Celebre soprattutto come storico per le sua "Vite parallele", in cui narra le vicende biografiche di un famoso personaggio greco e di uno romano a confronto, Plutarco è stato anche un uomo di profonda cultura, grande appassionato e studioso di filosofia oltre che abile diplomatico, un politico perfettamente a proprio agio alla corte imperiale romana come nelle native polis elleniche. E nei suoi scritti ha lasciato una miriade di preziose osservazioni sull'arte di negoziare, dì mediare, di sedare i conflitti cercando una soluzione condivisa. Consigli utili nel I secolo come oggi, nei grandi scenari internazionali e nelle mille piccole tensioni della vita quotidiana.
Plutarco noto soprattutto per le sue biografie comparate di celebri personaggi greci e romani, ha esercitato un profondo influsso sull'origine e lo sviluppo della saggistica, della letteratura biografica e della storiografia. Questo secondo volume presenta le biografie di Solone, Nicia e Crasso, Lisandro e Silla, Demetrio e Antonio. Oltre alla traduzione italiana con testo greco a fronte, il volume comprende articolate introduzioni a ogni singola Vita.
Le Vite che Plutarco ha dedicato a Lisandro e a Silla non sono meno straordinarie di quelle di Demetrio e di Antonio, che la Fondazione Valla ha pubblicato due anni or sono, nell'edizione critica a cura di Mario Manfredini. Lisandro è il generale volpe, che anticipa la frase famosa di Machiavelli: "dove non arriva la pelle di leone, bisogna cucirvi sopra quella della volpe". Plutarco è affascinato dalla sua cautela e dalla sua astuzia: non ama l'orgoglio eccessivo, l'alterigia, il culto di sé, che lo colgono nella vecchiaia, quando viene accecato dalla hybris: ironizza sulle sue tarde macchinazioni, quando tenta di avere dalla sua, con l'inganno, il soccorso di Apollo; e nulla lo commuove quanto il momento in cui gli Spartani e gli alleati decidono di radere al suolo Atene. Un Focese intona per caso dei versi di Euripide, e tutti sono presi dalla compassione, e comprendono quanto sia assurdo distruggere una città che ha dato i natali a uomini così meravigliosi.
Per Plutarco, Silla è un groviglio di contraddizioni, come Antonio e Alcibiade. Nessun carattere gli sembra più incoerente. Quest'uomo devoto ai segni divini e che ostenta la protezione del cielo, viola i santuari degli dei; quest'uomo che ama la vita lieta, che si circonda di mimi e di buffoni e coltiva i motti di spirito, finisce la sua esistenza come uno dei più sinistri e tenebrosi tiranni dell'umanità - proscrivendo, assassinando, massacrando -, e il timorato Plutarco racconta con atroce impassibilità i suoi ultimi anni di sangue e di abominazione. Siila muore infestato dai vermi, putrefacendosi - e questa morte sembra un contrappasso agli orrori della sua vita.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole genealogiche
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Lisandro
La vita di Silla
Confronto fra Lisandro e Siila
Scolî
COMMENTO
La vita di Lisandro
La vita di Silla
Confronto fra Lisandro e Silla
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
I. La "Vita di Lisandro". Quella di Lisandro è senza dubbio una biografia poco unitaria, perché contiene testimonianze e apprezzamenti sull'operato del protagonista singolarmente contraddittori. Sulla base di dati oggettivi, Plutarco da una valutazione quasi sempre positiva delle imprese compiute da Lisandro: se, per un verso, presenta la vittoria da lui conseguita a Nozio nel 407/6 quale evento di portata limitata, reso celebre solo dal fatto che segnò la fine della carriera politico-militare di Alcibiade (5,4), per un altro verso non esita a esaltare quella di Egospotami del settembre del 405, una battaglia ritenuta "opera degli dei" (11,13). Allora l'abilità strategica di un solo uomo, di Lisandro, pose finalmente termine all'annosa guerra del Peloponneso; un conflitto che aveva suscitato molti scontri, continui capovolgimenti di situazioni, e causato la perdita di così numerosi eserciti come non si era mai verificato in passato (11,11-2.). Plutarco giudica con approvazione soprattutto la popolarità acquisita da Lisandro fra tutti i Greci, inclusi quelli delle isole egee e dell'Asia Minore, che vedevano con favore i mutamenti da lui operati. Questi plaudivano al fatto che egli aveva restituito l'isola agli Egineti e riportato in patria i Meli e gli Scionei, dopo averli liberati dagli Ateniesi (14,4). A tale proposito lo scrittore riferisce, sull'autorità di Duride di Samo, che in onore di Lisandro, primo fra gli Elleni, le città (della Ionia) eressero altari quasi fosse un dio, fecero sacrifici, intonarono peani e i Sami decretarono nell'agosto del 404 di mutare in Lisandrie il nome delle feste di Era, che si celebravano presso di loro (18,5-6).
Nel corso della Vita, Plutarco elogia Lisandro: lo apprezza perché fu sempre rispettoso, come pochi, dei costumi della patria e si mostrò superiore a qualunque piacere, se si esclude quello che le nobili imprese procurano a chi le compie con onore e successo (2-,i). Anche l'ambizione e la brama di superare gli altri non erano connaturate in lui; derivavano piuttosto dalla sua educazione laconica. Per indole era portato, invece, a essere ossequioso verso i potenti più di quanto non fosse nelle abitudini spartane e tollerava di buon grado il peso opprimente della loro autorità, qualora gli fosse sembrato necessario: dote questa di perizia politica -conclude Plutarco (2-,4) - ritenuta da alcuni di certo non secondaria. Nato povero, sopportò sempre con dignità la miseria, non lasciandosi mai allettare né corrompere dal denaro. Benché dopo la guerra del Peloponneso avesse riversato in Sparta grandi quantità d'oro e d'argento, contribuendo così a privarla di quell'ammirazione di cui andava fiera per il sommo disprezzo delle ricchezze, non tenne per sé neppure una dracma. E la morte, che rivelò appieno la povertà di Lisandro, rese ancora più fulgida la fama della sua virtù: delle tante sostanze acquisite, del prestigio raggiunto, dell'ossequio tributategli dalle città e da Ciro il Giovane, egli non approfittò minimamente per ingrandire e arricchire la propria casa.
Tuttavia, in ossequio a un principio altrove enunciato, Plutarco non omette di enumerare i difetti e gli aspetti negativi del carattere del suo "eroe". Lisandro innalzava a importanti incarichi, a onori, a comandi militari quanti erano già suoi amici ed erano a lui legati da vincoli di ospitalità, rendendosi anche complice di ingiustizie e malefatte, pur di soddisfare la loro ambizione (5,6). Abolì i governi democratici o di qualsiasi altro tipo, inviando dappertutto armosti e istituendo commissioni formate da un collegio di dieci individui di provata fede oligarchica. Così operando, non faceva distinzione fra città nemiche e città alleate di Sparta, avendo come fine solo quello di procacciarsi un potere personale. Nella scelta dei magistrati non badava né alla loro nobiltà né al loro censo: favoriva nelle cariche chi era a lui devoto, conferendogli l'autorità di premiare o di punire ad arbitrio. Assistendo di persona a numerosi massacri e aiutando gli amici a sbarazzarsi degli avversari, non fornì certo ai Greci un esempio edificante dell'egemonia spartana (13,5-7). Nel settembre del 404 privò gli Ateniesi della libertà, consegnando la loro città nelle mani dei Trenta Tiranni; inoltre si rese forse corresponsabile dell'uccisione di Alcibiade. Lisandro era intollerante, incapace di portare il giogo impostogli in patria e insofferente dei comandi altrui (2-0,8). Era caustico nell'eloquio e incuteva timore a quanti lo contraddicevano. Agli Argivi, che una volta discutevano su questioni relative al loro territorio e sostenevano di avere ragioni più valide di quelle dei Lacedemoni, Lisandro, mostrando la spada, disse: "Chi impugna questa possiede gli argomenti migliori in materia di confini". Furente contro l'ingrato Agesilao, la cui ascesa al trono aveva favorito, decise di attuare senza ulteriori rinvii un progetto volto a capovolgere e a innovare la costituzione di Sparta. Meditò di togliere potere alle due case regnanti, agli Euripontidi e agli Agiadi, rendendo la monarchia accessibile non solo a tutti gli Eraclidi, ma anche a tutti gli Spartiati. In tal modo, il trono non sarebbe stato più appannaggio dei soli discendenti di Eracle, ma di quanti per virtù fossero ritenuti simili a questo eroe, innalzato agli onori divini per i suoi meriti. Ovviamente Lisandro sperava che, se il regno fosse stato assegnato in questa maniera, sarebbe toccato a lui.
Tra i molti segreti di uno scrittore complicatissimo come Plutarco, forse il più straordinario è questo. Plutarco vide in Demetrio e in Antonio due genti del male: o almeno due esseri accecati dalla propria arroganza e dalla propria hybris. Eppure nessuna Vita è scritta con partecipazione più calda e simpatia più intensa di quella dedicata ad Antonio, che per genio psicologico e talento drammatico costituisce il capolavoro di Plutarco, degno dell'altro capolavoro che ne trasse Shakespeare. Demetrio e Antonio vissero entrambi sotto il segno di Dioniso; e questa vocazione dionisiaca svela probabilmente sia l'avversione sia la nascosta partecipazione di Plutarco, devoto ad Apollo, il dio amico-nemico di Dioniso. "La vita di Demetrio" ci trasporta nel mondo dei successori di Alessandro, all'epoca in cui la Grecia sta ellenizzando l'Occidente e l'Oriente; Demetrio è visto come un personaggio da teatro, ora comico ora tragico, che affronta vita e morte all'insegna della recitazione e dell'apparenza. Antonio è un personaggio molto più complesso: grande generale, amato come nessuno dai propri soldati, capace in guerra di qualsiasi rinuncia; e gagliardo bevitore, cialtrone, spaccone. Il momento culminante della sua vita è l'incontro con Cleopatra. La scena in cui la regina egizia risale il Cidno sul battello dalla poppa d'oro, le vele di porpora spiegate al vento; la conversazione brillantissima della giovane sovrana; l'amore che stringe i due in un nodo fatale; l'annuncio da parte di entrambi di un'Età dell'Oro che seguirà al loro connubio; la sconfitta di Antonio e Cleopatra davanti a Ottaviano; la fuga e la solitudine di Antonio; i loro ultimi giorni, quando furono uditi strumenti e grida di una turba che inneggiava a Dioniso, e gli Alessandrini pensarono che "il dio più imitato ed eguagliato da Antonio per tutta la vita lo abbandonasse" - tutto ciò fa parte delle pagine più eccelse della storiografia di ogni tempo.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Demetrio
La vita di Antonio
Confronto fra Demetrio e Antonio
Scolî
COMMENTO
La vita di Demetrio
La vita di Antonio
Confronto fra Demetrio e Antonio
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Le "Vite di Demetrio e di Antonio" si distinguono, fra le altre biografie plutarchee, per vari motivi: per la loro estensione, perché l'abbinamento e il confronto fra i due personaggi risulta felice come poche altre volte, perché, infine, entrambi i protagonisti hanno, a giudizio dell'autore, un carattere "negativo", contrariamente a quello "esemplare" della maggior parte degli altri. Quanto poi alla "Vita di Antonio", essa è singolare anche perché è praticamente la biografia di una coppia, avendo Cleopatra quasi altrettanto rilievo: anzi, i capitoli 78-87 non riguardano più Antonio, ma gli ultimi giorni della regina d'Egitto.
Ci sono, naturalmente, temi comuni alle due Vite, quello fondamentale riguarda il ruolo della fortuna e la sua mutevolezza. Un altro importante carattere comune è la "teatralità", sia nel senso che i personaggi sono costruiti come eroi di tragedia, sia nel senso che frequenti sono le metafore e i richiami al teatro e alle sue scenografie. Ci sono poi punti di contatto specifici, da cui sembra emergere anche uno schema strutturale comune.
1. La "Vita di Demetrio". Il personaggio di Demetrio Poliorcete è costruito da Plutarco attraverso un'abile alternanza di luci e ombre, dal cui contrasto scaturisce una figura sostanzialmente condannabile, ma complessa e articolata. La presentazione di Demetrio, dopo alcune notizie sulla sua famiglia, è affidata a un ampio ritratto fisico e psicologico in cui qualità e difetti sono contrapposti: dalla bellezza fisica emanava leggiadria e terribilità così come il suo carattere era tale da sedurre e atterrire; il suo modello divino era Dioniso, il più terribile degli dèi ma anche il più disposto a tutte le forme di piacere. È subito posta di fronte al lettore una figura tale da esemplificare il tema delle grandi nature, che eccellono, ma in modo ambiguo, sia nel bene sia nel male. Ma non si tratta, in questo caso, di un personaggio visto soltanto nel contrasto di vizi e virtù, quale emerge dai due ritratti di Demetrio presentati da Diodoro e risalenti a Ieronimo di Cardia: Plutarco combina in modo originale i lineamenti che desume dalla sua fonte, li arricchisce e ne fa il punto di partenza per uno schema biografico chiaramente involutivo.
Il Demetrio di Plutarco appare, all'inizio della sua attività pubblica, dotato di qualità positive: alla bellezza e alla dignità regale, alla piacevolezza della compagnia e alla raffinatezza, al valore militare, si aggiungono una straordinaria pietà filiale, bontà d'animo e senso dell'amicizia, tanto che il biografo lo giudica naturalmente disposto all'equità e alla giustizia. A ciò Plutarco accompagna, attraverso tutta la biografia, la costante sottolineatura della fermezza indomita con cui Demetrio sapeva reagire ai colpi della sorte. Ma a queste note positive già la prima parte della biografia contrappone difetti (l'intemperanza e la propensione eccessiva ai piaceri amorosi) che andranno, dapprima gradatamente poi sempre più gravemente, corrompendo la sua natura, fino a renderlo preda di passioni sfrenate (non solo l'amore ma anche l'ambizione, la superbia e la sete di potere) e a farlo precipitare in una fine indecorosa, abbrutito dall'ubriachezza indolente della prigionia. In questo schema involutivo gioca, per Plutarco, un ruolo decisivo l'adulazione degli Ateniesi. Sicché, quelle che potevano apparire ombre di un ritratto contrastato, assumono un peso sempre più grave a causa della sua dismisura, che lo fa cadere nell'empietà e nell'ingiustizia.
Le tappe fondamentali dell'involuzione del carattere di Demetrio sono, secondo Plutarco, prodotte dal deleterio influsso dell'adulazione - fattore cui il biografo riconosce un ruolo di primo piano nel clima politico ellenistico, tanto che "adulatori" sono qualificati normalmente i personaggi più vicini ai diadochi - sui difetti del personaggio, fondamentalmente riassumibili nell'avidità illimitata di potere. Anche se il profondo deterioramento morale e politico provocato da quest'ambizione è caratteristica di tutti i diadochi, Plutarco si preoccupa di segnalarne puntigliosamente l'effetto in particolare sul suo protagonista.
Come un grande drammaturgo, Plutarco rievoca, sullo sfondo delle "Vite di Nicia e di Crasso", i personaggi principali che in quei tempi vissero ad Atene e a Roma: Pericle, Cleone e Alcibiade, Silla, Pompeo e Cesare. Davanti ad essi, Nicia e Crasso sono personaggi minori: entrambi prudenti, amabili e moderati. Nicia tende a nascondersi, mentre alla fine Crasso viene travolto dall'avidità e dall'euforia. Ma nessuno dei due possiede l'energia, la determinazione, la forza che permettono a un uomo di interpretare il proprio tempo e di simboleggiare un periodo storico.
In queste due Vite, Plutarco rivela il dono capitale del drammaturgo: l'amore per il disastro. La follia collettiva che sconvolge Atene e la conduce alla guerra del Peloponneso, il massacro in Sicilia della spedizione guidata da Nicia, il crollo della civiltà ateniese. I segni infausti che accompagnano la spedizione romana in Oriente, il fascino e le insidie del mondo iranico, la sinistra e scurrile mascherata alla corte dei Parti, dove un doppio in vesti femminili impersona Crasso, compaiono le cortigiane, vengono recitate le "Baccanti" di Euripide, mentre la testa del generale romano viene gettata nella sala del banchetto...
Leggendo le due Vite qualcuno si chiederà cosa Tucidide e Shakespeare avrebbero pensato di pagine così straordinarie, capaci di rivaleggiare con la grandiosa obiettività dell'uno e la fantasia visionaria dell'altro.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Grasso
Scolî
COMMENTO
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Crasso
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La "Vita di Nicia". In questa biografia è a prima vista percepibile un tratto che la distingue, insieme con poche altre, nel corpus cui appartiene: la ricostruzione della personalità del protagonista non ha le evidenti contraddizioni che, per esempio, si riscontrano nella "Vita di Cìmone". Al primo capitolo, dedicato alla rassegna dei principi metodologici, segue la descrizione del carattere del protagonista, che fluisce ininterrottamente, sotto forma di notazioni quasi mai marginali, anche in quella parte della Vita dedicata al racconto delle sue gesta. In via preliminare va detto che il ritratto di Nicia risulta nient'affatto elogiativo, perché il suo comportamento appare sempre permeato di viltà, di cautela che sconfina nel timore e di superstizione. Plutarco sostiene che Nicia era per natura privo di coraggio e pessimista; in guerra la sua pusillanimità veniva dissimulata dalla fortuna che gli fu propizia in quasi tutte le campagne militari. Nel 425, con un comportamento simile a quello che Dante avrebbe attribuito a Celestino V, Nicia "fece per viltade il gran rifiuto", cedendo all'avversario Cleone il comando dell'impresa di Pilo. E ciò - commenta Plutarco - apparve una vergognosa manifestazione di debolezza, più grave ancora che gettare lo scudo o la clamide in battaglia.
Nicia era costantemente in preda alla paura: per timore dei delatori non pranzava con alcuno dei concittadini, non osava conversare con nessuno, non trascorreva mai le giornate in compagnia di altri; se non aveva affari pubblici da sbrigare, era assai difficile avvicinarlo, perché se ne stava chiuso e rintanato in casa. Non attribuiva mai i suoi successi a prudenza, ad abilità o a virtù personali, bensì alla sorte, e si trincerava dietro l'intervento divino per timore dell'invidia suscitata inevitabilmente dalla fama. Nel 415, non essendo riuscito a dissuadere gli Ateniesi dall'intraprendere la spedizione in Sicilia e posto contro il suo volere a capo dell'armata, Nicia mostrò un'esitazione e un timore sconfinati. Come un fanciullo - nota Plutarco - si volgeva a guardare indietro dall'alto della nave, rimuginando sull'insuccesso dei discorsi da lui pronunziati per evitare la guerra e finendo così con lo scoraggiare i colleghi e spegnere l'ardore dell'impresa. Non c'è da stupirsi che il suo modo di agire offrisse il destro al nemico Ermocrate di esclamare che Nicia era uno stratego veramente ridicolo, in quanto rivolgeva tutti gli sforzi a evitare di combattere, quasi non fosse venuto in Sicilia per questo scopo. Infatti, a furia di calcoli, esitazioni e cautele, finiva con lo sciupare sempre le occasioni propizie. Era facile allo sconforto: battuto dai Siracusani guidati da Gilippo, si lasciò prendere dallo scoraggiamento. Scrisse agli Ateniesi d'inviare in Sicilia un'altra armata oppure di ritirare quella che già c'era; in ogni modo li pregava di esonerarlo dal comando a causa delle cattive condizioni di salute: soffriva terribilmente di "nefrite".
Sulle orme di Tucidide, Plutarco iscrive Nicia nella schiera di quanti temono fortemente gli dèi e sono perciò troppo inclini alle pratiche divinatorie. Quando il 27 agosto 413 si verificò un'eclissi totale di luna proprio mentre gli Ateniesi erano in procinto di lasciare la Sicilia, egli, per ignoranza o superstizione atterrito da quel fenomeno, convinse i suoi uomini a restare per la durata di un'altra lunazione. Così, trascorrendo le giornate a fare sacrifici e a consultare oracoli, rinunziò a una fuga ancora possibile, condannando sé stesso e l'esercito tutto a una sicura sconfitta. E, con una punta di cinismo, Plutarco sostiene altrove che Nicia avrebbe fatto meglio a togliersi la vita, anziché lasciarsi accerchiare per timore dell'ombra prodotta da un'eclissi lunare.
Dotato di straordinari beni di fortuna, non era alieno dal ricorrere alla corruzione: nel 421, conclusa la pace fra Atene e Sparta, con una somma di denaro comprò segretamente il risultato del sorteggio, sicché toccò ai Lacedemoni restituire per primi territori, città conquistate e prigionieri. Ciò che maggiormente viene sottolineato nel corso della Vita è la debolezza di carattere di Nicia: per non combattere contro gli Spartani, consegnò all'inesperienza di Cleone navi, soldati, armi e un comando militare che richiedeva il massimo della competenza, compromettendo non solo il proprio prestigio, ma anche la sicurezza della patria. Infine, nonostante le commoventi parole poste sulla sua bocca, Plutarco sottolinea che, a differenza di Crasso, Nicia si diede in balia dei nemici con il miraggio di una possibile salvezza, procurandosi invece la più ingloriosa delle morti. E quasi a commento, Pausania riferisce che lo stratego ateniese non ebbe il nome inciso sulla stele dei caduti per essersi arreso. Come già Aristofane, Plutarco biasima l'abituale tendenza di Nicia a temporeggiare; ne disapprova la viltà e la debolezza; ne riprova la politica e denunzia il fatto che egli, privo delle qualità di Pericle e della ciarlataneria con cui Cleone compiaceva e insieme controllava il demo, era costretto a cattivarselo per mezzo di spettacoli teatrali, ginnici e altre munificenze.
Qua e là Plutarco è indotto a riconoscere che a Nicia non mancavano doti e qualità, ma lo fa sempre con riserva. Se ne apprezza la moderazione, l'umanità, l'esperienza e l'abilità; se lo presenta come un individuo onesto e saggio che non si lasciò esaltare da speranze nè insuperbire dall'importanza del comando; se ne loda l'astuzia dei piani militari e l'abilità come stratego; se ne ammira l'energia, l'efficacia e la rapidità di movimenti;
Con le "Vite di Cimane e di Lucullo", nel testo critico curato da Mario Manfredini e accompagnato dal ricco commento di Luigi Piccirilli, la Fondazione Lorenzo Valla continua la pubblicazione di tutte le Vite di Plutarco.
Cimone è uno di quei caratteri "minori", che talvolta Plutarco preferisce ai grandi della storia: dolce, amabile, affabile, così diverso da Temistocle e Milziade e Pericle, che vivono contemporaneamente nella storia e nel mito.
Il fascino della Vita di Lucullo sta soprattutto nei fondali, che Plutarco dipinge - lui, il biografo - con una tecnica da grande affrescatore: quest'Asia barbarica ed ellenizzata, i paesaggi della Turchia di oggi, i caratteri abbaglianti e sinistri di Mitridate e di Tigrane, l'efficienza disumana e la crudeltà e l'indisciplina dell'esercito romano. Su questi fondali vediamo consumarsi la tragedia di Lucullo: l'aristocratico elegante e ironico, il grande generale, che supplicando e piangendo cerca di far combattere i suoi soldati, dai quali viene invece insultato e sbeffeggiato. L'ultima parte della Vita da l'impronta definitiva alla tragedia di Lucullo. Niente di più toccante del suo affondare nelle frivolezze e nei piaceri: Plutarco finge (o immagina) di condannarlo; ma, in realtà, da artista consumatissimo, gioca di ombre e di luci, evocando un personaggio meraviglioso.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Cimone
La vita di Lucullo
Confronto fra Cimone e Lucullo
Scolî
COMMENTO
La vita di Cimane
La vita di Lucullo
Confronto fra Cimone e Lucullo
APPENDICE
Nota al testo
Lessico geografico
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Cimone". Si è sostenuto che di rado Plutarco descrive in modo coerente il protagonista di una Vita, ma che il ritratto di Cimone è contraddittorio più del solito'. Attingendo da Stesimbroto di Taso, Plutarco inizia con il delineare un profilo poco edificante di Cimone. Numerosi i suoi difetti, poche le virtù: era screditato agli occhi dei suoi concittadini, avendo una pessima reputazione. Appariva come un giovanotto dissoluto, beone e trascurato, tutto il ritratto di suo nonno Cimone, soprannominato per la sua dabbenaggine Coalemo, cioè Balordo. Non venne educato ne alla musica ne ad alcuna delle discipline coltivate in Grecia dai giovani di buona famiglia. Per di più mancava di quell'efficacia e ricchezza di linguaggio tipiche degli Attici. Oltre a prediligere vino e baldorie, aveva un debole per le donne. Il poeta Melanzio rammenta un'Asteria e una Mnestra fra quelle corteggiate da Cimone, e Stesimbroto ricorda che ebbe due o tre figli da una donna nativa di Kleitor in Arcadia. Amò appassionatamente anche Isodice, figlia di Eurittolemo di Megacle, sua legittima sposa, e soffrì moltissimo per la sua morte (4,10). Non è tutto: ancora giovane fu accusato d'intrattenere rapporti incestuosi con la sorella Elpinice, la quale, in verità, non tenne mai una condotta esemplare, e fra l'altro se l'intendeva con il pittore Polignoto. Gran dama chiacchierata dell'antichità, costei ebbe notevole influenza non solo sul fratello, ma anche su Pende, divenendo il loro mentore politico. Attingendo ancora da Stesimbroto, Plutarco riferisce che Elpinice intercedette in favore del fratello presso Pericle, quando costui lo accusò di aver lasciato cadere l'opportunità, che gli si era offerta dopo aver espugnato Taso nel 46^/2., d'invadere la Macedonia perché corrotto con doni da Alessandro I, sovrano di quella regione. E sebbene si sostenesse che le grazie di Elpinice lasciassero del tutto indifferente Pericle, non di meno egli durante il processo seguito a questa accusa si comportò nei confronti di Cimone con sorprendente benevolenza: si alzò una sola volta a parlare contro l'imputato, quasi per assolvere una mera formalità. Per i buoni uffici di Elpinice, Cimone concluse nel 451/0 un accordo segreto con Pericle: egli avrebbe avuto il comando delle operazioni militari fuori dell'Ellade e sarebbe salpato con duecento navi alla conquista dei territori soggetti ai Persiani; Pericle avrebbe avuto mano libera in Atene. Sempre secondo Stesimbroto, riecheggiato da Eupoli e Crizia, gli Ateniesi furono indotti dal filolaconismo di Cimone e dai suoi rapporti incestuosi con Elpinice a colpirlo con l'ostracismo. Ancora: Cimone era spietato nei confronti dei potenziali nemici di Atene, degli alleati stessi della città, degli avversari personali. Mise a ferro e fuoco il territorio e attaccò la città di Faselide, che si era rifiutata sia di accogliere nei suoi porti la flotta ateniese sia di abbandonare la causa persiana (11,3).Represse duramente la ribellione di Taso (14,2.) e infine, stando a Stesimbroto, fece condannare a morte Epicrate di Acarne, il quale aveva agevolato la fuga da Atene della moglie e dei figli di Temistocle. Pure la conclamata onestà di Cimone era messa in dubbio: a Stesimbroto, che ricordava il processo contro lo statista accusato di essersi lasciato corrompere dal sovrano di Macedonia, faceva eco Teopompo il quale, oltre a interpretare la liberalità di Cimone come una forma di demagogia, lo bollava come ladro, addebitandogli anche la responsabilità di aver impartito agli strateghi ateniesi un insegnamento di corruzione.
A questo ritratto di Cimone, certamente poco elogiativo, Plutarco ne giustappone uno di segno-opposto, utilizzando notizie desunte prevalentemente da Ione di Chio. Secondo costui, Cimone aveva un aspetto tutt'altro che disprezzabile: era alto di statura e aveva una capigliatura ricciuta e folta. A differenza di Pericle, che nel trattare era arrogante poiché alla presunzione univa un grande disprezzo degli altri, Cimone aveva modi signorili. Narra Plutarco che, distintosi nella battaglia di Salamina per splendidi atti di valore, acquistò subito rinomanza presso i suoi concittadini. Molti lo incitavano a compiere imprese degne di Maratona, sicché, quando si accinse a fare il suo ingresso in politica, fu accolto con favore, venendo innalzato ai più grandi onori. Era ben visto da tutti proprio per la bontà e la mitezza del carattere. Diversamente da Pausania, che trattava con crudeltà gli alleati infliggendo loro ogni sorta di umiliazioni, Cimone accolse benevolmente quanti avevano subito offese dal reggente spartano. Comportandosi così, quasi senza darlo a vedere sottrasse ai Lacedemoni l'egemonia dell'Ellade non con la forza delle armi, ma con discrezione. Era lui a sbrigare la maggior parte degli affari dei Greci: sapeva trattare gli alleati affabilmente e riusciva nel contempo gradito agli Spartani, i quali per la stima e la simpatia verso di lui non si risentirono quando gli Ateniesi cominciarono ad ampliare il loro impero e a intromettersi nelle questioni degli alleati. Del resto, erano stati proprio gli Spartani che, ostili a Temistocle, avevano favorito l'ascesa di Cimone, preferendo che in Atene dominasse lui, benché ancora giovane. Già ricco di suo - disponeva infatti di un principesco patrimonio personale -, usò i proventi delle guerre, che tutti gli riconoscevano aver guadagnato con onore, per il bene dei suoi concittadini. A dire di Aristotele, di Cornelio Nepote e di Plutarco, Cimone fece togliere gli steccati dai suoi campi, perché stranieri e cittadini potessero liberamente cogliere i frutti della sua terra. Affinché anche ai poveri fosse lecito partecipare alla vita politica, dispose che ogni giorno venisse approntato in casa sua un pranzo frugale, ma sufficiente per quanti avessero voluto profittarne.
Per Plutarco, il mito è qualcosa di infinitamente complesso : i suoi cultori dovrebbero indossare le vesti variopinte di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, di ondeggiante, di contraddittorio. Di una sola cosa Plutarco sembra certissimo: non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o in un semplice fatto naturale, come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Quello che caratterizza ogni mito è la straordinaria ricchezza degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo in termini demoniaci, matematici, alfabetici, naturali, religiosi ; e mentre lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere valori contrastanti, può significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove il " principio di non contraddizione " è caduto.
Le "Vite di Teseo e di Romolo", commentate con grande erudizione e finezza da Carmine Ampolo in questo volume, riguardano eventi che si collocano prima dei fatti storici, nell'oscurità mitica. Come nelle carte geografiche, oltre le terre conosciute, gli antichi geografi disponevano segni per indicare "deserti" o "zone infestate da belve" o "paludi inesplorate" o "ghiaccio scitico", così Plutarco avanza nei territori favolosi che appartenevano di solito ai poeti tragici e ai mitografi. Il suo procedimento è molteplice. Da un lato egli, che venera l'elemento divino puro e incontaminato, non vuole vederlo troppo mescolato all'elemento umano; e dunque nega o razionalizza le leggende mitiche. Ma, d'altro lato, quando è convinto che il sacro si è calato tra noi, ne riconosce con commossa venerazione il passaggio sulla terra. Invece di abbandonarsi alla sua vocazione di grande ritrattista, evita di chiudere la materia mitica in un profilo psicologico. Non c'è un " personaggio " Teseo o un " personaggio " Romolo - come esistono, invece, l'Antonio o il Cesare di altre Vite. Qui Plutarco racconta incarnazioni celesti, descrive con amore istituzioni religiose e riti, tradizioni strane e curiose, oppure, con una specie di brivido, si inoltra nello spessore barbarico, fosco e brigantesco, che avvolge e nasconde i miti greci e romani.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
Scolî
COMMENTO
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Plutarco nel territorio del mito. Nelle pagine iniziali della "Vita di Teseo" (1-2) Plutarco chiarisce i motivi della scelta della coppia Teseo-Romolo, ma giustifica soprattutto la sua decisione di occuparsi dell'età delle origini di Atene e di Roma, un'epoca ai confini della storia. Spiega il suo atteggiamento con un parallelo felice ed efficace con la cartografia: come nelle carte inserite nei libri di storia si mettevano nelle zone marginali indicazioni su terre inesplorate e invivibili, cosi egli, che ha già trattato in altre Vite l'età dei fatti accertabili o verosimili, potrebbe affermare ora che tocca i territori dove abitano poeti e mitografi, terre in cui non esiste certezza storica.
Il campo della storia viene delimitato con chiarezza e distinto dal campo della poesia e del mito, secondo una tendenza ben attestata e diffusa, anche se molto contrastata e spesso ignorata volutamente da parte dell'erudizione antica. Com'è noto, esisteva un'antica discussione sulla legittimità, l'opportunità e la possibilità stessa trattare l'età più antica, l'epoca delle origini di popoli e di città, di cui molti si dilettavano e di cui soprattutto si teneva conto nella vita politica interna e internazionale. In genere la storiografia locale si interessò sempre delle origini; basti pensare agli attidografi (da Ellanico in poi), benché la grande storiografia greca, prima del quarto secolo, avesse seguito vie sostanzialmente diverse: sono note le gravi riserve espresse da Tucidide (I 1,3 e 20,1), che pure aveva saputo scrivere pagine di storia antichissima (la cosiddetta "archeologia" del primo libro e la "archeologia siciliana" del libro sesto).
Un buon esempio della discussione sull'opportunità di scrivere delle origini oppure di storia recente o contemporanea è offerto dal primo libro del de legibus di Cicerone. Qui, discutendo appunto di verità poetica e di verità storica, della storiografia romana in confronto a quella greca, Attico, in polemica con Quinto Cicerone, preferisce nettamente la storia contemporanea al sentir parlare de Remo et Romulo (I 3,8). A loro volta, due storici ben noti a Plutarco, come Dionisio d'Alicarnasso e Tito Livio, pur cosi diversi, sentono entrambi il bisogno di giustificare la propria trattazione delle epoche più antiche. Malgrado le difficoltà e l'ampiezza del lavoro di ricerca, Dionisio d'Alicarnasso risale con decisione a tempi remoti; deve premettere tuttavia una sorta di autodifesa dalle critiche, che gli sarebbero state rivolte per essersi occupato delle oscure origini di Roma, e deve sostenere che i primordi della città potevano essere ricostruiti in modo veritiero e che essi avevano un carattere greco e illustre (I, 4-5; cfr. I 8). Livio invece si diceva sicuro che i lettori avrebbero apprezzato poco la sua trattazione dell'età delle origini, mentre si sarebbero affrettati a leggere la storia più recente (praefatio 4); specificava inoltre come le tradizioni relative all'età che precedette la fondazione di Roma fossero più abbellite da leggende poetiche di quanto fossero documentate: così, da parte sua, non intendeva ne accettarle ne respingerle. Ancora in tempi più vicini a quelli di Plutarco, Flavio Giuseppe nell'introduzione alla Guerra giudaica (5-6) dichiarava la sua preferenza per la storia contemporanea, criticando chi "riscriveva" la storia antica.
L'atteggiamento di Plutarco e le sue spiegazioni sono condizionate - com'è chiaro - da questa antica discussione. Il dilemma, storia antica o storia contemporanea, imponeva una scelta tanto di campo storico quanto di fonti. In tal modo, come nella Vita di Nicia (1,5) Plutarco aveva chiarito che da biografo intendeva solo integrare la grande storiografia con la ricerca di altri elementi trascurati, servendosi di fonti documentarie (iscrizioni votive, decreti)', così affrontando le origini di Atene e Roma spiega come abbia dovuto dare ascolto all'elemento leggendario, ma cercando sempre di razionalizzarlo e di renderlo verosimile. Aveva già espresso il suo scetticismo con forti perplessità a proposito di Licurgo (Lyc. i) e della stessa cronologia di Numa Pompilio, quando aveva riportato il giudizio negativo dello storico romano Clodio sulle genealogie. Non gli restava dunque che seguire il razionalismo della storiografia greca, passato anche a storici e antiquari romani, facendo appello alla comprensione dei lettori, come Livio aveva già fatto (praefatio 7). Per giustificare, ancora una volta, il carattere poco credibile del racconto dell'infanzia di Romolo e Remo (Rom. 8,9) ricorre a un argomento estremo, anch'esso forse una reminiscenza liviana (cfr. praefatio 7): si può credere alle origini divine di Roma se si pensa al grado di potenza che essa ha raggiunto.
Vediamo quali sono le caratteristiche del razionalismo di Plutarco. Come Plutarco abbia considerato il mito e la conoscenza mitica, è problema che esula da questa Introduzione: andrebbe affrontato in un esame globale della sua figura e della grandiosa attività di documentazione e di interpretazione mitologica attestata dai Moralia. Qui, vogliamo soltanto affrontare un problema più limitato: la sua interpretazione dei miti arcaici greci e romani.
Le "Vite di Arato e di Artasers"e sono tra le Vite meno note agli studiosi e al pubblico. In quella di Arato, Plutarco studia l'ultimo riflesso dell'epoca eroica dell'Ellade : il momento in cui parve che fosse ancora possibile la libertà della Grecia, la concordia tra le città in un disegno comune. In quella di Artaserse, Plutarco svela la propria passione per l'immensità dell'Oriente: una sacralità, una sfrenatezza, un delirio di grandezza, un desiderio dell'illimitato, che egli sentiva opposti alla "misura" della tradizione greca. Le informazioni che ne traiamo costituiscono la nostra fonte più preziosa sulla regalità sacra nell'Iran: il nome del sovrano persiano, associato al sole; il re dal volto così sfolgorante, che i mortali non riescono a sopportarne la vista; lo splendore luminoso che attraversa i mondi e si concentra sul capo di Dario e di Serse... Domenica Paola Orsi ha commentato questi testi con una sicura competenza, senza arretrare davanti ai difficili problemi posti dalla civiltà persiana.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Arato
La vite di Artaserse
COMMENTO
La vita di Arato
La vite di Artaserse
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. La "Vita di Arato", I. Fonti. Plutarco ne nomina tre: Arato, autore di Memorie, Filarco e Polibio, autori di Storie. E opinione comune che la Vita di Arato derivi in grandissima parte dalle Memorie di Arato fino al capitolo 46; Plutarco ha poi utilizzato come fonte Polibio per gli ultimi capitoli della Vita.
a) Arato. Delle Memorie è rimasto molto poco: Felix Jacoby registra solo sei frammenti, tratti dalle Vite plutarchee di Agide, di Cleomene e di Arato. Polibio fornisce utili notizie; dichiara di voler continuare le Memorie e da inizio alla narrazione delle vicende di Grecia con il libro IV, illustrando gli eventi del 221 a.C. che provocarono lo scoppio della "guerra degli alleati" (220-217 a.C.). Le Memorie di Arato, dunque, giungevano sino alla conclusione della guerra cleomenica (battaglia di Sellasia nel 222 a.C.). Polibio informa pure di aver scelto, come fonte per gli eventi precedenti il 221, proprio le Memorie di Arato perché le giudica veritiere e, in particolare, di averle utilizzate per il racconto della guerra cleomenica: "poiché fra gli scrittori contemporanei ad Arato gode di credito presso taluni Filarco, il quale in molti punti è di opinione contraria rispetto ad Arato e lo contraddice, sarebbe utile, o piuttosto necessario, "a noi che abbiamo deciso di seguire Arato per la narrazione della guerra cleomenica", spiegare questa scelta, affinché non si consenta che il falso abbia forza uguale alla verità nelle opere storiche". E proprio mentre sta narrando la guerra cleomenica, Polibio fornisce un'altra informazione preziosa. Arato decide di avviare trattative con Antigono Dosone in vista di una alleanza fra Achei e Macedoni contro Sparta, ma ritiene opportuno agire di nascosto; egli "era costretto a dire e a fare in pubblico molte cose contrarie alla sua opinione... per questo non ha trascritto taluni di questi fatti neppure nelle Memorie". Le Memorie di Arato, dunque, se da un lato erano, a giudizio di Polibio, veritiere (e per questo Polibio le preferiva alle Storie di Filarco), dall'altro erano volutamente incomplete e Polibio integra ciò che in esse mancava.
Nella Vita di Arato la prima menzione delle Memorie figura a 3,3: è opera non rifinita perché Arato l'ha scritta in fretta e con le prime parole che capitavano. Sebbene sia opinione comune che la "Vita di Arato" fino al capitolo 46 (cioè, fino alla fine della guerra cleomenica) derivi in larga parte dalle Memorie, sono in realtà scarsissimi i frammenti che possono con sicurezza essere loro attribuiti. Per quanto siano pochissimi e facciano riferimento ad eventi diversi, è possibile individuare una tendenza che li accomuna. Procediamo ad un rapido esame.
1. Poiché gli Etoli si accingono ad invadere il Peloponneso (241 a.C.), si riuniscono contro di loro gli eserciti acheo e spartano. Agide, re di Sparta, esorta alla lotta, ma Arato impedisce lo scontro e consente agli Etoli di passare; per questo è fatto segno di ingiurie e di biasimo. Nella "Vita di Agide" Plutarco racconta il medesimo episodio, ma riferisce l'opinione di Batone di Sinope secondo il quale non fu Arato ma Agide ad impedire lo scontro. Plutarco smentisce Batone che non ha letto quanto lo stesso Arato ha scritto in proposito "difendendo" l'opportunità della sua scelta (cioè di non combattere).
2. Arato si impegnò a lungo nella liberazione di Atene; una volta assalì il Pireo mentre erano in vigore accordi di pace e venne accusato dagli Achei. Nelle Memorie, nega la sua personale responsabilità e accusa Ergine, ma, aggiunge Plutarco, la sua difesa non pare convincente.
3. Plutarco biasima la decisione di Arato di chiamare in aiuto contro Cleomene il re di Macedonia Antigono Dosone e non accetta la sua giustificazione (evidentemente nelle Memorie). Arato - scrive Plutarco - non risparmia parole "difendendo" la necessità del ricorso ad Antigono.
Un aspetto che caratterizzava le Memorie era, dunque, la tendenza (o, forse, la necessità) da parte di Arato a "difendersi" da accuse che gli venivano rivolte; la sua difesa era, a volte, una accusa. Lo si è visto: si difende dall'accusa di aver assalito il Pireo in tempo di pace, accusando Ergine; l'accusa più grave che rivolgeva a Cleomene era di volere l'eliminazione della ricchezza e il risanamento della povertà; possiamo ritenere con una certa sicurezza che Arato rivolgeva a Cleomene l'accusa di agire nell'illegalità e da tiranno. Sembra, perciò, che le Memorie non fossero opera dal tono neutrale e distaccato: pare che fossero piuttosto un'opera nella quale vi era un intreccio di accuse e di difese, e si rifletteva la vivacità della vita politica del loro autore. Esse appaiono politicamente orientale, velinamente incomplete e strumento di autogiustificazione.
Con le "Vite di Temistocle e di Camillo", a cura di Carlo Carena, Mario Manfredini e Luigi Piccirilli, la Fondazione Valla prosegue l'edizione di tutte le Vite di Plutarco, in un nuovo testo critico e con un ampio commento scientifico.
In Temistocle, Tucidide scorse un supremo leader politico, capace di trasformare Atene da piccola città agricola in impero marinaro; mentre i nemici videro in lui il simbolo di ogni vizio. Ai nostri occhi, Temistocle incarna nella sua figura tre singolari qualità umane: un'ambizione divorante, una bruciante passione per il potere e la gloria, che lo spinse a violare la "misura" raccomandata dai moralisti antichi; un'intelligenza astuta, duttile, tortuosa e labirintica, come quella di Ulisse (i Persiani lo definivano "una serpe greca dal dorso screziato") ; e un carisma visionario, che gli apportava le rivelazioni decisive in sogno. Raccontandone la vita, come sempre gli accade quando si tratta di eroi della "dismisura", Plutarco esibisce le sue eccelse doti narrative: nessun lettore di questo volume potrà facilmente dimenticare episodi come l'abbandono di Atene, l'invasione persiana, la battaglia di Salamina, gli ultimi anni di Temistocle.
Con la "Vita di Camillo", Plutarco compie un altro dei suoi scavi nell'enigma di Roma arcaica. Camillo dedica un tempio a Mater Matuta, dea dell'aurora: egli è colui che trionfa all'alba; e come Mercurio, di cui porta il nome, si serve del fuoco e del "furto" per avere il sopravvento sui nemici. Attorno a lui, una Roma tutta immersa nel prodigioso e nel sacro: laghi che straripano a causa di sacrilegi, statue che parlano e sudano, oracoli da interpretare, i segreti delle Vestali. Compaiono i Galli, minacciando Roma di irreparabile rovina: e Plutarco rappresenta la loro invasione come la storia della migrazione di gente del nord da luoghi ricchi d'ombra verso il caldo di un paese pianeggiante e insalubre.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
Scoli
COMMENTO
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Temistocle". Generalmente si ritiene che Temistocle sia un personaggio caratterizzato storicamente meglio di Solone; tuttavia, la cronologia degli avvenimenti della sua vita è quanto mai incerta e costituisce oggetto di discussione da parte degli studiosi moderni. Neppure del suo tradimento fu addotta mai una prova decisiva, nonostante le accuse dei suoi avversari. Per le sue non comuni doti di abilità e di scaltrezza, per la sua capacità di trarre profitto da ogni situazione, per il suo programma marittimo volto sia verso l'Oriente sia verso l'Occidente, Temistocle appare per un verso la prefigurazione di Alcibiade e per un altro quella di Pericle. Non è tutto : egli è stato definito a ragione "un type d'homme a métis"; e infatti, più d'ogni altro, pare incarnare quella forma d'intelligenza pratica, chiamata dai Greci metis e contraddistinta dall'inganno, dalla sorpresa e soprattutto dall'astuzia, che implica una permanente minaccia per ogni tipo di ordine costituito. E ciò in quanto la metis - si sa - opera nel dominio del mutevole e dell'imprevisto per meglio capovolgere situazioni e gerarchie già costituite, ricorrendo ad armi particolari, come reti, nasse, esche, lacci, trappole, trabocchetti, insomma a tutto ciò che è intessuto, ordito, macchinato. Temistocle presenta appunto una mente equivoca, tortuosa e complicata come i labirinti; è dotato d'intelligenza pratica; possiede la saggezza (sophia), cioè l'abilità politica (deinotes politike), e l'intelligenza che presiede all'azione (drasterios synesis: 2,6). Secondo la tradizione (2,6 sg.), egli aveva appreso tali qualità da Mnesifilo (una specie di "doppio" dell'intelligenza temistoclea), che gli suggerì un piano estremamente astuto, a cui Temistocle dovrà la sua fama: la trappola di Salamina, grazie alla quale i Greci riuscirono a mutare a proprio vantaggio una situazione di netta inferiorità. Lo stratagemma, seguito o ideato da Temistocle, pare ispirarsi a un procedimento in uso presso i pescatori, vale a dire all'accerchiamento con cui essi catturano alcuni pesci. A Salamina, il greco Temistocle manovrò come alla pesca del tonno: attirata con l'inganno (lo stratagemma di Sicinno: 12,5 sgg.) la flotta nemica, chiuse la rete e i Persiani si trovarono intrappolati come tonni. Proprio per tali qualità (raggiro, astuzia, dolo, ecc.), che gli valsero presso gli antichi e i moderni l'appellativo di Odisseo, Temistocle divenne oggetto di critiche e di lodi. Già il suo maestro - narra Plutarco (2,2) - soleva dirgli che sarebbe diventato grande in tutto, nel bene come nel male; e infatti il suo operato diede origine ben presto a due tradizioni storiografiche, l'una ostile e l'altra elogiativa.
La prima, che tendeva a metterne in rilievo l'astuzia, l'avidità e la corruttibilità, è testimoniata da Timocreonte ed Erodoto. Mentre, però, la polemica di Timocreonte, che rappresentò Temistocle come un uomo facile alla corruzione, privo di scrupoli e ambizioso (21,5 sgg.), ebbe carattere soprattutto personale senza alcuna (o con attenuata) implicazione politica, il ritratto erodoteo, poco lusinghiero, fu frutto dell'avversione nei confronti di Temistocle delle fonti d'informazione da cui attinse lo storico. Un esame, anche superficiale, dei passi di Erodoto rivela che Temistocle è sì la figura che domina la narrazione della guerra contro Serse, ma che la sua personalità viene presentata sotto una luce ambigua: è esaltata l'astuzia, mai la genialità; non è lui l'artefice del successo di Salamina, ma Mnesifilo (VIII 57 sg.); per soddisfare l'insaziabile pleonexia ("avidità"), si procura ricchezze all'insaputa degli altri comandanti, estorcendo denaro agli abitanti di Paro e di Caristo (VIII 112); sfruttando ogni occasione per il proprio tornaconto, cerca di cattivarsi le empatie dei Persiani (VIII 109 sg.). La descrizione erodotea evoca subito alla mente l'erma-ritratto di Temistocle, rinvenuta a Ostia nel 1959 e dalla quale pare sprigionarsi una forza fisica rattenuta, una violenza e un'ostinazione che può mutarsi in qualsiasi momento in furore. Il ritratto sembra adattarsi perfettamente a quel Temistocle che, esigendo denaro dagli Andri, affermava di essere giunto presso di loro in compagnia di due dee, la Persuasione e la Necessità (Erodoto, VIII 111). Gli elogi sono pochissimi (VII 144; VIII 110): solo una volta Erodoto, parlando di lui, afferma che "ebbe voce e fama" di essere di gran lunga il più saggio di tutti i Greci (VIII 124); ma questa connotazione di Temistocle quale sophotatos appare essere piuttosto opinione degli altri che dello storico, quasi egli intendesse scindere, in tale giudizio, la propria valutazione dalla communis opinio, La palese partigianeria, che evidenzia soprattutto i difetti di Temistocle, pare provenire a Erodoto dalla sua simpatia nei confronti degli Alcrneonidi (V 62-71; VI 121-51) e dei Cerici (gli "Araldi" dei misteri eleusini): ai primi apparteneva quel Leobote che presentò l'accusa di tradimento contro Temistocle (25,1; Mar, 605 e), ai secondi il suo avversario politico, Aristide (Arisi. 25,4 e 6), legato pure agli Alcrneonidi {Arisi. 2,1 ; Mor. 790 f; 805 f). E questo spiega anche la lode erodotea tributata ad Aristide, definito "l'uomo migliore e il più giusto di Atene" (Vili 79). Tuttavia, al tempo in cui Erodoto scriveva le Storie (450-20 circa), la "leggenda" di Temistocle s'era già formata, e il contrasto fra lui tutto scaltrezza (sophotatos) e Aristide tutto giustizia (dikaiotatos) difficilmente poteva passare in secondo piano: la disonestà dell'uno risultava evidente dalle accuse di Timocreonte, l'onestà dell'altro veniva esaltata quasi polemicamente dagli alleati di Atene, i quali, sottoposti dopo il 478/7 a contribuzioni sempre più gravose, provavano nostalgia per le fasi iniziali della lega delio-attica e vedevano in Aristide il realizzatore di un sistema più equanime di quello attuato da Pericle.