"C'è chi sostiene che questo libro abbia girato il mondo ancor più della Bibbia" scrive Doris Lessing nell'introduzione alla presente edizione di "Kalila e Dimna," una delle grandi opere della letteratura mondiale. Apparse per la prima volta in una raccolta in sanscrito diciassette secoli fa, queste fiabe costituiscono la fonte nascosta o palese di autentici capolavori della letteratura occidentale. Senza di esse non avremmo probabilmente avuto Esopo e La Fontaine, "Le mille e una notte" e "I racconti di Canterbury", oltre a una sterminata serie di racconti popolari trasmessi oralmente lungo il corso dei secoli tanto in Occidente quanto in Oriente. Nate, in un'epoca cui è impossibile risalire, anch'esse da una tradizione popolare orale - si suppone che, ad un certo punto, dei pescatori e cacciatori indiani abbiano cominciato a trasmettersi delle storie con degli animali come protagonisti -, intorno al III secolo d.C. le fiabe furono raccolte e divise in cinque capitoli: Pañcatantra, in sanscrito. La leggenda vuole che l'autore sia stato un grande saggio indiano: Vishnu Sharma. Da allora in poi il Pañcatantra tocca tutti i paesi del mondo e viene tradotto in più di cinquanta lingue.
Bocchan: così si chiama in giapponese questo celebre romanzo di Natsume Soseki, che costituisce forse l'opera più letta nel Giappone moderno. Bocchan è il nome affettuoso che si usa in Giappone per rivolgersi a un bambino maschio. Le domestiche, ad esempio, chiamano bocchan il bambino della famiglia presso cui prestano servizio. È un nome che potrebbe corrispondere al nostro "signorino", se non fosse molto meno formale e deferente e, soprattutto, se non assumesse una sfumatura negativa quando, usato ironicamente, prende il significato di ragazzino immaturo, irresponsabile, ingenuo. Il personaggio, che è all'opera in queste pagine, è inguaribilmente bocchan, un "signorino" nella duplice accezione del termine giapponese. In età infantile, disprezzato dal padre e ignorato dalla madre che gli preferisce il fratello più grande, viene chiamato affettuosamente bocchan da Kiyo, la domestica di casa, una donna all'antica che considera il legame con lui alla stregua di quello che univa servitore e padrone in epoca feudale. Diventato adulto, resta un "signorino" dall'aria svagata, dalla mancanza di rispetto per l'etichetta, dalla disarmante sincerità. Insegna matematica ad allievi chiassosi e zucconi e in mezzo a insegnanti che non sono altro che un branco di caproni arroganti, disonesti e ipocriti. Dovrebbe rassegnarsi e capire che l'ipocrisia sta diventando norma nel Giappone moderno, ma non cessa un solo istante di difendere con impulsività e commovente ingenuità l'antico senso dell'onore.
È il 1984 a New Delhi, e la città è scossa dalle violenze anti-Sikh dopo l'assassinio di Indira Gandhi. Nella famiglia di Chhobi e Sonali, tuttavia, un piccolo clan di bengalesi rifugiatisi a Delhi a seguito della partizione dell'India, tutto sembra seguire il corso ordinario delle cose. La bella Sonali si è appena vestita e come sempre ha scelto d'istinto ciò che le dona di più. Chhobi, sua sorella, una ragazza sensibile e intelligente che non bada molto alle apparenze, non può fare a meno di guardarla ammirata. Dida, la nonna indomabile che tiene unita la famiglia a dispetto di tutte le avversità, intona la sua preghiera mattutina con i più disparati nomi di Krishna. Dadu, il nonno, siede già da qualche ora sulla vecchia seggiola di vimini e, mentre si accarezza la cisti sul mento, continua a sognare la sua terra. Ma, la madre, si aggira già per la casa col volto di chi è in lotta perenne con la solitudine dopo essere rimasta vedova a trent'anni. Tutto sembra uguale a ieri, ma tutto non lo è più. Come la città fuori, anche il piccolo continente della famiglia di Dida è scosso dalla tempesta. Sonali si è innamorata di un punjabi che, con le sue giacche troppo attillate e i profumi troppo forti, appare fatuo e vanesio agli occhi di Chhobi. Scoppiano i conflitti, nel seno della famiglia, tra Sonali sempre più proiettata verso l'Occidente e sua sorella Chhobi, in bilico tra modernità e tradizione, tra le due figlie e la madre.
È il 1880 a Parigi e Pierre-Auguste Renoir, i pennelli nella mano destra e l'astuccio ereditato da Claude Monet nella sinistra, è appena giunto sulla terrazza della Maison Fournaise, una locanda amata dagli artisti dove si può mangiare, dormire o affittare una barca. Alphonsine Fournaise, la figlia del padrone della locanda, l'ha condotto fin lì per mostrargli un tratto della Senna dove le due rive offrono un paesaggio incomparabile allo sguardo di un pittore. La blusa a righe e il costume da bagno aderente sulle sue curve procaci, Alphonsine allarga le braccia davanti alla meraviglia che si spalanca non appena scosta la tenda a righe grigie e rosso corallo. Le canoe affiancate lungo la riva spiccano sul verde scuro dell'acqua. Sulla riva orientale una locanda, con i muri bianchi e il tetto di tegole rosse, è illuminata dal sole pomeridiano. Più a valle, un cantiere si allunga sul fiume circondato di barche, e qua e là si vedono case di contadini accoccolate accanto ai loro orti. In che modo Renoir potrebbe ritrarre quel magnifico luogo in cui la città incontra la campagna? Dipingendo alla maniera degli impressionisti una scena da ballo su una delle rive? Oppure una gita in barca con poche, veloci pennellate? Così Susan Vreeland immagina, nelle pagine che seguono, la nascita di una delle opere fondamentali dell'impressionismo, Il pranzo dei canottieri, un quadro in cui Renoir celebra se stesso come il pittore per eccellenza della joie de vivre, del sentimento gioioso della vita.
L'estate del 1711 sta per finire in Inghilterra e già si annuncia la saison londinese, la stagione dei balli e dei ricevimenti: giorni cruciali per accasarsi, stringere nuove amicizie, sognare imprevedibili risalite sociali o tramare insospettabili congiure. La regina Anna, protestante ma discendente dagli Stuart, è saldamente sul trono, e i cattolici si avventurano di nuovo tra le strade della capitale, dalla quale anni addietro sono stati ignobilmente scacciati con la legge delle Dieci Miglia. Qualcuno sogna il ritorno di un monarca Stuart, e cospira segretamente per riportare in Inghilterra Giacomo III, ma la maggior parte dei cattolici sembra occuparsi di un solo nobile scopo: prendere parte alla saison. Così è, ad esempio, per Alexander Pope, giovane rampollo di una famiglia cattolica rifugiatasi a Binfield. A quattordici anni, Alexander si è gravemente ammalato e le lunghe notti di coma febbricitante gli hanno lasciato la schiena curva e una sensibilità fuori del comune. Scrive poesie e spera ardentemente di diventare un poeta così famoso da essere accolto a braccia aperte da Teresa Blount il giorno in cui la chiederà in sposa. Ma Teresa, bella e impertinente nipote di Sir Anthony, non lo degna di alcuna considerazione. Nutre l'aperta speranza di accasarsi a un buon partito grazie alla saison e teme soltanto la comparsa della bella cugina Arabella Fermor. Quello che Teresa non sa è che il cuore di Arabella è già di uno dei giovani più ambiti di Londra: Lord Robert Petre.
È il 1948 e Dieter Muller, allievo del maggiore filosofo del Novecento, il pensatore tedesco Martin Heidegger, prima di compiere il gesto estremo di togliersi la vita, scrive una lunga lettera al figlio. La lettera illumina il clima della cultura tedesca degli anni Trenta, la percezione di trovarsi dinanzi a una svolta cruciale della storia umana in cui si sfidavano nel duello finale, in una vera e propria apocalisse dell'accadere storico, l'universalismo giudaico-cristiano della tecnica, rappresentato dal dominio anglo-americano, e le forze della tradizione europea. Sono gli anni in cui il nazionalsocialismo trionfa, e Martin Heidegger si trasforma nel profeta di una intera generazione chiamando la gioventù tedesca alla lotta per la grandezza perduta della Germania sotto la guida del Fuhrer. Dieter Muller racconta al figlio la sua fede incrollabile in quegli ideali, e il fervore con cui lui e altri giovani intellettuali tedeschi del tempo condussero quella battaglia. Finché, rifugiatosi in Argentina dopo la guerra, la foto di un ebreo condotto alla camera a gas dalle SS, lo pone dinanzi alla terribile verità del genocidio e della soluzione finale. Una verità insopportabile per Dieter Muller, che non esita a porre fine alla propria vita. Dall'istante in cui entra in possesso della lettera del padre, un solo pensiero ossessiona il giovane Muller: rintracciare il responsabile della fine del padre, Martin Heidegger.
Mycroft Holmes, fratello di Sherlock Holmes, è a letto ammalato. Un momento davvero inopportuno per ammalarsi, visto che l'intero servizio segreto britannico, per cui Mycroft lavora, è in subbuglio. In India Kimball O'Hara (sì, proprio il Kim di Rudyard Kipling), agente segreto inglese nella realtà e, all'apparenza. paladino quasi mistico del progresso dell'India, è scomparso. Kim spesso scompare. Questa volta però Mycroft sospetta che sia avvenuto il peggio. Lui non può muoversi. Chi dunque meglio di Sherlock e Mary Russell per risolvere il caso?
Il XX secolo sta per iniziare e un uomo e una donna giungono a Cuba dalla Spagna: si stabiliscono nell'incantevole isola, ma continuano a far ritorno di tanto in tanto in Spagna per far visita ai rispettivi parenti. Durante uno di questi viaggi, fatti di lunghi ed estenuanti soggiorni in nave, alla donna capita persino di mettere al mondo una delle sue tre figlie: Virginia. Le tre ragazze che danno il titolo al libro, vivono l'intera loro infanzia e giovinezza a Cuba, ricevendo l'educazione propria delle fanciulle per bene di inizio Novecento: suonare il piano, ricamare, studiare, tutto in vista di un futuro spasimante. E gli spasimanti, trascorso un po' di tempo, non tardano a manifestarsi: cognati eccentrici e bizzarri che non esitano a competere tra loro: le famiglie si allargano, nascono i primi nipoti. Finché un giorno Gonzalo Celorio, il figlio scrittore di Miguel e Virginia, divenuto una delle glorie della letteratura messicana contemporanea, ritorna a Cuba a visitare la zia Ana Maria, a contemplare i luoghi della sua infanzia, a ricordare la storia della sua famiglia e a intrecciarla alla storia di un paese dove il Novecento ha scritto una delle sue pagine più intense.
"Ci sono degli ebrei nella mia casa" descrive la vita e le aspirazioni di alcune donne russe che vivono tra Mosca e Brooklyn. Nella storia che dà il titolo al libro, storia che si svolge durante la seconda guerra mondiale, durante l'occupazione nazista della Russia, Galina offre coraggiosamente rifugio, nella sua casa, a un ebrea e alla sua piccola, salvo poi nutrire un crescente risentimento per la presenza dell'estranea in casa, risentimento dettato da piccole ipocrisie, rivalità femminili, rivalse sociali ecc. In "Lezioni d'amore", una giovane docente di matematica si ritrova a insegnare educazione sessuale in una classe femminile, lei che aspetta ancora di ricevere il suo primo bacio. Con una scrittura nitida e precisa, Lara Vapnyar illumina le avventure e le nascoste possibilità della vita, le delusioni e le svolte inaspettate che a volte riserva, con delicato humour, ritmo avvincente e onestà di sentimenti.
Sono gli anni Trenta negli Stati Uniti, l'epoca della Grande Depressione, la più grave crisi mai vissuta dalla nazione americana. Sono anche gli anni, però, in cui ha inizio una singolare "grandeur": quella dei circhi itineranti che attraversano in lungo e in largo il paese col loro strabiliante carico di donne-cannone, nani, mostri e animali esotici. In uno di questi circhi capita un giorno Jacob, studente di veterinaria in fuga da tutto e da tutti dopo l'improvvisa morte dei genitori. In quel bizzarro mondo, Jacob se ne starebbe tranquillamente al suo posto se due seducenti figure non lo turbassero profondamente: un turbamento pericoloso, visto che le due figure (di cui la seconda è un'elefantessa) sono in balia del sadico direttore, prime vittime della sua gelosia, dei suoi instabili umori e della sua inarrestabile violenza.