Questa opera si sostantiva in una critica radicale della Riforma, in realtà controriforma secondo l'autore, della Scuola del Ministro Mariastella Gelmini. La vivace forza polemica delle argomentazioni potrebbe fare pensare a un esplicito intento politicamente suggerito dall'attualità. In realtà, il discorso di Frabboni si richiama, anche se non in modo esplicito, a una tradizione culturale italiana e non solo, definita dall'obiettivo, da sempre perseguito, di una didattica laica in senso integrale, dunque libera da condizionamenti di qualsiasi natura. Il Programma Ministeriale di fatto, secondo Frabboni, vilipende l'istruzione perché la imprigiona in steccati scuolacentrici, famiglia-centrici, disciplinacentrici, contraddicendo la modernità delle conoscenze e il pluralismo delle culture e dei valori propri di una scuola democratica. Il sapere trasmesso dalla scuola voluta dalla Gelmini è sostanzialmente destinato a consumarsi nell'orizzonte della istituzione scolastica. È inidoneo a una "manutenzione" adulta. È fatto da un insieme di conoscenze "usa e getta" che minacciano lo spettro di un analfabetismo di ritorno. In sostanza, la Riforma, imposta dalla Gelmini senza consultare gli interessati, disegna una scuola autoritaria, selettiva, ripetitiva. Non è finalizzata a educare alla libertà, alla tolleranza, alla solidarietà, alla pace. Fatto reso ancora più grave dalla cultura massmediologica che esclude i giovani da una partecipazione reale.
Petra, il poliziotto più duro ed efficiente del distretto di Barcellona, s'è sposata, e contrasta la maliziosa innocenza dei figli del marito Marcos. Anche il vice Garzón s'è sposato, ma lui si sente oppresso dalle infinite attenzioni dell'impeccabile moglie. Perciò, giunge loro come un sollievo amaro questo caso. Un omicidio nel convento delle sorelle del Cuore Immacolato, reso ancor più scabroso dalle modalità in cui sembra avvenuto. Il cadavere di frate Cristóbal dello Spirito Santo è stato ritrovato accanto alla teca che custodiva il Beato Asercio de Montcada. E il corpo sacro, miracolosamente incorrotto, intorno al quale, da esperto di reliquie, lavorava l'erudito cistercense, è scomparso. A intorbidare le piste, deviandole al soprannaturale, vi è poi un enigmatico biglietto: "cercatemi dove più non posso stare". Davanti a Petra e a Garzón si squaderna un ventaglio contraddittorio di ipotesi fantasiose che devono malvolentieri verificare, in un ambiente odoroso di incenso ma alquanto reticente. E sono perfino tentati da una tecnica d'indagine deduttiva che è loro estranea. Ma presto il realismo s'impone: "faccio fatica a credere a ciò che esula dalla mentalità comune", e la coriacea detective e il suo aiutante dai modi spicci e dalle mille fisime, riprendono il metodo abituale, faticoso e di strada.
Un uomo sulla soglia dei settant'anni confessa il proprio stato d'animo di fronte al mondo. Lo fa in soliloqui mentre percorre ossessivamente, quasi in un incubo di ripetizione, le strade della sua città, diventata - com'è ricorrente rappresentazione della città della narrativa di Ferriera - una sorta di non luogo imprevedibile e carico di eventi casuali e inspiegabili, comici o disperati, affettuosi o violenti, indifferentemente. Il suo andare è cadenzato da ripetute cadute, un fastidioso continuo inciampare dei passi incerti che fa irrompere il protagonista, osservatore soggettivo, perentoriamente dentro i fatti cui assiste, trasformandolo da narratore a personaggio narrato. I suoi sono pensieri brevi, interrogano dubbiosamente su fatti e situazioni comuni, oppure narrano insignificanti avvenimenti che improvvisamente virano nell'emblematico: in parte considerazioni di un'ispida e incerta saggezza, in parte espressioni di smarrimento infantile, in parte disperate nostalgie e rimproveri al passare del tempo o scintille di speranza nel futuro; in parte sogni, visioni, forse deliri. E in ognuno di essi si sente riecheggiare in effetti la recita dell'assurdo di un grande uomo di teatro, come in un ultimo nastro.
"L'adolescente Giurlà è un mandriano di capre. Proviene dalla costa. È un ottimo nuotatore, e ha rischiato di diventare un altro Cola Pesce. Ha sfiorato pure il pericolo della deportazione nelle terre calve: poteva diventare un caruso, un nuovo (pirandelliano) Ciàula negli antri infernali e nelle tenebre di una zolfara. Come guardiano di armenti, sugli altopiani, poteva toccargli in sorte il destino di solitudine di Jeli il pastore. Giurlà approda invece in una prateria. Si immerge e galleggia nell'erba, o nelle acque sciapide di un lago, ora. Sente l'allarme dei sensi. E cerca calore nel pelliccione di una capra, tra una musata e una sgroppata. La capra, Beba, è solitaria: ostinata e fedele; oltre che di permalosa gelosia. Sa battere gli zoccoli, al momento opportuno, e imporsi, dopo i lagni di un belare querulo e dolente. Beba è ferina e misteriosamente umana. Sa amare e farsi amare. Giurlà è un amante che non sopporta la distanza; e neppure l'attesa. La favola della capra-donna è di nuda tenerezza; assai diversa dalla cronaca della continuata violenza, che "armàli" più grossi dei becchi consumano intanto su una innocente "pupa" fatta di carne. Beba è diversamente innocente, pur nella sua selvaggia rustichezza". (Salvatore Silvano Nigro)
Roma, 9 settembre 1944. Al Teatro Valle si spengono le luci di scena del varietà satirico intitolato al destriero bianco di Mussolini: "Il suo cavallo", per l'appunto. Nella città da poco liberata, lo spettacolo va alla meno peggio. Sembra però che il pubblico "continui a divertirsi molto alla imitazione di Mussolini fatta da Campanini". È Steno che, con la collaborazione di Castellani, Soldati e Longanesi, ha messo su lo spettacolo. Soldati si rivolge agli amici e, quasi per sfida, annuncia che parte come inviato speciale per il fronte: sulle piste degli Alleati e del Corpo Italiano di Liberazione; là dove si combatte contro le truppe tedesche che, tra varie atrocità, continuano a occupare il paese, lontano da una capitale che sgangheratamente ride della sua recente pagliacciata storica e intanto crede di emanciparsi parlando un italiano lubrificato dallo slang degli Alleati. Le corrispondenze di guerra, scritte per l'"Avanti!" e per "l'Unità", edite e inedite, in parte raccolte dallo stesso Soldati ma mai date in volume, sono il necessario complemento del libretto "Fuga in Italia", pubblicato nel 1947: il libro edito racconta "una disavventura picaresca ed antieroica", una prima "fuga" da Roma, nel generale sbandamento succeduto all'armistizio fra l'Italia e gli angloamericani, e alla dispersione dell'esercito italiano; questo libro inedito è una seconda "fuga" da Roma, nel "tentativo di trovare un'anima eroica alla rinascente Italia".
Martin Beck, il commissario della polizia di Stoccolma, è chiamato a indagare sulla scomparsa di un uomo. Alf Matsson è sparito senza lasciare tracce. È, o era, un giornalista di successo: brutto personaggio, alcolista e attaccabrighe, nessuno rimpiangerebbe la sua presenza o si meraviglierebbe che stesse smaltendo la sbornia in qualche tana. Ma il direttore del giornale dove lavora minaccia un caso internazionale perché l'ultima volta è stato localizzato a Budapest, oltrecortina, ed è lì che Matsson sembra essere svanito. Perciò Beck è convocato in via riservata proprio mentre è in procinto di partire per le vacanze estive, per raggiungere moglie e figli. Il commissario, che rifiuta per metodo ogni ipotesi preconcetta e ogni partito preso, segue due piste diverse e successive, serpeggianti dentro il sottomondo frequentato dal giornalista (un gruppo di colleghi compagni di bevute e fracassoni, e un terzetto equivoco di trafficanti), prima a Budapest e poi di ritorno in Svezia. Si lascia prendere dalla solita routine del suo metodico lavoro di squadra, con un poliziotto ungherese, Vilmos Szluka, con cui scatta una silenziosa simpatia, e con il collega e amico fraterno Kollberg, intelligente ipercritico e lamentoso. Alla fine è la cura dei dettagli, il passare e ripassare i particolari, a farlo inciampare nell'indizio che smentisce tutti gli altri e guida a una soluzione, sul caso dell'uomo in fumo, come sempre, tutt'altro che romantica o clamorosa.
Nella notte del 4 ottobre 1957 Radio Mosca annunziava il lancio in orbita del primo satellite artificiale: lo Sputnik, letteralmente "compagno di viaggio". Si dava così inizio all'era spaziale, spalancando all'uomo le porte del cosmo. Dal 1957 sono stati fatti progressi incredibili, previsti solo dai romanzi di fantascienza. L'astronauta Umberto Guidoni, che ha partecipato a ben due spedizioni con lo Space Shuttle ed è stato il primo europeo a salire a bordo della Stazione spaziale internazionale, racconta l'avventura dell'uomo nello spazio, dalla fase pionieristica a quella odierna, attraverso i numerosi successi ma, anche, le tragedie che hanno segnato il progresso dell'astronautica. Ha scritto Tsiolkowsky - il padre dell'astronautica, il primo che ha pensato a utilizzare razzi per avventurarsi nello spazio - "la Terra è la culla dell'umanità, ma non si può vivere tutta la vita in una culla". Oggi, effettivamente, si è molto vicini alla possibilità di abbandonare la Terra. Ma la tecnologia spaziale se può condurci a vivere su altri mondi potrebbe aiutarci anche in altri settori, ad esempio nella ricerca di nuove forme di generazione dell'energia.
Anne, da tempo non ha notizie di Gyl a cui è stata a lungo legata; decide di andarlo a cercare in Siberia là dove se ne sono perse le tracce. Viaggiando sulla Transiberiana si interroga a proposito dell'uomo che, invece di rinunziare alle utopie alle quali avevano creduto insieme, se ne è andato per costruire un nuovo mondo ideale. Mentre il treno corre lungo la campagna russa Anne osserva ciò che la circonda, ma soprattutto lascia vagabondare i suoi pensieri che ritornano sempre a Clémence, una anziana modista che abita nel suo palazzo e di cui è diventata amica. Due volte la settimana Anne scende la rampa di scale che le divide per tenerle compagnia sul canapé rosso e leggerle storie di donne che entrambe amano per la loro insolenza, il coraggio, talvolta l'allegra spavalderia, spesso il loro tragico destino. Olympe de Gouges, l'autrice della "Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina", o Marion du Faouët che alla testa di una banda di briganti rubava ai ricchi per dare ai poveri o Milena Jesenská che traversava a nuoto la gelida Moldava per non mancare all'appuntamento con il suo amante. Sono storie che si intrecciano con i racconti della vita di Clémence: la Parigi degli anni Quaranta, la Resistenza, un amore travolto dalla guerra. Nello specchio che Clémence le tende dal suo canapé rosso Anne trova i motivi che l'hanno trascinata così lontano, ma anche le ragioni per continuare a vivere.
Nella malinconica allegria di "A Roma con Bubù", Gian Carlo Fusco racconta della sua grande amicizia maschile, della reciproca infatuazione per il cantante marsigliese Rick Rolando che militò nella Legione straniera. Da qui i quattro articoli del 1961 sulla Legione straniera raccolti in questo volume. Quasi tutto, di questo scrittore irregolare ed estroverso, porta infatti il segno della testimonianza vissuta: e anche in questa storia della Legione, a tratti sembra emergere il segno del ricordo personale (mutuato evidentemente dall'esperienza dell'amico). Più che una storia è una rievocazione, finalizzata a spogliare il mito romantico dominante, ricca di aneddoti e ritratti, di episodi curiosi e paradossi viventi. Un movimento che corre rapido dalla presentazione del cliché, immortalato nel cinema con la faccia di Jean Gabin, alla sua distruzione. Vi sono gli eroi, e i retroscena taciuti di essi; le campagne militari e la vita quotidiana fatta di stenti e degradanti punizioni; i miti e i grandi orrori del colonialismo; le tradizioni e le viltà nascoste. Volano come una scorribanda dentro un'unica avventura, in quello stile scintillante e fragoroso di colui che è considerato il più grande narratore orale del dopoguerra, ma che resta ammorbidito nella spontanea, coinvolgente simpatia per tutto ciò, uomini e cose, di cui narra.
La vita e le avventure del più famoso cavaliere della Tavola Rotonda. Figlio del Re Ban e della regina Elena, Lancillotto viene rapito dalla donna del lago subito dopo la morte del padre in battaglia. A causa di un incantesimo del mago Merlino, la fata abitava nelle profondità di uno specchio d'acqua; proprio nel punto più profondo c'era un castello sfarzoso. Lì visse Lancillotto una infanzia spensierata e felice con i cugini Lionello e Bohor: la donna del lago lo allevò come una madre e con l'aiuto di precettori lo istruì ai dettami della cavalleria. Ma giunge il tempo in cui Lancillotto vuole andar via per farsi cavaliere di quella Tavola Rotonda di cui ha sentito favoleggiare. Raggiunta Camelot Lancillotto diventa il più fedele servitore del Re Artù. Poi, favorito dall'amico Galehault, l'innamoramento per la regina Ginevra, colei per la quale combatterà draghi, maghi e traditori, che lo ispirerà in ogni azione valorosa.