Chi sono i banditi? Criminali comuni, assassini, ladri, disperati. E ancora: nobili decaduti, artigiani, contadini, giovani ribelli che non accettano il giogo attorno al collo, sia quando viene da un aristocratico del luogo sia quando arriva da un invasore straniero. La loro presenza causa incertezza nelle strade, difficoltà nelle comunicazioni, violenza diffusa. E tuttavia, quando c'è aria di mutamenti di regime essi rappresentano un'opportunità per i potenti che li utilizzano contro i propri nemici. Il libro offre un ampio affresco della reazione ai fenomeni di banditismo dagli albori dell'età moderna fino alla repressione messa in atto nei primi decenni dell'Italia Unita. Emerge un quadro complesso che vede al centro questioni sociali legate alla terra. La lotta del regno sabaudo contro il brigantaggio propriamente detto è quindi solo l'ultimo capitolo di una secolare storia di sanguinose repressioni, in cui i poteri statali che si sono via via avvicendati non sono stati in grado di trovare altra risposta che non fosse il sangue. Certo, è soprattutto in uno stato che si definisce liberale che colpisce la delega assoluta concessa ai militari che governano con leggi eccezionali, stati d'assedio e tribunali militari. Ma Enzo Ciconte ci ricorda che quanto è accaduto nel Mezzogiorno non può essere attribuito alla responsabilità dei soli piemontesi: le truppe venute dal Nord sono state aiutate con le armi da tanti meridionali espressione di una borghesia in ascesa.
Rendere omaggio ai boss della mafia o ai loro familiari facendo inchinare le statue dei santi durante le processioni è un aspetto della più ampia religiosità diffusa in molte aree del Mezzogiorno, ma anche in alcune realtà del nord Italia. Liquidato come gesto pagano e premoderno, esso in realtà richiede una lettura in grado di comprendere la complessa e più generale macchina rituale della festa. Le famiglie mafiose talvolta provano a controllare i tempi e i ritmi delle processioni religiose e, occupando una precisa posizione sotto le vare, decidere il movimento delle statue possono gestire i tempi, i luoghi e le modalità dello sparo dei fuochi d'artificio e così rappresentare pubblicamente il proprio status sociale e i rapporti di forza tra uomini. Questi esperti manipolatori dello spazio pubblico guidano auto di grossa cilindrata, maneggiano armi e droga e investono in complesse operazioni finanziarie non sono dunque gli attori di una società arcaica, ma esponenti del cosiddetto casinò capitalism.
Storia di un mafioso convertito a Medjugorje. Una realtà incredibile, sconvolgente, tenebrosa, diabolica, ma affascinante perché diventa luminosa per l’eternità, con l’intercessione della Madonna, tanto da sembrare un miracolo!
Note sull'autore
Giuseppe Cionchi è nato nel 1929 a Stacciola di San Costanzo (PU). Ordinato sacerdote nel 1951, ha insegnato in seminario ed è stato direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano, dell’Ufficio Scuola e del settimanale diocesano “La Voce Misena”. È laureato in teologia pastorale presso l’Università Lateranense e è diplomato in pedagogia catechistica presso la Pontificia Università Salesiana di Roma. Ha insegnato per oltre trent’anni in vari istituti d’istruzione superiore, all’Università di Urbino e in altre università. Ha trasmesso su Radio Maria per dieci anni e ha pubblicato diverse opere per la catechesi e per la scuola. Attualmente esercita il ministero liturgico presso la chiesa della Croce di Senigallia.
La mafia è storia di un intreccio osceno di interessi, affari comuni e favori reciproci con pezzi del mondo legale. Lungi dall’essere un nemico invisibile, è da sempre ben conosciuta anche dai governi del Paese. Un nemico addirittura, a volte, volentieri tollerato.
«Ci si può stupire se un mafioso chiede il pizzo a un negoziante? Se ricatta? Se uccide? È un mafioso, che cosa vuoi che faccia? Alla fine le mosse di un mafioso le puoi prevedere. È la gran parte ‘sana’ della società a essere imprevedibile e a fingere. Finge di non sapere, finge di non capire, finge di non potere, finge che quel che accade non la riguardi. Insomma, finge di essere ‘sana’. Finge così tanto che, forse, ci crede veramente. È una ‘associazione di finzione mafiosa’. Io non ho paura del mafioso, ho paura del mio vicino che finge di essere come me.»
PIF (Pierfrancesco Diliberto)
Oltre un ventennio ci separa dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 e da quelle di Firenze, Milano e Roma del 1993. Una tragedia nazionale che sembrò scuotere definitivamente le coscienze e provocare una reazione finalmente determinata dello Stato contro la criminalità organizzata. Eppure, la mafia è tornata a essere molto forte. Per capire le ragioni del suo radicamento dobbiamo volgere indietro lo sguardo e ripercorrere una serie di tappe che dalla strage di Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947, arrivano fino a oggi. Ricostruendo questa storia, Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte mostrano che le mafie non sono tanto il prodotto di una arretratezza economica e culturale, quanto di una caratteristica perversa della società e dello Stato italiani. Cosa nostra è una organizzazione criminale che ha affermato, troppo spesso in maniera indisturbata, la propria ‘sovranità’ di Stato illegale. Come tutti gli Stati, anche Cosa nostra ha una sua politica interna e un suo ordinamento giuridico. E ancora, come tutti gli Stati, pure Cosa nostra ha un suo sistema funzionale ed efficace di relazioni esterne. La mafia non va dunque affrontata come semplice fatto criminale: costituisce invece l’esplicazione di un modello inquinato e inquinante che ostacola lo sviluppo del Mezzogiorno e del Paese.
Il volume intende offrire una disamina dei numerosi interventi normativi adottati, negli ultimi anni, dalla Chiesa cattolica contro mafie e corruzione. In assenza di una normativa di carattere universale, tale impegno si è finora tradotto nell'emanazione di "normative canoniche antimafia" da parte delle Chiese particolari che, in molti casi, hanno rappresentato il risultato di direttive comuni elaborate d'intesa tra i Vescovi delle relative Conferenze Episcopali Regionali. Soprattutto le Diocesi del Mezzogiorno d'Italia si sono così munite di apposite disposizioni dirette a prevenire le possibili infiltrazioni del crimine organizzato nelle associazioni ecclesiali, anche attraverso la comminazione di specifiche sanzioni per gli affiliati alle cosche. Particolarmente rilevante è stata, inoltre, la produzione normativa in tema di feste religiose, materia che investe la dinamica dei rapporti tra ordinamento canonico e ordinamento statuale, entrambi chiamati, seppure da prospettive diverse, «alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese» anche attraverso la previsione di un'adeguata azione di contrasto al crimine organizzato e al fenomeno corruttivo.
Anche nel sordido mondo della criminalità e dell'illegalità la sopravvivenza è regolata dalla legge darwiniana dell'evoluzione e dell'adattamento all'ambiente, come dimostra la storia della 'ndrangheta che, proprio in virtù della sua straordinaria capacità mimetica, è diventata una delle organizzazioni mafiose più ricche e potenti del pianeta. Ma come sono fatti gli 'ndranghetisti del terzo millennio? Come vivono? Come si vestono? Come gestiscono i loro affari? Come si riconoscono? Continuando nel loro infaticabile quanto meritorio tentativo di indagare una realtà criminale sommersa e misteriosa, e di dare un volto agli «invisibili», Nicola Gratteri, magistrato da trent'anni in prima fila nella lotta alla mafia calabrese, e Antonio Nicaso, docente universitario che da trent'anni le dedica la propria attività di studioso, analizzano la 'ndrangheta 2.0, sempre più collusiva e sempre meno violenta, e i suoi rapporti con i centri di potere economico, politico e finanziario, con la massoneria deviata, con il narcotraffico, con il «deep web» e con i social network. Ne descrivono i boss, inclini al basso profilo e ostili ai gesti eclatanti e alle clamorose dimostrazioni di forza, ma attivamente impegnati nello spietato governo del territorio, nella corruzione e infiltrazione delle istituzioni e dell'economia legale e nel soddisfare la «domanda di mafia» legata alla globalizzazione e alla creazione di un unico mercato mondiale, dove imprenditori e operatori economici, in Italia e all'estero, chiedono alla criminalità beni e servizi necessari per abbattere i costi di produzione, elevare i margini di profitto e acquisire competitività. Ma Gratteri e Nicaso raccontano anche l'altra faccia della 'ndrangheta, quella che lascia ora intravedere le prime crepe in un secolare e apparentemente inscalfibile muro di omertà: i rampolli dei boss che si decidono - o convincono i padri - a collaborare con la giustizia, le mogli e le figlie che si ribellano e gli affiliati che non hanno più paura di esibire pubblicamente la loro omosessualità. «Quella contro la 'ndrangheta» concludono gli autori «è una battaglia che è possibile vincere, ponendo mano ai codici nella speranza di trovare una forte convergenza politica su una battaglia di civiltà. Contro mafie e corruzione, due mali endemici che costituiscono una zavorra e una gravissima minaccia sul presente e sul futuro del nostro Paese».
"Non voglio parlarvi della mafia come protagonista, ma come obiettivo di una lotta per l'onestà. Voglio spiegarvi perché Borsellino, Chinnici, Falcone, La Torre, Mattarella e molti altri sono stati uccisi, spiegare come sono cambiati gli strumenti per combattere questa guerra e dirvi dei risultati che abbiamo conseguito come di quello che ancora dobbiamo e possiamo fare."
Ci sono molte storie della criminalità organizzata, ma poco è stato scritto sull'antimafia, su cos'è davvero e cosa ha fatto negli ultimi cinquant'anni. Lo fa Luciano Violante in questo libro che ricostruisce eventi, protagonisti e significato di una battaglia in corso che lo ha visto a lungo impegnato in prima persona. Una ricostruzione puntuale e appassionata, indirizzata anzitutto alle nuove generazioni, che racconta le storie di giornalisti, amministratori, poliziotti, giudici, sacerdoti, anche dei meno noti; ma anche la battaglia per la confisca dei beni sequestrati, l'introduzione di misure carcerarie, lo scioglimento dei consigli comunali, le commissioni antimafia e le grandi inchieste fino al processo Andreotti e alla presunta trattativa tra Stato e mafia. Una storia civile che non possiamo dimenticare e un appello autorevole per il futuro che aiuta a comprendere che la mafia non è un mostro invincibile ma un'organizzazione di uomini e donne che si può combattere cercando anzitutto di "colpire per primi" con l'educazione alla legalità, a partire dalla scuola e dai più giovani.
"La lotta contro la mafia è una chiave di lettura della nostra storia, dei nostri cedimenti, ma anche del coraggio di migliaia di uomini e donne, in gran parte sconosciuti, che hanno contribuito a farci restare in un Paese di persone e istituzioni libere nonostante le stragi, le intimidazioni, la corruzione La storia dell'antimafia non è la storia d'Italia, ma serve a capirla e a guardare avanti."
Luciano Violante, già professore ordinario di diritto e procedura penale all'Università di Camerino e a lungo magistrato e parlamentare del Poi, del Pds e dei Ds, è stato presidente della Camera dei Deputati e presidente della Commissione antimafia. Per Einaudi ha curato alcuni volumi degli Annali della Storia d'Italia. Come autore ha pubblicato tra l'altro Non è la piovra (1994), Un mondo asimmetrico (2003), Magistrati (2009), Politica e menzogna (2013), Il dovere di avere doveri (2014), Democrazie senza memoria (2017) e, con Marta Cartabia, Giustizia e mito (2018).
Questo libro nasce da un fenomeno recente di grande importanza: per la prima volta nella storia della 'Ndrangheta le figlie e le mogli dei boss collaborano con la giustizia denunciando le loro famiglie. Lo fanno per strappare i propri figli a un ineluttabile destino criminale, ma soprattutto per sfuggire loro stesse al "codice d'onore". Si tratta delle linee guida dei membri della mafia calabrese che si definiscono, a loro volta, uomini d'onore. Direttive che servono a far carriera nel crimine, tramandate per via orale e che negli ultimi decenni hanno trovato conferme scritte o sono state riferite agli inquirenti dai collaboratori di giustizia. Un esempio è la vendetta che incombe sulle donne di 'Ndrangheta che tradiscono il marito o la famiglia: la morte. Un rito feroce di cui i padri devono farsi garanti per rimediare "all'onta" subita, in nome di ciò che emancipazione, cultura e buonsenso definirebbero piú come "codice del disonore".
"La spugna d’oro" è il frutto di una ricerca durata dieci anni tra gli archivi siciliani e alcune tra le più importanti biblioteche europee, in particolare la BNF di Parigi.
L’autore arriva a delineare l’oggetto sfuggente del suo studio solo dopo aver percorso una lunga - e non frequentata - strada, quella della storia politica della Sicilia. Tutto comincia con un sovrano, Federico III d’Aragona, che nella turbolente fase post-Vespri per mantenersi al potere è costretto ad offrire ai feudatari siciliani buona parte delle competenze e dei beni che appartenevano alla corona: da qui comincia una dinamica di continuo logorio del potere centrale da parte dei poteri periferici rappresentati dai feudatari, legittimati dalle ‘costituzioni’ di Federico, i quali diventano (e permangono nel corso di secoli) signori assoluti di buona parte del territorio isolano. In Sicilia nasce quindi una pratica politica che non si trova da nessun altra parte, in cui al centro del confronto pattizio tra la classe dirigente locale e il sovrano (che dal 1400 circa in poi risiederà fuori) c’è il demanio regale: si verifica il paradosso di sovrani che nel parlamento siciliano - il luogo di ogni compromesso pattizio - mettono in vendita parte dello ‘Stato’ per avere il denaro che consenta loro di riacquistarne parti vendute precedentemente. In Sicilia si sviluppa un’ideologia originale che l’autore chiama con un neologismo nazionalautonomismo, che consiste in una concezione flessibile della nazione che è tale solo nella misura in cui garantisce pattiziamente le prerogative autonomistiche, cioè gli interessi dei potentati locali. Nel meccanismo di funzionamento e di riproduzione del sistema vicereale-parlamentare che per secoli governa l’isola, un ingranaggio essenziale era costituito da quelle strutture adibite alla violenza e al controllo dell’ordine pubblico, con una storia tutta a sé stante di Palermo, centro della dinamica pattizia da cui partivano e in cui confluivano le diramazioni politico-amministrative-economiche dall’intera isola. La fine del parlamento nel 1816 crea un vuoto che viene riempito dalla polvere del crollo delle suddette strutture che nel corso dell’Ottocento si rideposita creando un nuovo aggregato: la mafia. Un aggregato composto da una strana caratteristica mistura di vecchio, anche molto vecchio, e nuovo.
Arcaica e stracciona, dedita alla sopraffazione e al sopruso, la Picciotteria calabrese di fine Ottocento sembrava destinata a rimanere ancorata ai miti, ai riti e ai codici di comportamento nati nelle carceri borboniche sul calco di quelli delle società segrete risorgimentali. E invece, proprio allora, inizia una rivoluzione silenziosa che trasformerà il suo volto rurale in quello imprenditoriale della 'ndrangheta odierna, spregiudicata e spietata multinazionale del crimine, capace di adeguarsi alle mutevoli sfide del mercato globale. A innescare questa metamorfosi a cavallo dei due secoli è la «scoperta» dell'America. Sbarcati nel Nuovo Mondo insieme a decine di migliaia di onesti braccianti, i «maffiosi» calabresi, a differenza dei meno accorti confratelli siciliani e campani, scelgono il basso profilo per ricostituire la loro rete malavitosa, fatta di capi, gregari e leggende (su tutte, quella del «brigante» Musolino), che lucra lauti profitti sulla pelle dei lavoratori italiani (come i minatori di Carbondale, in Pennsylvania) e di centinaia di giovani immigrate indotte a prostituirsi nei resort di Manhattan e di Chicago, prima di reggere le fila del commercio clandestino di alcolici e del narcotraffico. Nasce così la 'ndrangheta imprenditrice d'oltreoceano, che stringe mani, stipula accordi e riesce a infiltrarsi nel sancta sanctorum delle élite sociali, a partire da Tammany Hall, potente macchina elettorale del Partito democratico nonché padrona incontrastata di New York, con la quale instaura un rapporto di mutua assistenza: voti in cambio di protezione e favori. Fino a proiettare pesantemente la sua ombra sulla scena del delitto Petrosino. Una volta tornati in Calabria, saranno gli «americani» a imporre all'organizzazione la nuova strategia criminale (controllo del territorio e collusione con politica e istituzioni), avviando quel processo che, in pochi decenni, farà della 'ndrangheta una delle mafie più potenti e pervasive al mondo. Dopo un lungo lavoro di ricerca condotto su una vastissima mole di documenti, in gran parte inediti, Antonio Nicaso, Maria Barillà e Vittorio Amaddeo ricostruiscono la storia di questa mutazione criminale della 'ndrangheta in terra americana. Prefazione di Nicola Gratteri.
«Ci sono storie che scegliamo noi di raccontare, le selezioniamo tra le mille da cui ogni giorno veniamo bombardati, e le curiamo, le coltiviamo fino a quando non sono pronte per andare in onda. Poi ce ne sono altre che, invece, si scelgono da sole; se ne stanno lì nascoste in qualche cassetto, in qualche ritaglio di giornale, e al momento giusto saltano fuori, ti chiamano, si rubano la scena. E a te non resta altro che lasciarle fare e ammirare in silenzio lo spettacolo.
Le prime sono, numericamente, la maggior parte. Sono quelle che compongono il nostro panorama informativo. Un po’ dei “polli da batteria”, diciamoci la verità, ma il nostro lavoro è fatto anche di questo.
Le seconde sono rarissime, però speciali. Hanno una vita tutta loro, durano quanto vogliono, vanno dove gli pare. E tu non le puoi fermare, non le puoi indirizzare. Al massimo puoi provare a capirle prima degli altri, per spiegarle meglio al pubblico, per farle “tue”.
La storia delle sorelle Napoli appartiene a questa seconda categoria. Dal momento in cui la lessi per la prima volta, sulle pagine della cronaca di Palermo della “Repubblica”, mi resi conto che dentro c’era qualcosa di fatale. Lì per lì non sapevo nemmeno io cosa fosse, ma dentro di me sapevo che nella battaglia condotta da quelle tre donne indomite contro la mafia c’era qualcosa che andava oltre ogni stereotipo.
Inizialmente pensai che ad attirare la mia attenzione fosse il contrasto femmine­­­-mafia: ho sempre sostenuto che la mafia sia un termine femminile “per inganno”, essendo invece la mafia in sé quanto di più maschile e maschilista si possa immaginare. Ma piano piano, puntata dopo puntata, mentre il grande pubblico si appassionava alla vicenda incredibile e vergognosa di Marianna, Ina e Irene, mi rendevo conto che nei fatti che si susseguivano nelle campagne di Mezzojuso c’era anche dell’altro. C’era, sempre sospesa fra tragedia e operetta, l’eterna messinscena del potere. Una specialità molto italiana. Un teatro del reale nel quale distinguere i personaggi buoni da quelli cattivi, i giusti dagli ingiusti, non è solo complicato, è del tutto inutile. Perché l’unico criterio che distingue le persone, in posti come Mezzojuso, ma anche come Roma, Milano e Torino, nell’Italia del 2020, è un altro: chi ha il potere e chi non ce l’ha.
A ben guardare, tutto si riduceva a questo. Alla battaglia, antica come il mondo, tra potenti e soggiogati. Una battaglia che queste tre donne, in assoluta solitudine, hanno combattuto con fierezza e dignità. E che, alla fine, hanno vinto.»
Elda ripensa al coraggio e a quello che significa. Vuol dire lottare, ma vuol dire anche rischiare. Spegne la luce. Marina già dorme. Ripensa anche al significato del suo nome, battaglia. E sente che quella vera deve ancora combatterla. Con le fotografie e un ricordo di Letizia Battaglia. Età di lettura: da 10 anni.