
"Il mio cuore sedizioso" raccoglie vent'anni dell'opera di Arundhati Roy, un lungo periodo in cui la scrittrice ha scelto l'inchiesta, il saggio politico, la testimonianza personale, il resoconto narrativo, come mezzi per condurre le sue battaglie per la giustizia, i diritti e la libertà in un contesto che diventava sempre più ostile. Nell'insieme, il volume traccia una parabola che comincia dalla vittoria del Booker Prize con "Il dio delle piccole cose" per finire con l'ultimo romanzo, "Il ministero della suprema felicità": un percorso di vita e di scrittura nel segno della compassione, della solidarietà e del coraggio. Incisiva e diretta, la voce dell'autrice si è sempre levata in difesa della collettività, dei popoli e delle loro terre, a dispetto della logica distruttiva delle potenti corporazioni finanziarie, sociali, religiose, militari e politiche. In costante dialogo con i temi e le ambientazioni dei suoi romanzi, dei quali hanno il fascino e la ricchezza espressiva, questi scritti documentano il viaggio di Arundhati Roy in India e nel mondo, a partire da "La fine delle illusioni", che apre la raccolta, per arrivare a "Il mio cuore sedizioso", che la conclude.
«Era più giusto dire tragico incidente, come volevano alcuni, o crimine, come volevano altri? Che ognuno decida secondo la propria coscienza. Le parole non tireranno il morto fuori dalla tomba.» Sono le vittime, i caduti di una guerra strisciante che ha segnato la vita dei Paesi Baschi fin nelle pieghe più intime della quotidianità, i protagonisti delle storie di Fernando Aramburu, storie che colpiscono e commuovono per la verità del narrare e per la «normalità» delle situazioni che ritraggono. La molteplicità e l'originalità delle voci, la varietà dei personaggi e delle loro esperienze compongono, come in un romanzo corale, un quadro indimenticabile. Una ragazza che dopo sei mesi esce dall'ospedale invalida, vittima casuale di una bomba piazzata davanti a una banca, e il dolore silenzioso e impotente di suo padre; una donna che cerca in tutti i modi di resistere alle pressioni della comunità che vorrebbe espellerla, perché le hanno assassinato il marito e la sua presenza è diventata per tutti motivo di disagio; un vecchio accusato di collaborazionismo che vive in una condizione di insopportabile angoscia; la visita di una madre al figlio detenuto in un carcere di massima sicurezza, e la loro difficoltà di capirsi fino in fondo.
Vent'anni fa, un'estate in Riviera, una di quelle estati che segnano la vita per sempre. Elio ha diciassette anni, e per lui sono appena iniziate le vacanze nella splendida villa di famiglia nel Ponente ligure. Figlio di un professore universitario, musicista sensibile, decisamente colto per la sua età, il ragazzo aspetta come ogni anno "l'ospite dell'estate, l'ennesima scocciatura": uno studente in arrivo da New York per lavorare alla sua tesi di post dottorato. Ma Oliver, il giovane americano, conquista tutti con la sua bellezza e i modi disinvolti. Anche Elio ne è irretito. I due condividono, oltre alle origini ebraiche, molte passioni: discutono di film, libri, fanno passeggiate e corse in bici. E tra loro nasce un desiderio inesorabile quanto inatteso, vissuto fino in fondo, dalla sofferenza all'estasi. "Chiamami col tuo nome" è la storia di un paradiso scoperto e già perduto, una meditazione proustiana sul tempo e sul desiderio, una domanda che resta aperta finché Elio e Oliver si ritroveranno un giorno a confessare a se stessi che "questa cosa che quasi non fu mai ancora ci tenta".
"Cosa c'era nell'animo di Mozart? Non valgono con Mozart consueti metri di misura. La sua genialità credo consistesse nell'esser lui uomo del tutto comune, uomo qualsiasi, ma di quelli che vivono senza rendersene conto due vite: la vita del volto, con cui si affacciano quotidianamente presso il volto degli altri, e la vita della propria intimità profonda o della propria verità. Questa rimane loro sempre sconosciuta, o forse gli appare in sogno e, sepolta nelle ore notturne, altrimenti non affiora se non pari a un fortuito e trascurabile trasalire. L'animo di Mozart era un abisso: l'abisso della quotidianità dove ogni differenza sparisce e a galla salgono passioni di breve momento, ricordi casuali, propositi mediocri [...] Il delirio di scrittura che imbeve le sue lettere è fatto apposta per piacerci, affascinarci. Mozart vi mette pari seduzione fisica e immaginazione erotica, capacità stilistica e vezzi ecolalia: potremmo parlare di un Rabelais che civetta senza scopi filosofici se, sempre sotterraneamente, non avvertissimo estri infantili, una specie di psicologica timidezza rovesciata in aggressività. Ho detto fosse uomo comune, ma non ho detto fosse mediocre. Esser 'comune' vuol dire anche essere pura natura, e l'imprevedibilità è sostanza della natura: che è, di fronte alla ragione che l'osserva, in uno stato di perenne pubertà. Il genio di Mozart è confitto in una perenne pubertà: in essa trovava cibo il suo demone dongiovannesco." (E. Siciliano)
Cosa c'è di divino nell'essere giovane madre di un figlio arrivato per grazia o per caso? Ci si augura per lui una vita buona: che non incontri il male, che il mondo lo accolga o almeno lo lasci in pace. È la storia umanissima di Maria, madre di Dio bambino, la stessa di ogni madre per cui il proprio bambino è Dio, vita che si consegna fragilissima e si promette eterna. Ma il figlio di Maria è troppo speciale perché la storia sia solo questa e infatti sarà altra, raccontata per generazioni in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze. Qui parla Maria. Accanto a lei Giuseppe, padre che ha detto sì senza comprendere, senza nemmeno pronunciare questo sì, costruttore di un progetto di vita e di amore ben più grande di quello immaginato. Intorno a lei uomini e donne che pensano di capire, ma sanno solo chiacchierare; e gli amici del figlio, Giovanni, Simone, Giuda e anche Nicodemo, che si affannano di domande nella notte; e dottori e farisei che chiedono la verità solo per poterla negare. Sopra di lei, infine, gli angeli fanno corona, ma con le loro ali non riescono a tenere lontano il gran male del mondo, che si addensa fino a quando qualcuno griderà: «A morte». Ciò che resta è un corpo rotto senza grazia, consegnato a una madre ancora giovane, anche nel momento estremo così simile a tante madri. Ma questa è una storia troppo immensa perché tutto possa andare perduto.
"Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo", diceva Oscar Wilde. Oggi è diventato una delle principali occupazioni, ossessioni, manie; la cucina insieme all'ordalia igienista di ciò che fa bene o fa male sono le ronzanti colonne sonore delle nostre giornate. Prendere sul serio il cibo, però, è altra questione. Di certo, senza tanto proporselo, lo fanno Elena, la donna che si racconta in questo libro, e Daniela, la massaggiatrice alla quale si rivolge per impegnarsi a fondo in una dieta dimagrante e rimodellare il proprio corpo. Perché quello che condividono durante le loro sedute è qualcosa di profondo. A ogni piatto che nominano, a ogni ricetta o tradizione rievocata, riaffiorano un ricordo, un'amicizia, un amore, un rito di famiglia, una ferita. Le creme di piselli e i krapfen delle feste di Ulrike, anoressica per desiderio di perfezione, nella Monaco dell'infanzia e dell'adolescenza di Elena; i praghesi gnocchi di pane alla prugna di Ruzena, obesa per allontanare l'incubo dei carri armati sovietici e il dolore dell'esilio; i gattò di Teresa, che rivendica cucinando la sua identità; i pranzi domenicali della nonna veneta e contadina di Daniela; fino alle aringhe salate che risvegliano in Elena la memoria dei kiddush del sabato nella sua famiglia ebraica, e soprattutto del padre scomparso troppo presto. Alla fine di un romanzo che mescola e unisce, come fa il cibo, individui e culture, Helena Janeczek si riserva ancora lo spazio di una riflessione su una tragedia dei nostri anni, il crollo delle Twin Towers, attraverso le storie dei cuochi che nelle torri lavoravano.
Da una conchiglia che un bambino raccoglie su una spiaggia cilena, a sud, molto a sud del mondo, una voce si leva, carica di memorie e di saggezza. È la voce della balena bianca, l'animale mitico che per decenni ha presidiato le acque che separano la costa da un'isola sacra per la gente nativa di quel luogo, la Gente del Mare. Il capodoglio color della luna, la creatura più grande di tutto l'oceano, ha conosciuto l'immensa solitudine e l'immensa profondità degli abissi, e ha dedicato la sua vita a svolgere con fedeltà il compito che gli è stato affidato da un capodoglio più anziano: un compito misterioso e cruciale, frutto di un patto che lega da tempo immemore le balene e la Gente del Mare. Per onorarlo, la grande balena bianca ha dovuto proteggere quel tratto di mare da altri uomini, i forestieri che con le loro navi vengono a portare via ogni cosa anche senza averne bisogno, senza riconoscenza e senza rispetto. Sono stati loro, i balenieri, a raccontare finora la storia della temutissima balena bianca, ma è venuto il momento che sia lei a prendere la parola e a far giungere fino a noi la sua voce antica come l'idioma del mare.
L'autore di questo libro ha lasciato l'Olanda per l'Inghilterra da molti anni, ma c'è una storia, ascoltata durante l'infanzia, che lo tormenta da sempre, un vero e proprio mistero. La sua famiglia aveva accolto durante la guerra Lientje, una bambina ebrea, per sottrarla alle persecuzioni. La ragazza è stata cresciuta dai genitori adottivi come una figlia, ma poi, dopo la guerra, i contatti si sono interrotti e di Lientje nessuno ha più avuto notizie. Dov'è finita la ragazza? Perché non se n'è più saputo nulla? Inizia così la ricerca che ha cambiato la vita di Bart van Es. Lientje è ancora viva, ha ottant'anni e vive ad Amsterdam. Con un po' di riluttanza, lei accetta di incontrarlo e di raccontargli davvero quegli anni e alla fine i due riusciranno a stringere un'incredibile amicizia. «La ragazza cancellata» intreccia una potente ricostruzione dell'intensa e straziante infanzia di Lientje con il resoconto odierno degli sforzi di Van Es per ricostruire una storia che porta alla luce vecchi fantasmi e segreti di famiglia...
Il mondo visto da un bambino (con tutto il suo stupore, le sue ingenue e profonde intuizioni) e narrato dalla penna di Prévert: in queste pagine in prosa il poeta francese racconta la propria infanzia. Gli affetti e le immagini della vita famigliare si alternano alle percezioni dell'ambiente esterno: la scoperta di Parigi, le vacanze in Bretagna, il cinema, i libri d'avventura, e un'occhiata stranita sulla società e sulla politica.
I temi di Jhumpa Lahiri in questo romanzo raggiungono un apice: il senso di non appartenenza e di esclusione, di estraneità o estraniamento, e quello che la protagonista definisce il «mestiere della solitudine». Sono temi che si sviluppano incarnandosi in una figura di donna, dentro l'incantamento di una città, mai nominata, e di un universo umano e linguistico ancora da scoprire.