
Marek Edelman
C'era l'amore nel ghetto
Si respirava la morte ma si continuava a vivere, si pativa la fame ma nasceva l’amore tra quei ragazzi e quelle ragazze che lottavano per la vita nel ghetto di Varsavia.
Lì vissero tra gli stenti mezzo milione di persone dal ’40 al ’43, quando scoppiò una rivolta e i nazisti lo rasero al suolo. Edelman a quell’epoca ha poco più di 20 anni. È uno dei protagonisti dell’insurrezione e fra i pochi sopravissuti.
A cura di Wlodek Goldkorn, Ludmila Ryba e Adriano Sofri
Traduzione di Ludmila Ryba
Prefazione di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri
188 pagine 11.00 Euro ISBN 88-389-2380-9
«C’è uno spreco e un cattivo uso delle parole e delle analogie, quando si parla della Shoah: un impiego della retorica che privilegia la metafora a scapito della vita e delle vite. Si dimentica, o si ignora, che anche nel ghetto ci si innamorava, si litigava, si faceva politica, si sognava. Si sperava in un avvenire, addirittura. Si dimentica quello che Marek Edelman, un uomo che ha visto andare verso la morte quasi 500.000 persone, ama ripetere: la vita viene prima di ogni altra cosa. Ecco: il ghetto che cos’era? L’anticamera della morte? Certo, anche. Ma era, in condizioni davvero disumane, anche una vita supplementare, una prosecuzione della vita che gli ebrei conducevano prima della guerra, in Polonia.
«Tra le due guerre mondiali, in Polonia esistevano e fiorivano teatri yiddish; si producevano – assieme agli studios di Hollywood – film sonori in yiddish; c’erano reti di biblioteche, case editrici, associazioni sportive, sindacati, partiti politici. C’era una nazione di tre milioni di persone che parlava, pensava, scriveva, sognava, faceva politica e progettava il futuro in yiddish. Qui Marek Edelman racconta che cosa successe a questo mondo, a un pezzo di questa nazione, una volta finito nel ghetto. Non aspettarono passivamente di morire; non si avviarono alle camere a gas “come le pecore al macello”. Cercarono invece in ogni modo, ciascuno a suo modo, di continuare il filo della vita di prima. I medici cercarono di lavorare negli ospedali del ghetto; gli scrittori di scrivere i loro libri; gli storici di registrare le cronache perché le future generazioni potessero fare la storia; gli insegnanti di fare scuola in clandestinità con i ragazzi. E i militanti dei partiti organizzarono la resistenza: che diede vita, in una smisurata sproporzione di forze, alla prima rivolta armata contro i tedeschi sul suolo dell’Europa occupata dai nazisti. E tutto questo può e deve essere descritto e raccontato. Ecco perché dove c’era la vita c’era anche l’amore».
(Dalla Prefazione di Wlodek Goldkorn e Adriano Sofri)
Marek Edelman guidò, poco più che ventenne, la rivolta del ghetto di Varsavia, che, «armata» di una decina di pistole e qualche chilo di esplosivo, tenne in scacco la strapotenza nazista dal 19 aprile al 10 maggio 1943. Fra i pochi superstiti, Edelman combatté l’anno dopo nell’insurrezione della città. Cresciuto alla scuola del Bund, il partito socialista dei lavoratori ebrei, ai suoi ideali è rimasto fedele. Dopo la guerra, cardiologo all’ospedale di Lodz, è stato più volte licenziato e arrestato dal regime stalinista, fino alla vittoria di Solidarnosc. Ha sempre rifiutato di lasciare il paese che considerava suo e dei suoi morti, delle cui tombe si era dichiarato il guardiano. È morto, novantenne, il 2 ottobre del 2009.
Al centro dell’azione è la collaborazione mediatica tra un giornale e una trasmissione televisiva: il giornale fornisce il caso umano, la tv lo apparecchia in studio corredandolo di pubblico e pubblicità. «La prima», è fatta su una bambina, «Premio bontà classe Juniores C», presentata come l’angioletto che veglia, nel monolocale, sul fratellino: non dorme per tenere lontani da lui scarafaggi e topi scorrazzanti nell’edificio all’infimo del degrado. Nello stesso palazzo, allo scantinato, abita «la donna», la protagonista centrale del romanzo, con le sue due bambine: è vedova giovanissima di un ragazzo morto per una malattia non curata, è ignorante, abituata alla sottomissione e manca di ogni risorsa, e sul punto di morir di fame. L’illusione dei buoni sentimenti televisivi la tenta a diventare lei il caso umano da rappresentare sullo schermo. Tutto quello che non ha è insufficiente a richiamare attenzione e aiuti, e allora escogita un sistema: si mutila. Ma anche la prima mutilazione non basta a soddisfare i produttori, ancora «non costituisce una vera e propria storia», soprattutto lei pretende di proteggere la dignità delle bambine: ma «la dignità – le dice il direttore – è un lusso». Non le resta che continuare i passi successivi verso il suo «gran finale con lacrime e baldoria». Intorno a questa ferocia si muovono figure grottesche che sembrano comunicare solo per infliggere violenza psicologica; giornalisti resi del tutto insensibili dalla frustrazione del successo e dell’insuccesso; medici ammonitori sulla «santità del corpo umano» con chi si consuma d’inedia; bambini e madri strumentalizzati fino all’istupidimento; vicini abbrutiti nell’egoismo da vite chiuse e miserabili; gente che passa diventata un pubblico famelico di sensazioni: tutti soffrono, ma nessuno ha pietà. È una parabola cupa e sarcastica, tesa di umorismo crudele, questa di Bordon, datata sorprendentemente – e profeticamente: quasi un’antiutopia – 1974: ben prima del trionfo della televisione che fa spettacolo della sofferenza togliendo alla sofferenza concreta e alle sue cause ogni realtà agli occhi di ciascuno. Eppure è questo il suo bersaglio: l’attuale sistema di informazione spettacolo e affari, che risucchia il contenuto umano allo stare assieme e che di questa sottrazione si autoalimenta. Nei suoi romanzi, in questo come nel Canto dell’Orco (del 1985 e ripubblicato da questa casa editrice nel 2008), la solidarietà, la fratellanza sembrano un ultimo residuo relegato tra personaggi estremi, freaks predestinati al pubblico stigma.
Furio Bordon è nato e vive a Trieste. A ventisei anni lascia la professione di avvocato per dedicarsi alla scrittura e alla regia teatrale. Ha diretto il Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, il Teatro Romano di Trieste, il Mittelfest Prosa di Cividale.
Il suo maggior successo, Le ultime lune, è stato tradotto e allestito all’estero in venti lingue. Con questa casa editrice ha pubblicato Il canto dell’orco (2007).
Non può esserci posto per un commissario alla Montalbano nella Palermo di questo romanzo. Montalbano è, qui e ora, un’icona proverbiale distratta nei paesaggi remoti della giubilazione. Viene evocato, ma solo a sproposito. «Non è che ora ti devi mettiri a fari il commissario Montalbano», si dice; e l’iperbole è riservata alla vocazione investigativa di una segretaria, che è una «vera e propra minera di sparlerie, curtigliarate, maledicenze». Il romanzo si colloca nelle vicinanze della cronaca più recente. E dà una rappresentazione storicamente ravvicinata del generale insordidamento politico: delle occulte geometrie e delle segrete intese fra poteri forti trasversali alle colorazioni stinte dei partiti; degli strusciamenti della corruzione; delle collusioni mafiose; dei vari gradi di perversione del linguaggio velato o atteggiato, elusivo o reticente, ossequioso o intimidatorio. Le apparenze abbagliano. Ed è sconsigliato denudare le parole e interpretare i fatti. L’impermeabilità della politica irradia di sé le carriere, nelle aziende pubbliche, e i passaggi dei pacchetti azionari nella Banca dell’Isola; e persino le alcove: le fedeltà e le infedeltà coniugali; l’amor costante e le passioni tattiche. La giostra, che la politica fa intorno al cadavere di una studentessa assassinata e al fidanzato raggiunto da un avviso di garanzia, viene seguita, e assecondata, dal direttore del telegiornale isolano. Anche gli innocenti, che credono di star fuori o ai margini della trama, e sanno come «cataminarisi», hanno le loro tare e qualche inaspettato tornaconto nel romanzo. L’ingarbugliamento della vicenda, il labirintico concrescere della trama, annoda e invischia tutti; e impedisce che si arrivi a decifrare il calcolo ordinato dietro l’apparente contraddittorietà dei particolari, e a riconoscere quell’istanza di superiore controllo che nulla ha lasciato al caso. Qualcuno, in alto, ha lanciato il rezzàglio, la rete da pesca. E ha tirato su il bottino che gli premeva. «Ittari nna rizzagghiata», dicono i vecchi dizionari fraseologici del dialetto siciliano, significa «non lasciar uscir di mano nulla, né perdere occasione alcuna di qual si voglia poca importanza ch’ella si sia». La verità è confezionabile, come qualsiasi menzogna. La verità autentica trova spazio solo nell’utopia fantascientifica della letteratura. Nell’ipotesi di un soggetto cinematografico, per un possibile film da intitolare Girotondo attorno a un cadavere. L’autore del «soggetto» è però un «fituso» informatore, capace d’inventare romanzi sull’attualità, per poi spacciarli come «verità di vangelo». E pretende, addirittura, di vendere le sue fantasie all’artefice mafioso della «rizzagliata» politica. Il «fituso» scompare nella notte. Tocca a Camilleri riscattare il soggetto romanzesco, gettare a spaglio la propria rete, e fare la Rizzagliata: il romanzo suo più nero, che ora esce in Italia, dopo il successo raccolto in Spagna con il titolo La muerte de Amalia Sacerdote.
Salvatore Silvano Nigro
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009).
Nelly Boxall, la cuoca di Virginia Woolf, non ebbe mai una stanza tutta per sé; dovette condividerla per anni con la cameriera Lottie, peraltro sua amica. Il diritto ad averla quella stanza, - che la Woolf, pubblicando "Una stanza tutta per sé", eresse a condizione essenziale per una donna intellettualmente emancipata - è pervicacemente negato alle sue domestiche. Ma questa è solo una delle contraddizioni che segnano il lungo e tormentoso rapporto di Nelly con la sua signora, raccontato in questo libro di Alicia Giménez-Bartlett. La Bartlett racconta di come si sia appassionata alla vicenda di Nelly e di casa Woolf e, al resoconto delle sue ricerche sull'Inghilterra dell'epoca, alterna il racconto della cuoca così come viene fuori dalle pagine del giornale intimo che Nelly tenne per 18 anni (il tempo che rimase al servizio della scrittrice), riordinato e riempito grazie alla lettura comparata dei due diari, quello della cameriera e quello della signora.
Alla morte del padre, il protagonista-scrittore ritorna al paese natale. Atterrato all'aeroporto di Catania, prende la strada per raggiungere Mineo. E se il territorio attraversato dal narratore quello reale, pure è trasfigurato in un alternarsi di boschi e valli animati da una moltitudine di uccelli e da una vegetazione fitta di erbe e alberi rari. Ecco che allora il viaggio si trasfigura in un pellegrinaggio fantastico: radunatisi sull'altura del castello che sovrasta il paese, amici, parenti, maghi al chiarore della luna si mettono alla ricerca del "tanatouccello" l'umano-animale in cui sono trasmigrati i simulacri del padre. Diviso il territorio in cinque settori, le squadre si mettono al lavoro e su consiglio di alcuni dotti del paese si tenta l'esperimento di innestare un corpo umano, quello del piccolo Diofar, nella corteccia di un albero per stabilire una corrispondenza con l'uccello. Ma l'impresa fallisce mentre la madre del piccolo, Aramea, disperata corre nel bosco sino a dissolversi ai piedi un carrubo.
Siamo alla fine del Settecento. Barbara della nobile casata dei Grebe, sposa il borghese Edmund Willows, conquistata dalla sua straordinaria bellezza. È quella, e solo quella, ad accendere la passione della giovane donna. Poco dopo le nozze il marito parte per un viaggio in Europa e Barbara, per ricordarsi delle fattezze splendide fa eseguire un ritratto marmoreo del marito per tenere desta la sua passione. Mentre è sulla via del ritorno Edmund rimane orribilmente sfigurato in un incendio scoppiato a Venezia. Torna a casa con il viso protetto da una maschera di seta ma Barbara non regge alla vista di quella deformazione: il suo grido di orrore allontana il marito per sempre. A questo punto entra in scena Lord Uplandtower che riesce a sposare Barbara convinto di riuscire a farle dimenticare il bellissimo Edmund. Ma si sbaglia: Barbara è come presa da un'ossessione; notte dopo notte la statua del primo marito riceve gli abbracci di colei che non è più sua moglie. Quella follia è, secondo Lord Uplandtower, un autentico adulterio e con un colpo di teatro degno del grande sadico quale egli è, fa confezionare a sua volta, come l'anonimo scultore che a Pisa aveva riprodotto con tanta verosimiglianza il corpo di Willowes, una copia conforme di quel corpo violato dal fuoco, costringendo Barbara a contemplare la statua sfigurata.
"È difficile dalla letteratura italiana moderna e contemporanea ritagliare, sia pure in antologia di non rilevante volume, una letteratura delle istituzioni. Che cosa è il Parlamento, che cosa una prefettura, un ufficio di polizia, un consorzio agrario, un ente di assistenza, una capitaneria di porto, uno stato maggiore, e così via, si ha l'impressione che soltanto la letteratura italiana ne abbia mancato la rappresentazione. Tanto vero che indelebili ci restano le eccezioni a questa regola: il Parlamento dell'Imperio di De Roberto, la questura di Roma di Carlo Emilio Gadda, l'Eca di Palermo di Matteo Collura... Questo libro di Luisa Adorno racconta che cosa è una prefettura, che cosa è un prefetto. E lo racconta con una vivacità, un'ironia, un brio da far pensare a certe pagine di Brancati." Leonardo Sciascia (1983)
Ritornano i personaggi di "Protezione", il primo giallo della serie di Bill James pubblicato in Italia accolto subito come un maestro. L'ambiente è ancora una volta quello di un commissariato di polizia inglese dove agenti non sempre "immacolati" - non mancano i deboli, gli infiltrati, i corrotti - si mescolano a capi dalla dubbia condotta. Il tutto complicato dai rapporti tra loro, le loro mogli, e i tanti che si muovono al confine tra malavita e persone per bene. Questa volta al centro della vicenda è Sarah, la moglie dell'Assistente Commissario Capo Desmond Iles. Una sera Sarah si trova al Monty, il malfamato locale del barone della droga Ralph Ember, quando vi giunge trafelato un giovane molto elegante che subito si accascia sul pavimento, evidentemente ferito. È proprio Sarah ad ascoltare le ultime, incomprensibili parole del ragazzo, prima che Ralph spenga la luce permettendo ai sopraggiunti inseguitori di completare la loro opera. Sarah vorrebbe vederci chiaro, ma non può certo raccontare l'accaduto al marito Desmond, dato che quella sera al Monty si trovava in compagnia dell'amante Ian Aston, anche lui in polizia.
Prima di morire i gabbiani agitano freneticamente le ali in una sorta di danza macabra. Montalbano si lascia incantare dal gabbiano morente dalla finestra della sua casa di Marinella, ma fa presto a dimenticarlo. Sta infatti per andare in vacanza con Livia che è già giunta a Vigàta. Solo un salto al commissariato per lasciare tutto in ordine e poi finalmente partire. Giunto in ufficio Montalbano chiama i suoi a raccolta. Manca solo Fazio, il più fedele e puntuale dei suoi uomini. Non è tornato a casa, il cellulare è muto; il timore diventa allarme. Il commissario ripercorre le più recenti tracce di Fazio: è stato visto per l'ultima volta al molo, aveva appuntamento con un vecchio compagno di scuola, un ex ballerino finito nei pasticci. Qualcuno poi l'ha notato in campagna, in una zona disseminata di pozzi artesiani, forse un cimitero di mafia. E in effetti un primo cadavere affiora.
La detective che narra in prima persona la sua inchiesta è un travestito, giovane, benestante, di successo, passabilmente felice. Di giorno progetta sistemi antihacker per i computer di ditte importanti, di notte dirige un suo club, nel cuore di Bodrum, il quartiere della vita notturna di Istanbul. Un mattino, una delle ragazze, la più elegante e ricercata del suo club, viene a trovarla e sconvolta le rivela il pasticcio in cui s'è infilata. Un uomo potente, che non può essere compromesso in nessun modo, teme lo scandalo e la minaccia: e chi potrebbe aiutare una come lei? La ragazza nei guai si chiama Buse, che significa "bacio" e, prevedibilmente, dopo quella disperata richiesta è scomparsa. L'amica inizia a cercarla, presto scopre che Buse è stata uccisa, e a spingerla a improvvisarsi detective sono le circostanze, ovvero l'indifferenza della polizia e la caccia che aprono contro di lei certe organizzazioni, criminali e di nazionalisti tradizionalisti. Da questo momento inizia per il lettore un itinerario alla Maigret negli interni di un'umanità varia, nel loro piccolo tran tran e nei divertimenti, nelle confessioni e nei loro sogni: l'umanità parallela, a suo modo integrata, dei travestiti e degli omosessuali di una grande e intricata Istanbul.

