"Cosa c'era nell'animo di Mozart? Non valgono con Mozart consueti metri di misura. La sua genialità credo consistesse nell'esser lui uomo del tutto comune, uomo qualsiasi, ma di quelli che vivono senza rendersene conto due vite: la vita del volto, con cui si affacciano quotidianamente presso il volto degli altri, e la vita della propria intimità profonda o della propria verità. Questa rimane loro sempre sconosciuta, o forse gli appare in sogno e, sepolta nelle ore notturne, altrimenti non affiora se non pari a un fortuito e trascurabile trasalire. L'animo di Mozart era un abisso: l'abisso della quotidianità dove ogni differenza sparisce e a galla salgono passioni di breve momento, ricordi casuali, propositi mediocri [...] Il delirio di scrittura che imbeve le sue lettere è fatto apposta per piacerci, affascinarci. Mozart vi mette pari seduzione fisica e immaginazione erotica, capacità stilistica e vezzi ecolalia: potremmo parlare di un Rabelais che civetta senza scopi filosofici se, sempre sotterraneamente, non avvertissimo estri infantili, una specie di psicologica timidezza rovesciata in aggressività. Ho detto fosse uomo comune, ma non ho detto fosse mediocre. Esser 'comune' vuol dire anche essere pura natura, e l'imprevedibilità è sostanza della natura: che è, di fronte alla ragione che l'osserva, in uno stato di perenne pubertà. Il genio di Mozart è confitto in una perenne pubertà: in essa trovava cibo il suo demone dongiovannesco." (E. Siciliano)
Cosa c'è di divino nell'essere giovane madre di un figlio arrivato per grazia o per caso? Ci si augura per lui una vita buona: che non incontri il male, che il mondo lo accolga o almeno lo lasci in pace. È la storia umanissima di Maria, madre di Dio bambino, la stessa di ogni madre per cui il proprio bambino è Dio, vita che si consegna fragilissima e si promette eterna. Ma il figlio di Maria è troppo speciale perché la storia sia solo questa e infatti sarà altra, raccontata per generazioni in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze. Qui parla Maria. Accanto a lei Giuseppe, padre che ha detto sì senza comprendere, senza nemmeno pronunciare questo sì, costruttore di un progetto di vita e di amore ben più grande di quello immaginato. Intorno a lei uomini e donne che pensano di capire, ma sanno solo chiacchierare; e gli amici del figlio, Giovanni, Simone, Giuda e anche Nicodemo, che si affannano di domande nella notte; e dottori e farisei che chiedono la verità solo per poterla negare. Sopra di lei, infine, gli angeli fanno corona, ma con le loro ali non riescono a tenere lontano il gran male del mondo, che si addensa fino a quando qualcuno griderà: «A morte». Ciò che resta è un corpo rotto senza grazia, consegnato a una madre ancora giovane, anche nel momento estremo così simile a tante madri. Ma questa è una storia troppo immensa perché tutto possa andare perduto.
"Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo", diceva Oscar Wilde. Oggi è diventato una delle principali occupazioni, ossessioni, manie; la cucina insieme all'ordalia igienista di ciò che fa bene o fa male sono le ronzanti colonne sonore delle nostre giornate. Prendere sul serio il cibo, però, è altra questione. Di certo, senza tanto proporselo, lo fanno Elena, la donna che si racconta in questo libro, e Daniela, la massaggiatrice alla quale si rivolge per impegnarsi a fondo in una dieta dimagrante e rimodellare il proprio corpo. Perché quello che condividono durante le loro sedute è qualcosa di profondo. A ogni piatto che nominano, a ogni ricetta o tradizione rievocata, riaffiorano un ricordo, un'amicizia, un amore, un rito di famiglia, una ferita. Le creme di piselli e i krapfen delle feste di Ulrike, anoressica per desiderio di perfezione, nella Monaco dell'infanzia e dell'adolescenza di Elena; i praghesi gnocchi di pane alla prugna di Ruzena, obesa per allontanare l'incubo dei carri armati sovietici e il dolore dell'esilio; i gattò di Teresa, che rivendica cucinando la sua identità; i pranzi domenicali della nonna veneta e contadina di Daniela; fino alle aringhe salate che risvegliano in Elena la memoria dei kiddush del sabato nella sua famiglia ebraica, e soprattutto del padre scomparso troppo presto. Alla fine di un romanzo che mescola e unisce, come fa il cibo, individui e culture, Helena Janeczek si riserva ancora lo spazio di una riflessione su una tragedia dei nostri anni, il crollo delle Twin Towers, attraverso le storie dei cuochi che nelle torri lavoravano.
Da una conchiglia che un bambino raccoglie su una spiaggia cilena, a sud, molto a sud del mondo, una voce si leva, carica di memorie e di saggezza. È la voce della balena bianca, l'animale mitico che per decenni ha presidiato le acque che separano la costa da un'isola sacra per la gente nativa di quel luogo, la Gente del Mare. Il capodoglio color della luna, la creatura più grande di tutto l'oceano, ha conosciuto l'immensa solitudine e l'immensa profondità degli abissi, e ha dedicato la sua vita a svolgere con fedeltà il compito che gli è stato affidato da un capodoglio più anziano: un compito misterioso e cruciale, frutto di un patto che lega da tempo immemore le balene e la Gente del Mare. Per onorarlo, la grande balena bianca ha dovuto proteggere quel tratto di mare da altri uomini, i forestieri che con le loro navi vengono a portare via ogni cosa anche senza averne bisogno, senza riconoscenza e senza rispetto. Sono stati loro, i balenieri, a raccontare finora la storia della temutissima balena bianca, ma è venuto il momento che sia lei a prendere la parola e a far giungere fino a noi la sua voce antica come l'idioma del mare.
L'autore di questo libro ha lasciato l'Olanda per l'Inghilterra da molti anni, ma c'è una storia, ascoltata durante l'infanzia, che lo tormenta da sempre, un vero e proprio mistero. La sua famiglia aveva accolto durante la guerra Lientje, una bambina ebrea, per sottrarla alle persecuzioni. La ragazza è stata cresciuta dai genitori adottivi come una figlia, ma poi, dopo la guerra, i contatti si sono interrotti e di Lientje nessuno ha più avuto notizie. Dov'è finita la ragazza? Perché non se n'è più saputo nulla? Inizia così la ricerca che ha cambiato la vita di Bart van Es. Lientje è ancora viva, ha ottant'anni e vive ad Amsterdam. Con un po' di riluttanza, lei accetta di incontrarlo e di raccontargli davvero quegli anni e alla fine i due riusciranno a stringere un'incredibile amicizia. «La ragazza cancellata» intreccia una potente ricostruzione dell'intensa e straziante infanzia di Lientje con il resoconto odierno degli sforzi di Van Es per ricostruire una storia che porta alla luce vecchi fantasmi e segreti di famiglia...
Il mondo visto da un bambino (con tutto il suo stupore, le sue ingenue e profonde intuizioni) e narrato dalla penna di Prévert: in queste pagine in prosa il poeta francese racconta la propria infanzia. Gli affetti e le immagini della vita famigliare si alternano alle percezioni dell'ambiente esterno: la scoperta di Parigi, le vacanze in Bretagna, il cinema, i libri d'avventura, e un'occhiata stranita sulla società e sulla politica.
I temi di Jhumpa Lahiri in questo romanzo raggiungono un apice: il senso di non appartenenza e di esclusione, di estraneità o estraniamento, e quello che la protagonista definisce il «mestiere della solitudine». Sono temi che si sviluppano incarnandosi in una figura di donna, dentro l'incantamento di una città, mai nominata, e di un universo umano e linguistico ancora da scoprire.
La parabola di un uomo dall'adolescenza alla maturità, sullo sfondo delle trasformazioni di una terra di confine. Il protagonista, cresciuto nella lontana Bucovina, crogiolo di popoli e razze diverse, sperimenta sulla propria pelle la dissoluzione della Felix Austria. Austriaci, tedeschi, slavi, turchi, armeni, ebrei da cittadini di un impero si trovano a essere popoli diversi con crescenti aspirazioni indipendentistiche. Le sue vicende personali lo costringono a interrogarsi sui temi dell'identità, della trasformazione dell'Io, tipici della letteratura mitteleuropea.
Un libro particolare, un romanzo nutrito di autobiografia, che diventa anche biografia di una generazione. Una narrazione composita, fatta di brani di esistenza, ricordi, che ci portano gradualmente al cuore nero della storia, Auschwitz. «Lezioni di tenebra» racconta il rapporto tra la giovane autrice e la madre, l'unica di due famiglie numerose a essere sopravvissuta all'Olocausto, insieme al padre. Ebrei polacchi, vissuti in Germania, dove la figlia Helena è cresciuta sentendosi completamente estranea al mondo tedesco e alla sua cultura, pur usandone la lingua anche nel suo esordio in poesia. Romanzo sull'eterno tema dell'amore difficile tra madre e figlia, che non è soltanto una memoria sull'Olocausto, ma un resoconto lucido, appassionato e distaccato al tempo stesso, che punta soprattutto a misurare l'intensità del contraccolpo che quella tragedia ha lasciato nella generazione successiva. E il contraccolpo sta nell'impossibilità di avere radici, nella confusione linguistica, nel disperato bisogno di appartenere e nella crudele condanna a sentirsi estranei, comunque e dovunque. Sta nello stupore di fronte al destino, al male, alla sorte: «Paghi per ogni errore, anche il più piccolo, sempre e comunque... Ma che cosa sia un errore non lo sai. A questo non devi mai pensare».
Un uomo alle prese con i dentisti, un altro con i mutui bancari, entrambi esasperati e alla fine beffati. Un inquietante vicino di casa. Una imprevedibile trappola per ubriachi. L'intensa lettera alla figlia di un padre che ha speso la vita nei Servizi Segreti. Una bambina vittima di un padre orco. Due ragazzi che si avventurano di notte nei segreti di una biblioteca. Il lato buio di una vita normale... E tanti uomini e donne ancora, di questo e dell'altro mondo, tutti abitanti di un pianeta popolato di personaggi affascinanti, comici, drammatici, misteriosi, violenti o dolorosamente inermi, tutti a loro modo ribelli. Storie e destini che chiedono di essere ascoltati.