Jacques Derrida fornisce una delle definizioni più sorprendenti della sua idea di "decostruzione", che non è una filosofia, né un metodo, né un concetto preciso, ma "solo ciò che capita se capita". Quel che è certo è che la decostruzione va sempre insieme a qualche altra cosa; essa, infatti, articola e disarticola ogni parte del discorso, riconoscendo tale divisione anche al proprio interno. L'elemento che rende concretamente possibile tutto questo è la congiunzione "e", un "sincategorema" capace di esprimere la correlazione tra insiemi eterogenei: la decostruzione e la scienza, la decostruzione e l'America, la decostruzione e l'amore ecc. Derrida, rifacendosi a Foucault, Borges e soprattutto a Husserl, spiega l'importanza della "e" quale collegamento logico (e fenomenologico) che può avere molte forme, usi e significati, perfino disgiuntivi, perché la congiunzione scivola e s'insinua dietro ogni disgiunzione. Testo breve quanto denso, "Et cetera" è anche una acuta e divertente riflessione metalinguistica, dal momento che non si può descrivere e formalizzare un'unità di linguaggio come la "e" senza farne già uso all'interno della stessa descrizione.
"Nomi propri" è un libro d'incontri. I quattordici saggi che lo compongono sono le tappe di un cammino ideale, compiuto insieme ai filosofi, gli scrittori e i poeti con i quali Emmanuel Lévinas ha voluto aprire uno spazio di condivisione e di confronto. Potrebbe forse bastare questo a indicarne l'importanza nell'opera di un autore che ha riconosciuto nella relazione con l'altro il fondamento e il fine della riflessione filosofica. Ma qui non si tratta soltanto di rendere omaggio a Paul Celan, marcare una distanza con Kierkegaard o dialogare con Derrida. Piuttosto, l'incontro diventa occasione per definire le coordinate di una ricerca che qui si rivela, con chiarezza cristallina, in tutti i suoi temi portanti: l'affermazione del primato dell'etica, la critica della metafisica occidentale, il valore del linguaggio poetico che, al di là dei contenuti, è veicolo dell'inesprimibile e strumento di contatto con l'altro. Scrivendo sulla decifrazione dell'alterità in Proust, la lettura del sentimento in Jean Wahl e la teoria della conoscenza di Martin Buber - per limitarci ad alcuni esempi - Lévinas mette così alla prova il proprio pensiero e ne disegna la sintesi.
In questo articolo Jaspers esamina le basi filosofiche della psicopatologia, considerandole un riferimento imprescindibile per una pratica medica che non voglia ridursi a un approccio meramente tecnico-scientifico con il paziente. In particolare, Jaspers analizza tutti quei concetti che ruotano attorno alla nozione di empatia, perché grazie ad essi è possibile sviluppare una psicoterapia che sia in grado di relazionarsi all'aspetto umano del malato. Nutrita dalle considerazioni fenomenologiche sul rapporto interpersonale, la relazione medico-paziente può trasformarsi in un'autentica comunicazione, in cui il medico mira a una comprensione empatica e partecipata del paziente. Dinanzi alla radicale tecnicizzazione e spersonalizzazione dell'individuo, le riflessioni di Jaspers rappresentano una guida fondamentale per la riscoperta dell'umanità nell'uomo.
Questo scritto di David Chalmers, filosofo australiano tra i più influenti rappresentanti della "philosophy of mind", ha segnato un importante punto di svolta nelle indagini sulla coscienza. Ricollegandosi al saggio di Thomas Nagel "Cosa si prova ad essere un pipistrello?" (Castelvecchi, 2013), Chalmers sostiene che la coscienza presenta i problemi "facili", che riguardano le diverse modalità dei processi cerebrali e che possono ricevere una spiegazione esaustiva dagli studi neurobiologici, e il problema "difficile", che riguarda invece il significato di avere un'esperienza cosciente. Tale problema, avendo a che fare con l'aspetto soggettivo dell'esperienza, non può ricevere alcuna risposta dalle neuroscienze, che non sono in grado di spiegare il senso che hanno per l'individuo esperienze anche semplici come "vedere il rosso" o "sentire un suono". L'approccio di Chalmers si propone allora di formulare una spiegazione filosofica, che integri concettualmente le descrizioni puramente scientifiche della vita mentale, perché "il problema difficile e un difficile problema, ma non c'è motivo di credere che resterà per sempre insoluto". Questa edizione è completata da una selezione delle risposte dell'autore alle critiche e osservazioni mosse in seguito alla pubblicazione del saggio da alcuni dei più autorevoli studiosi della coscienza.
Il pentimento non è il semplice rifiuto di ciò che si è stati, ma è la volontà determinata ad essere diversi, a individuare la profondità delle proprie colpe e a liberarsi da esse per rinascere a nuova vita. Nelle pagine di questo libro, pubblicate nel 1921 all'interno della sua opera "L'eterno nell'uomo", il filosofo Max Scheler analizza lo spontaneo emergere del senso di colpa che segue gli effetti negativi delle azioni di cui siamo praticamente e moralmente responsabili. Pentirsi significa riconoscere la colpa come propria e, così facendo, elevarsi al di sopra dell'errore compiuto e predisporsi a futuri comportamenti virtuosi. L'autentico pentimento si rivela allora una delle vie più complesse, e spesso dolorose, che mettono in relazione la finitezza della nostra persona umana con l'infinita misericordia divina. Nonostante il riferimento dichiarato alla dottrina cattolica, la riflessione di Scheler supera l'orizzonte confessionale e afferma la possibilità, non potendo eliminare il male, di superarlo volta per volta attraverso l'incessante lavoro su noi stessi. Introduzione di Angela Ales Bello.
Piero Martinetti - "grande rimosso" della filosofia italiana e "pensatore di statura europea", nelle definizioni di Massimo Cacciari - si confronta con l'opera capitale di Spinoza, uno dei fondamenti della filosofia moderna. Spinoza appare agli occhi di Martinetti, un "mistico della ragione", il cui pensiero è accostabile, per tragitto di ricerca, a quello di altri grandi spiriti dell'umanità che, come Lev Tolstoj, seppero far rinascere la religione nel grembo della ragione. Il commento di Martinetti si sviluppa dunque sotto la luce di un'affinità profondamente vissuta, sempre messa alla prova dall'analisi del testo in una costante tensione morale. Al centro, rimane la necessità di trasformare la realtà attraverso la conoscenza e di raggiungere una vera libertà. Libertà che consiste nell'avere conoscenza dei propri affetti e nel saperli, di conseguenza, dominare.
"Per quale ragione si compie allora l'azione morale? Perché Giordano Bruno ha salito il rogo? Forse per la semplice pazzia di non voler ritrattare la propria fede?". In questo libro, pubblicato postumo nel 1942 a cura dell'allievo Alessandro Fersen, Giuseppe Rensi affronta il problema del fondamento razionale dell'etica. Ribadendo l'impossibilità di una dottrina morale universale che sappia guidare la vita in tutti i suoi aspetti, privati e politici, il filosofo conduce una critica serrata delle teorie utilitariste - a cominciare dai padri Jeremy Bentham e John Stuart Mill - e accetta i rischi di una riflessione che si gioca ormai sul confine del nichilismo. Preso atto del fallimento di qualunque giustificazione razionale, l'unica motivazione che possiamo accordare all'agire morale è l'assenza di ragione, la pazzia, magari portandoci a postulare l'esistenza di un demone - il daimon socratico - che ci spinge a operare il bene, anche contro la nostra convenienza e la nostra incolumità. Una morale, dunque, al di là del principio di piacere, anormale, essenzialmente spiritualistica, fondata sulla convinzione che non esistono autorità indiscutibili e inattaccabili che possano essere chiamate a garanzia delle nostre scelte. Prefazione di Nicola Emery.
In Sogno e scetticismo, pubblicato nel gennaio 1956 su «The Philosophical Review» e finora inedito in italiano, il filosofo Norman Malcolm affronta l’argomento cartesiano dell’impossibilità di distinguere la veglia dal sonno. Cosa o chi ci assicura che quando vediamo, tocchiamo, udiamo qualcosa siamo svegli e non ci troviamo dentro un sogno? Quante volte ci è capitato di vivere esperienze oniriche tanto coinvolgenti da farci dubitare, al risveglio, che si trattasse di un’illusione? Queste domande accompagnano la riflessione filosofica fin dalle origini, poiché investono la certezza elementare che ciascuno di noi possiede, o crede di possedere, in ogni momento della giornata: posso affermare di essere sveglio. Mettere in dubbio questa certezza significa minare alla base il corso della nostra quotidianità; per la filosofia significa il trionfo dello scetticismo e la perdita del fondamento stesso della ricerca intellettuale: la verità dell’esperienza. Ma è realmente un problema distinguere l’essere svegli dall’essere addormentati? Qual è il senso logico della domanda «sogno o son desto»? La serrata riflessione di Malcolm mette fine ad ogni argomento scettico, dimostrando che il solo chiedersi se si sta dormendo rivela che si è svegli e che, se veramente stiamo dormendo, e sognando, non possiamo esserne coscienti.
Norman Malcolm (1911-1990)
È stato un filosofo americano. Da studente all’Università del Nebraska si avvicina alla filosofia grazie a Oets Bouwsma e prosegue quindi i suoi studi a Harvard. Nel 1938-39 frequenta l’Università di Cambridge, dove conosce G.E. Moore e Ludwig Wittgenstein, con il quale stringe una sincera e duratura amicizia. Nel 1940-42 insegna all’Università di Princeton, ma deve rinunciare all’incarico per partecipare alla Seconda Guerra Mondiale, arruolato nella Marina militare. Nel 1946 riprende l’insegnamento a Princeton e, dopo aver passato un altro anno a Cambridge con Wittgenstein, assume definitivamente la cattedra di Filosofia alla Cornell University. Nel corso della sua lunga attività di ricerca si occupa principalmente delle nozioni di mente, linguaggio e conoscenza, considerati nella prospettiva della filosofia analitica di tradizione anglosassone. Tra le sue opere: Ludwig Wittgenstein: A Memoir, Problems of Mind: Descartes to Wittgenstein, Memory and Mind.
Per Tagore è l'anima stessa dell'Occidente - i valori del Cristianesimo e della grecità - ad essere per prima tradita dalla deriva di una modernità fondamentale sugli idoli del successo e del denaro. E agli esseri umani di ogni continente, oggi come allora, rivolge l'invito ad assumere una presa di posizione etica nei confronti di quello che ci viene presentato come ineluttabile risultato del progresso.
Questo libro propone una nuova chiave interpretativa per leggere, e superare, la contrapposizione tra idealismo e realismo. Al centro c'è il modo nel quale avviene la conoscenza umana, il rapporto tra l'io e il mondo, campo d'indagine della fenomenologia che non può, e non deve, rimanere chiuso all'interno dei confini della disciplina. Obiettivo della ricerca è allora anche confrontarsi con l'interesse per il realismo che caratterizza il dibattito contemporaneo, nell'intento di scardinarne gli automatismi e i pregiudizi. Angela Ales Bello rileva come alla base della controversia tra realismo e idealismo ci siano spesso equivoci di natura semantica e, risalendo alle origini della fenomenologia moderna, mette in discussione l'interpretazione del concetto husserliano di idealismo trascendentale. Lungo questa strada - disinnescando gli estremi di un idealismo acritico e di un realismo ingenuo - la filosofa giunge a proporre un "realismo trascendentale", orizzonte di un'unità dinamica che abbraccia il processo conoscitivo e che fonda la correlazione, non la subordinazione, di soggetto e oggetto. L'indagine di questa reciprocità oltrepassa così i confini dell'ambito gnoseologico, e conduce alle domande fondamentali sul senso ultimo delle cose e sulla loro origine.
È possibile commettere uno spergiuro non per trasgressione deliberata, ma per semplice distrazione? Il quesito non ci porta solo a chiederci se possiamo considerare questa un'attenuante, ma anche a riflettere sulla natura del giuramento e sulla sua infrazione, sulle strutture logiche e psicologiche che sostengono ogni patto e il suo, forse inevitabile, tradimento. Per Derrida che ai concetti di spergiuro, confessione e perdono ha dedicato l'ultimo tratto del suo percorso filosofico - ogni relazione sociale, a cominciare dal matrimonio, si fonda sul giuramento, una promessa, e sullo spergiuro, la rottura di quella promessa. In questo testo ironico, spiazzante e implacabile, il filosofo esplora il labile confine tra finzione e realtà, esamina la menzogna insita nell'atto del narrare, intreccia analisi letteraria e sociologia, diritto e religione. Al lettore, sedotto e disorientato, non resta che riesaminare le proprie categorie etiche, e forse la sua stessa identità di soggetto.
Il tema di questo libro è il corretto metodo per ottenere la perfezione umana, che nella concezione di Al-Fârâbi si identifica con la felicità e con la filosofia. Per lui - primo dei grandi filosofi musulmani e primo a riportare alla luce il pensiero greco nel mondo profondamente mutato delle religioni monoteiste - il raggiungimento della felicità è indissolubilmente legato a un ordine politico, a quello che Platone ha definito "regime virtuoso". Al-Fârâbi accoglie la visione gerarchica della filosofia platonica e l'ideale di un "governante supremo" che deve essere principe, imam e filosofo. Ma, nella ferrea logica che lo porta a disegnare la struttura di una società perfetta e quindi felice, si scontra con la difficoltà di conciliare l'indipendenza della ricerca filosofica con la religione rivelata, "la felicità terrena in questa vita e la felicità suprema in quella a venire". Prima parte di una trilogia che prosegue con "La filosofia di Platone" e "La filosofia di Aristotele" e che era nota col titolo "Le due filosofie", questo trattato è anche un mezzo per comprendere meglio la filosofia della Grecia classica e il modo in cui questa ha influenzato, nel corso dei secoli, la nostra civiltà.