V.S. Naipaul viaggia sempre alla ricerca di qualcosa. In Fedeli a oltranza aveva esplorato quel groviglio rovente di pulsioni e ideologie che non tutti, ancora, chiamavano fondamentalismo islamico: in questo suo ultimo libro tenta invece di afferrare qualcosa di più sfuggente, la sopravvivenza delle credenze arcaiche in ciò che nel continente africano - e spesso non altrove - si intende per «modernità». È un itinerario lungo e tortuoso, che porta Naipaul dal Ghana alla Nigeria, dalla Costa d'Avorio e dal Gabon fino al Sudafrica, e che attraverso una scansione di incontri, fatti nudi e storie individuali gli fa trovare subito qualcosa di imprevisto: «Ero convinto che nell'immensa vastità dell'Africa le pratiche magiche non fossero diffuse in maniera uniforme. Ho dovuto ricredermi. Ovunque ho incontrato indovini che "gettavano le ossa" per leggere il futuro, e ovunque ho ritrovato la stessa idea di un'"energia" da imbrigliare attraverso il sacrificio rituale. In Sudafrica la "medicina da battaglia" è un composto fatto con parti del corpo soprattutto animali, ma anche umane. Vederlo con i miei occhi, sentirne il potere, mi ha riportato molto vicino all'inizio di tutto». Inizia così un altro viaggio, che non era semplice osare, verso quell'inizio, verso il big bang di un intero continente. Un viaggio di cui questo libro immediato, quasi orale, è un fedele resoconto: che appassiona, irretisce, e non di rado illumina.
Oltre a La persuasione e la rettorica , al Dialogo della salute e alle Poesie, Michelstaedter ha lasciato un’im pres sio nante mole di scritti. Impressionante tanto più se si pensa alla brevità di una parabola esistenziale conclusasi con il suicidio a soli ventitré anni, e in cui è impossibile non cogliere il segno di un audace programma: «... e farai di te stesso fiamma». E sono proprio questi ‘scritti vari’ – ovvero il laboratorio segreto di Michel staedter –, di cui il suo maggiore specialista ci offre ora una silloge che copre il cruciale periodo 1905-1910, a fornirci una chiave per penetrare l’enigma di un’at tività speculativa solitaria e radicale, che pareva, con la tesi di laurea, essere giunta a maturazione per vie misteriose, e che invece si rivela qui tumultuosamente ma caparbiamente preparata. Che rifletta sulla catarsi tragica o sulla «via della salute», che si sperimenti in favole o parabole, che reagisca a caldo a una pièce di Ibsen o di D’Annunzio o a un concerto, infatti, il pensiero di Michelstaedter sembra accanirsi intorno a un nucleo rovente, a una dolorosa certezza: contro ogni scuola che parli nel nome dell’assoluta verità, contro la voce della philopsychía, che mette «un empiastro sul dolore per lenirlo», l’uomo «deve ricrearsi nell’at tività col suo spirito per creare il valore individuale, per giungere alla ragione di sé stesso – alla vita, per portar l’at tualità all’atto; per esser persuaso; poiché da nessuno e da niente egli può sperar aiuto che dal proprio animo, poiché ognuno è solo nel deserto».
La formula vuota e ipocrita che denuncia l’attuale «crisi della politica» nasconde, in realtà, una crisi molto più profonda e inquietante, che accomuna non solo «tutte le forze della tradizione occidentale», ma esse stesse alla loro distruzione, compiuta dalla modernità: un’«“intima mano”, assolutamente più intima (e terribile) di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al “santo Cristo” e al “santo Spi no za”, si chiede: “Quale intima mano congiunge i due in uno?”». Nel suo nuovo libro, Ema nuele Se verino mette a fuoco questo grande occultamento, accompagnandoci nel «sottosuo lo essenziale» del pensiero filosofico del nostro tempo. Severino ci mostra anzitutto la conflittualità e insieme la specularità di tali forze: l’incerta «identità europea», improntata dal duumvirato Usa-Urss, ovvero il più potente «monopolio legittimo della violenza» dell’ultimo secolo; il marxismo defunto e un capitalismo incapace di offrire alternative all’incremento del profitto privato quale «scopo supremo» della società; il cristianesimo e l’Islam come opposti dogmatici accomunati da una rigida connotazione antimoderna; lo Stato e la Chiesa, distinti sulla base di un Concordato «ambiguo» che lede le ragioni di entrambi. Al tempo stesso Severino rileva come tutte quelle forze convergano nell’asservimen to a una «tecnica» modellata dal «sapere ipotetico» della scienza e fondata sul solo «valore della potenza», e dunque sintesi e strema dell’«errore» dell’Occidente: l’«a gire» come un carattere separato dall’es sere, e il percorso dell’uomo come un procedere «tra nulla e nulla». Fitto di spiazzanti provocazioni intellettuali (sull’ancipite idea di Provvidenza, e stesa dal cattolicesimo ai totalitarismi; sulla contiguità tra vecchia e nuova Guer ra Fredda; sulla teologia di Benedetto XVI), L’intima mano è così uno sguardo «a volo d’aquila» sugli snodi essenziali della contemporaneità e un invito a inquadrarli al di là, e al di fuori, della loro ingannevole contingenza.
All'inizio di questo romanzo Duddy Kravitz ha 15 anni, ma si rade due volte al giorno nella speranza di farsi crescere il più in fretta possibile la barba. La sua vita non è facile, nel ghetto ebraico di Montreal, e la profezia del nonno ("un uomo senza terra non è nulla") incombe sul suo futuro come una condanna. O un invito a non arretrare di fronte a nulla pur di raggiungere lo scopo. Ed è in questo senso che Duddy la interpreta, costruendosi passo dopo passo una carriera di cialtrone, bugiardo, baro, libertino - in altre parole di sognatore professionista, visto che il suo ultimo approdo, che gli garantirà denaro e gloria, sarà il cinema.
Sarà un caso, ma le frizzanti mattine di primavera, quelle in cui ci si sente più allegri e leggeri, preannunciano regolarmente le inchieste più rognose. È il 4 marzo, e una lettera anonima avvisa Maigret che di lì a qualche giorno verrà commesso un omicidio - e che non c'è modo di evitarlo. Non si tratta del solito mitomane: lo stile accurato, il tono deciso fanno presagire il peggio. La preziosa carta da lettera permette subito di risalire a un giurista di fama internazionale, specialista di diritto marittimo, Émile Parendon: è fin troppo chiaro che qualcuno ha voluto attirare il commissario nel sontuoso appartamento - studio di avenue Marigny, a due passi dall'Eliseo e dal ministero degli Interni. Ma chi? Lo stesso Parendon, una sorta di gnomo ironico e sottile, ossessivamente dedito al lavoro e alla passione per la psichiatria? La spavalda Antoinette Vague, sua segretaria e amante? La ribelle figlia Bambi, studentessa di archeologia? O il più giovane e solitario Gus, liceale con la mania della musica e dell'elettronica? O forse, perché no?, la sofisticata, aristocratica Madame Parendon, persuasa che il marito sia un uomo pavido e malato che cela tendenze suicide? Quel che è sicuro è che una terribile minaccia incombe su quella casa immensa e fastosa in cui si aggirano silenziosi cameriere e maggiordomi, su quel reticolo di rapporti gelidi e indecifrabili. Per due giorni, un Maigret abbagliato e sempre più confuso, vivrà in avenue Marigny una vita lontana mille miglia dalla sua - e una discesa agli Inferi dei rapporti familiari.
Prima della discesa agli inferi della Kolyma, la sterminata distesa di paludi e ghiacci nella Siberia nordorientale dove il regime sovietico portò al massimo livello di efficienza il sistematico annientamento delle sue vittime, Šalamov aveva già avuto modo di sperimentare la durezza della repressione staliniana: arrestato nel 1929 per «propaganda e organizzazione sovversiva», fu infatti condannato a scontare tre anni di lavori forzati in uno dei primi lager sovietici, quello di Višera, nel Nord degli Urali. Al ricordo di quell'esperienza - il primo impatto di uno spirito libero e forte con la spietata realtà politica e sociale del Paese - Šalamov torna in due momenti distinti della sua vita, dopo il ritorno a Mosca da uomo libero. Nel 1961, mentre già sta lavorando ai Racconti della Kolyma, scrive i due frammenti che aprono il volume, La prigione di Butyrki (1929) e Višera: testi incompiuti, eppure fondamentali per introdurre il corpo centrale del libro - quello che nel diario egli definì L'antiromanzo Višera, scritto tra il 1970 e il 1971, ma destinato a vedere la luce solo nel 1989. In queste pagine, che si saldano indissolubilmente ai Racconti della Kolyma e che spesso ne richiamano temi e personaggi tanto da costituirne l'indispensabile preludio, prende via via forma l'epopea negativa dei lager staliniani: la storia della loro nascita, di chi li abitò e di chi li diresse, dell'incrudelirsi delle regole che li trasformarono in un perfetto meccanismo - congegnato «a immagine del mondo» - atto non solo a infliggere sofferenze estreme, ma soprattutto a stravolgere ogni norma etica, distruggendo moralmente tanto le vittime quanto i carnefici: «Che cosa mi ha dato Višera? Tre anni di disillusioni quanto agli amici e di speranze infantili infrante. Un'insolita sicurezza nella mia forza vitale ... solo, senza amici, e senza nessuno che la pensasse come me, sopravvissi a quella prova fisica e morale. Ero saldo sulle mie gambe e la vita non mi faceva paura».
«Il mio intento in questo libro non è la critica letteraria né la biografia ... Voglio soltanto, e in maniera del tutto personale, passare in rassegna i tipi di scrittura che mi hanno influenzato nel corso del mio lavoro. Ho detto scrittura, ma intendo più precisamente visione, modo di guardare e di sentire». Con questo intento Naipaul ci fa da guida in un viaggio illuminante, il suo viaggio: dalla natia Trinidad («un puntino sul mappamondo») agli ambienti letterari della Londra anni Cinquanta, dall'India (ancestrale «terra del mito» e desolante paradigma di modernità incompiuta) alla Cartagine di Polibio e di Flaubert, e alla Roma di Cicerone e di Virgilio. In questo modo la scrittura, che è sempre «prodotto di una specifica visione storica e culturale », permette di esplorare il tempo oltre che lo spazio - e di affiancare Derek Walcott a un materassaio analfabeta, Nirad Chaudhuri e Anthony Powell a un politicante con velleità letterarie (« lo Stalin di Trinidad»), Gandhi a Giulio Cesare. E durante il viaggio ogni incontro si rivela decisivo: per una inesausta ricerca di precisione, per il nitore dell'espressione, e soprattutto per una percezione originale del mondo.
Si dà arie da gangster, Petit - Louis. Fa lo sbruffone. Ma è solo una mezza cartuccia. Al massimo può fare il palo, o distrarre i turisti sfaccendati con le sue prodezze di giocatore di bocce, mentre altri, i gangster veri, rapinano l'ufficio postale di Le Lavandou. E non sa neanche resistere alla tentazione di lasciar intendere alla matura signora che quella notte se lo porta nella sua camera d'albergo che sì, con quel colpo lui c'entra qualcosa. La signora, del resto, che si è presentata come contessa d'Orval, è fasulla quanto lui: è una ex cocotte che si fa mantenere da un piccolo industriale di provincia. Della sedicente contessa Petit - Louis diventerà l'amante: vitto, alloggio e qualche regalino di un certo valore gli fanno comodo per un po', anche perché deve starsene nascosto. Un giorno però la signora verrà trovata morta, con il cranio fracassato, e Petit - Louis sarà arrestato con l'accusa di omicidio. Tutte le apparenze sono contro di lui, e il suo passato da teppistello gioca a suo sfavore. Eppure, costretto a subire un processo che si rivela una farsa, a confrontarsi con una giustizia simile a «una macchina mostruosa», una specie di «immensa macchina tritatutto», quello che finora è stato solo un piccolo, fatuo malavitoso inizia a vivere «la sua vera vita, la vita secondo il suo Destino». E questo, come accade al Frank di La neve era sporca o al Kees Popinga dell'Uomo che guardava passare i treni, o allo stesso signor Hire, gli conferirà una intensità, una statura, una tragicità in qualche modo eroiche.
Un Mozart assai meno apollineo di come viene solitamente dipinto, un Mendelssohn tragico e moderno e un Verdi anziano, saturo di vitalità e contraddizioni; una lettera al «cavaliere Gluck», l’intervista che Brahms decise di rilasciare in esclusiva ai posteri e le feroci critiche di Hindemith e Strawinsky allo «spaventoso gigante» Beethoven: sono solo alcune delle sorprese che il nuovo breviario musicale di Mario Bortolotto ci riserva. Da Schubert a Mahler, da Rossini a Wagner, Čajkovskij, Debussy, nessuno dei grandi maestri manca all’appello, e tuttavia c’è spazio anche per autori e temi meno perlustrati: Cherubini, Auber, Schmidt, l’operetta e i cori alpini già cari a Benedetti Michelangeli, un inedito Leopardi teorico musicale e il colorito epistolario di Berlioz... Ma la dimora elettiva di Bortolotto è senz’altro il teatro, sicché a più riprese lo vediamo sondare, con sollecitudine amorosa e insieme severa, lo stato di salute dell’opera – «questo manufatto che tiene un poco del cialtronesco e un poco del magico». Peregrinando dall’inarrivabile Staatsoper viennese ai palchi parigini e da San Pietroburgo al Colón di Buenos Aires, fino a quei «piccoli teatri esigenti» che soli, in Italia, resistono alla desolante «riduzione del cosiddetto repertorio», Bortolotto esamina cantanti e direttori, trafigge qua e là le «infelici trovate» e la «massiccia ignoranza» di certi registi, eppure è sempre pronto a lasciarsi incantare dal miracolo di una rappresentazione perfetta. Scortati attraverso un labirinto di vicende artistiche, letterarie e musicali da una guida nonchalante ma sospettabile di onniscienza, comprendiamo, insomma, come la musica che inspiegabilmente ci ostiniamo a chiamare classica, lungi dall’essere la superflua ‘colonna sonora’ della vita culturale occidentale, ne sia parte irrinunciabile e fondante.
Da quando Conan Doyle ha dimostrato che del corpo, in un'indagine ben condotta, si può tranquillamente fare a meno, molti autori di storie poliziesche si sono divertiti a mettere i propri protagonisti in condizione di non potersi muovere. Ultimo, ma solo in ordine di tempo, è arrivato Roberto Bolaño, che in questo romanzo ha inventato Auxilio Lacouture. Se per via della stazza il detective di Rex Stout abbandona a fatica e malvolentieri la sua serra, Auxilio, che invece sembra la «versione femminile di don Chisciotte», non può semplicemente uscire dai bagni della facoltà di Lettere e Filosofia di Città del Messico, dove l'esercito e i reparti antisommossa hanno appena fatto irruzione. Siamo nel settembre del 1968, cioè nel cuore di una stagione rivoluzionaria rispetto alla quale i moti europei sono un pranzo di gala appena un po' rumoroso. Quella che Auxilio arriva pian piano a ricostruire è la «storia di un crimine atroce» che ha lasciato il segno su tutta una generazione di giovani latinoamericani. Un'immagine dopo l'altra, lo spazio fisico si dissolve, mentre la voce di Auxilio diventa quella di Bolaño, e attraverso una galleria di personaggi indimenticabili ridisegna la geografia, immaginaria e persino troppo reale, di un intero continente.
Una grande casa tra le dune di Martha's Vineyard - il rifugio ideale per le vacanze estive della upper class del New England. Ma in questa casa non si tengono party sontuosi, né si scambiano ovattate confidenze: si organizzano semmai meeting di finanziamento delle più disparate iniziative insurrezionali e si combattono schermaglie degne di un pub all'ora di chiusura. Già, perché ad abitarla è il clan dei « fantastici Flanagan», stirpe irlandese emancipata da qualsiasi preoccupazione economica grazie alle sovvenzioni di un distante e temuto patriarca, magnate dei media. Circondati da cani di ogni taglia, Charlie Flanagan, donnaiolo seducente e sconsiderato, e la moglie, bella ereditiera di simpatie sovversive, conducono un ménage insieme crudele ed esilarante. Di crescere Collie e Bingo, i due figli della coppia, si preoccupa lo zio Tom, il fratello di Charlie - perlomeno quando non è impegnato nell'addestramento dei colombi o in qualche concitata rissa verbale. Ma se Bingo, adorabile scavezzacollo, è il degno prodotto di un simile dressage, Collie, il narratore, è diverso: è serio, sensibile e coscienzioso, e decisamente più attratto da ciò che il nonno rappresenta. Certo, la fascinazione di Collie per le ville in stile georgiano, i roseti ben tenuti, i mastini a guardia della proprietà lo espone all'occasionale biasimo dei più stretti congiunti, ma lo rende anche l'unico plausibile erede dell'impero familiare. Sennonché, in una splendida giornata di sole, tutto va in pezzi... Accompagnato dal brio della prosa di Elizabeth Kelly, il lettore scoprirà, addentrandosi in questa storia scanzonata e toccante, che l'irruzione della più fosca tragedia può far scoccare la scintilla di un destino più vero.
«Cameron disegna un mirabile affresco di un mondo, il nostro, incapace di prendersi cura di se stesso, alla rincorsa di cose futili e banali. Lo fa attraverso una prosa densa come fosse verseggiata, con dialoghi perfetti e un personaggio che resterà nella memoria. Un libro bellissimo, già dal titolo e fino all’ultima pagina» (Valeria Parrella).