avrebbero dovuto sostenerlo, fino allo smottamento dello stesso ordinamento politico-giuridico in senso lato "moderno", edificato sulla duplice centralità dell'Occidente nel mondo e dello Stato in Occidente.
Aggettivi come "stravagante", "eccentrico", ed espressioni come "fuori dai canoni", "sopra le righe" trasmettono solo in parte la vertigine, la passione, la furia con cui Raimondo Lanza Branciforte principe di Trabia, appartenente a una delle più antiche, nobili e facoltose famiglie di Sicilia, ha preso a morsi i suoi trentanove anni (1915-1954): combatte in Spagna, è compromesso con i fascisti ma poi aiuta i partigiani, caccia la tigre, dalla vasca da bagno della sua suite all'Hotel Gallia di Milano compra e vende calciatori; è amico dello scià di Persia e di Tomasi di Lampedusa, di Aristotele Onassis e di Luchino Visconti, di Gianni Agnelli e di Robert Capa; ama Susanna Agnelli, Edda Ciano, Rita Hayworth e infine sposa Olga Villi. A sessant'anni dalla sua tragica fine, è la figlia Raimonda, insieme alla nipote Ottavia, a scavare nel passato di quest'uomo fascinoso e scapestrato: da una vecchia valigia sono emersi appunti, documenti, lettere, fotografie, tutto materiale inedito che ha colmato i vuoti, illuminando di una luce nuova testimonianze e racconti di chi Raimondo lo ha conosciuto. Alla fine, la morte dell'ultimo principe di Trabia e la rovina finanziaria della sua famiglia risultano oscuramente legate al trionfo della mafia in Sicilia e al suo radicarsi nei palazzi del potere. Di Raimondo restano questa storia appassionata, il rimpianto per un mondo dorato imploso, il fulgore abbagliante di una vita bruciata.
"Medici con l'Africa" è un film girato nel 2011 in Mozambico da Carlo Mazzacurati. Testimonia l'attività in Africa del Cuamm, che da oltre sessant'anni continua a lasciare vivissima traccia di sé nei distretti e negli ospedali che supporta per creare servizi sanitari efficienti e compatibili con le realtà locali. Mazzacurati va alla ricerca degli uomini e delle donne che hanno fatto della loro motivazione a operare in Africa uno stile di vita, una testimonianza di perseveranza e passione, una traduzione quotidiana dell'evangelico "andate e curate gli infermi". Cerca negli occhi di queste donne e di questi uomini la luce che li lega alla fatica, all'ostinazione, persino al rischio di fallire. Le testimonianze dirette di alcuni protagonisti si intrecciano al vigoroso ritratto di una delle personalità carismatiche di Medici con l'Africa Cuamm, don Luigi Mazzucato, che qui emerge come primo responsabile attivo delle "chiamate" all'azione e sollecito supporter spirituale degli operatori sanitari. Il libro si muove, forte di tonalità diverse, intorno all'avventura cinematografica di Carlo Mazzacurati e più ampiamente intorno all'opera del Cuamm. Scrittori, giornalisti, musicisti, nonché alcune voci importanti del Collegio Universitario Aspiranti e Medici Missionari ci dicono finalmente cosa si può fare, in che modo si può farlo, e dove è necessario farlo. Senza retorica.
Chi non si ricorda del mondiale di calcio del 1982? Chi non ricorda il miracolo Paolo Rossi? A distanza di trent'anni da quel mitico 1982, Paolo Rossi ripercorre i giorni che hanno cambiato la sua vita, che lo hanno reso eterno. E i giorni che ci hanno tenuti inchiodati davanti al televisore. Aneddoti e ricordi si intrecciano a emozioni, paure, sensazioni. Fino alla finalissima Italia-Germania con cui l'Italia vince il campionato. Un campionato rimasto nel cuore degli italiani che, dopo il racconto di Paolo Rossi, fanno sentire la loro voce, i loro ricordi, le loro emozioni. Un libro che è insieme la testimonianza di un grande campione e i ricordi di quegli italiani che ancora hanno impresso nel loro cuore l'esultanza del presidente Pertini e l'urlo indimenticabile del telecronista Martellini: "Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!".
Il mondo di Tony Pagoda è grande, non si lascia contenere da un solo libro. E così eccolo di nuovo, presentato dall'ex cognato Ughetto De Nardis. Ughetto parla di "nuove esperienze" che a lui non sono piaciute per niente. Noi possiamo, con Pagoda, parlare di vecchi e nuovi amici, di tutti gli incontri che Tony ha continuato ad avere nel mondo che più gli piace, quello compreso fra lo spettacolo di chi fa spettacolo e lo spettacolo delle vite pubbliche. Fabietto e Carmen Russo, il mago Silvan e Tonino Paziente, Maurizio Costanzo e Jacqueline O'Rourke. Ogni occasione è buona per far mostra di una copiosa morale dell'assurdo che è diventata cifra stilistica, segno inconfondibile. Tony Pagoda non teme la risata, non teme la lacrima, non teme la sprezzatura, o lo sfottò. Con lui ci facciamo portare dentro un'umanità che mai avremmo visto così, con cui mai avremmo pensato di compatire. Ma questa volta è come se la voce di Tony raddoppiasse in quella del suo creatore, che infatti sentiamo arrivare, più si avvicina il congedo, ad aprirsi un varco, a lasciare un'impronta. Interprete del nostro tempo, Tony Pagoda è pur sempre il protagonista, lui e le sue tirate, come Falstaff: "L'umanità, dunque, è miserabile. Non si discute su questo. Eppure, non è stato inventato ancora niente di meglio. Perché, quando si palpita, si palpita. Tutte le emozioni della vita non hanno senso. Si addizionano tra loro, incongrue, per accumulo. Compongono la vita, come una lista della spesa. E questo, infine, è il senso".