Non ci sarebbe bisogno di leggi, di regole, di comandamenti, se non ci fossero uomini e donne disposti all'imbroglio, alla menzogna, al furto, al falso giuramento e all'omicidio. Eppure - sostiene Ágnes Heller - fino a quando la capacità di distinguere il bene dal male prevale sugli altri princìpi, resta valido un punto centrale di riferimento morale. «Certamente ogni persona retta lo è in modo diverso, ciascuno a suo modo, ma l'uomo e la donna retta rimangono sempre colui o colei che preferirebbe, se fosse posto di fronte a una scelta, soffrire un'ingiustizia piuttosto che commetterla, subire un torto piuttosto che farlo di proposito a un altro». Tuttavia, la rettitudine non è immediatamente identificabile con la bontà o con la scelta della sofferenza come testimonianza morale. L'irreprensibilità di una persona retta è molto più modesta: essa sceglie di soffrire solo nel caso in cui l'unica alternativa alla sua sofferenza sia la causa indiretta della sofferenza altrui.
Da tempo stiamo vivendo una «rivoluzione digitale», un cambiamento profondo nel nostro modo di agire e di pensare dovuto all'incidenza sempre più massiccia delle nuove tecnologie. Esse facilitano la conoscenza, la possibilità di inclusione e l'accesso alle informazioni e, al tempo stesso, rendono comuni forme di esperienza in cui il tempo diviene disarticolato, puntiforme, scollegato, esploso.
Paghiamo la capacità di seguire contemporaneamente più cose con una perdita effettiva di concentrazione e di attenzione. Abbiamo difficoltà a comprendere testi lunghi e, soprattutto, narrazioni complesse. Ci troviamo immersi in una situazione inedita, che non può essere affrontata adeguatamente riferendosi alle categorie di progresso e di regresso.
In questo contesto, la filosofia pub presentarsi come rivoluzionaria. Nulla è infatti più rivoluzionano di ciò che conserva la vocazione all'utopia e delinea scenari alternativi. Anche se ci priviamo del tempo per viverli.
La riflessione pedagogica e teologica di Rubem Alves, proposta nel volume attraverso una selezione di racconti, rivela al tempo stesso un carattere eretico ed erotico. Prima ancora dei comportamenti, osserva l'intellettuale brasiliano, bisogna cambiare gli sguardi e le visioni, ma anche superare una concezione della soggettività centrata sul "cogito" ripensando il soggetto a partire dal corpo. Per questo è necessario che l'apprendimento sia un'estensione progressiva della nostra dimensione corporea, in grado di crescere provando il piacere della contemplazione della natura, il fascino dei cieli stellati, la sensibilità tattile verso le cose, la gradevolezza della conversazione, delle storie e delle fantasie, ma anche del cibo, della musica, del riso, del far niente. "A me piacerebbe - scrive Alves - che nelle scuole si parlasse dell'orrore delle spade e della bellezza degli aratri, del dolore delle lance e del piacere delle cesoie da giardino". Prefazione di Mauro Castagnaro.
L'ultima lezione che Raymond Aron tenne al Collège de France il 4 aprile 1978 - qui proposta per la prima volta in italiano - lascia trasparire l'inquietudine civica che è stata la molla del pensiero e dell'azione del filosofo francese. La rappresentazione del liberalismo e della democrazia è dominata dall'idea formale di una "procedura", sia essa quella del mercato o della garanzia dei diritti, valida in sé e in grado di produrre i suoi effetti indipendentemente dalle disposizioni degli associati o dei cittadini. L'azione che può e deve essere valutata secondo le virtù cardinali - più o meno coraggiosa, giusta, prudente - non trova praticamente posto, perché l'unica virtù richiesta è quella di applicare le regole che daranno soddisfazione a interessi e garantiranno tutele. In un contesto sociale che sembra aver fatto una scelta senza riserve per la libertà a scapito della verità, Aron interroga la "crisi morale delle democrazie liberali". L'inquietudine che le tormenta può tradursi nelle condotte più irragionevoli. Segno che esse non possono rassegnarsi all'assenza di un bene comune ampiamente condiviso, pur rinunciando a una comune verità.
Evoluzione e libertà sono le due parole chiave del pensiero di Hans Jonas, espresso mirabilmente nel saggio, una sorta di concentrato della sua biologia filosofica e forse la migliore testimonianza della sostanziale continuità della sua riflessione sulla filosofia della vita, al di là del prevalere, nelle diverse fasi del suo pensiero, di interessi storico-filosofici o di interessi più propriamente etici. Tesi principale è che la libertà tradizionalmente considerata appannaggio degli ambiti prettamente umani dello spirito e della volontà - sia viceversa già presente a livello del metabolismo cellulare, il fenomeno più basilare che caratterizza l'organismo vivente. Essa non connota, cioè, esclusivamente l'agire conscio e intenzionale dell'essere umano, ma è piuttosto il denominatore comune di tutti gli appartenenti alla categoria dell'"organico" e segna la linea di confine con quanti non vi rientrano, dunque con l'inorganico, la macchina e l'artefatto. La libertà si squaderna per Jonas in una gradazione ascendente di complessità delle funzioni e dei movimenti, i cui vari livelli costituiscono configurazioni sempre più articolate, approfondite ed "evolute" della dialettica precaria che le è intrinseca.
Il pensiero contemporaneo ha spesso confrontato - e talvolta contrapposto valori e virtù, che esigono di essere riscoperti e argomentati nel loro nesso, alla confluenza tra uno slancio ideale che deve salvaguardare la capacità profetica rispetto al presente e un "realismo delle circostanze" capace di assumersi la responsabilità di vivere ciò che è proclamato a parole. Quel nesso permette di enunciare alcune tesi: 1) I valori non mancano e non sono in crisi, ma è difficile trovare uomini virtuosi capaci di incarnarli a servizio del reale bene della persona e della società; 2) Nessun nuovo ordo amoris (ordine del cuore, ordine dei valori, ordine delle cose significative e prioritarie) può essere proposto solo per sé, perché qualsiasi scelta individuale propone con efficacia una specifica idea di uomo; 3) Ogni etica è un'etica di rilevanza pubblica, anzi una etica pubblica essa stessa. Solo il virtuoso incarna i valori e per loro mezzo consegue un bene oggettivo, per sé e per gli altri. Egli interseca la libertà di scelta alla libertà di adesione: raccoglie cioè la provocazione, tipica delle etiche dei valori, a eleggere specifici aspetti della realtà escludendone altri, eppure sa anche perseverare nel bene, senza retrocederne, nelle situazioni che valorialmente non approverebbe, ma con cui deve esistenzialmente apprendere a mediare.
Con la liquidazione della cornice e del concetto di bellezza qualunque oggetto rischia di essere considerato, in quanto tale o perché disposto da mano umana, un'opera artistica. La giustificazione di ogni singolarità porta con sé l'imprevisto della banalizzazione e l'arte contemporanea viene interpellata sull'inaridimento delle proprie fonti di ispirazione e sul presunto desiderio di sostituire la religione prendendone il posto. Il volume, che si colloca all'intreccio tra le dimensioni politica, morale e religiosa, si interroga sulla realtà e sulla vitalità delle arti contemporanee senza nulla concedere a inclinazioni pessimistiche, apocalittiche o "declinistiche". L'autore, uno dei maggiori studiosi del pensiero di Nietzsche, si propone di individuare alcune "pagliuzze" nella paccottiglia, memore della reazione di Diderot ai sistematici detrattori dell'arte contemporanea: "Tu rimesti la sabbia di un fiume che trasporta pagliuzze d'oro, e ne ritorni le mani piene di sabbia, lasciando le pagliuzze".
"La Bibbia non è stata scritta per i biblisti, né il Don Chisciotte per gli studiosi di Cervantes, né la Divina Commedia per gli esperti di Dante". Luis Alonso Schökel ricorre all'aforisma per sintetizzare la finalità di questi "appunti", raccolti in quasi quarant'anni di insegnamento al Pontificio Istituto Biblico e rielaborati con l'aiuto del suo allievo José María Bravo Aragón. Riflessione teorica sulla comprensione, la spiegazione e l'interpretazione dei testi letterari, l'ermeneutica si differenzia sia dal metodo esegetico (il modo sistematico di procedere nella comprensione) che dall'esegesi (l'esercizio della comprensione e dell'interpretazione). E si configura come la disciplina che riflette sul modo di dialogare con la pagina scritta, con il mondo dell'autore che l'ha generata e con quello del lettore che intende comprenderla.
La ricerca del principio ultimo della conoscenza ha inseguito, sin dalle origini, ciò che limita e convalida la ragione nelle sue diverse attività. E se il pensiero antico ha misurato la potenza del discorso e legittimato i suoi princìpi logici mediante ciò che li trascende, la riflessione contemporanea ha insistito sul ruolo dei valori e dell'affettività nel determinare i campi delle investigazioni scientifiche. La ragione non è solo un'attività neutra di conoscenza poiché si radica, in ultima analisi, nell'aspirazione di incontrare l'altro, di rispettarlo nella sua irriducibilità.
L'introduzione alla metafisica proposta dall'autore è attenta alla svolta trascendentale della modernità e integra molti aspetti di un'antropologia delle facoltà umane, soprattutto dei gradi di conoscenza (sensibilità, ragione, intelletto) interpretati nella direzione di un'etica intersoggettiva. La categoria chiave è «atto d'essere», inteso senza assoggettamento alle pretese razionaliste delle scienze contemporanee, né alle nozioni formali dei manuali della scolastica. La riflessione procede prendendo in esame le questioni della metafisica contemporanea e delle sue categorie essenziali, per esempio la «differenza» o la «persona», e altri temi della fenomenologia contemporanea nei suoi aspetti metafisici o fondamentali.
Sommario
Avvertenza. Introduzione. Capitolo primo. Che cos'è la metafisica. Capitolo secondo. L'ente, l'esistente e lo Spirito. Capitolo terzo. Il metodo in metafisica. Capitolo quarto. Una disposizione fondamentale. Capitolo quinto. Ontologia. Capitolo sesto. La sensibilità. Capitolo settimo. La ragione. Capitolo ottavo. Rendere ragione. Capitolo nono. Le scienze esatte. Capitolo decimo. L'intelletto e l'atto. Capitolo undicesimo. L'atto e la persona. Conclusione. Bibliografia.
Note sull'autore
Gilbert, gesuita, è titolare della cattedra di Metafisica alla Pontificia Università Gregoriana e decano della Facoltà di Filosofia. È autore di oltre duecento articoli pubblicati in una decina di Paesi, collaboratore della Nouvelle revue théologique e di Civiltà Cattolica e membro del comitato scientifico di Annuario, Rivista di filosofia neoscolastica e Sintese. Ha pubblicato, tra l'altro, Sapere e sperare (Vita e Pensiero, 2003), Violence et compassion (Éditions du Cerf, 2008), Le ragioni della sapienza (G&BPress, 2011). Il volume, apparso la prima volta da Piemme nel 1983, viene riproposto in una seconda edizione corretta e completata.
Il saggio, concepito espressamente per il pubblico italiano, illustra la direzione che ha assunto negli ultimi anni la riflessione di Charles Taylor sulla secolarità. Da un lato il filosofo canadese sembra interessato a contestualizzare ulteriormente la traiettoria secolarizzante moderna proiettandola sull'orizzonte di un ampio tempo storico. Poiché i successi incontestabili della modernità occidentale hanno da sempre esercitato, al suo interno e all'esterno, un fascino quasi ipnotico, per lo studioso è importante resistere al loro potere di suggestione diluendone l'impatto e la significatività grazie all'effetto calmierante della lunga durata. La seconda leva utilizzata da Taylor per rendere meno ovvio l'orientamento secolarista della mentalità moderna consiste nella moltiplicazione dei significati della modernità, della reiterazione del suo progetto in una prospettiva globale: in una parola, nel "provincializzare l'Europa". Davvero esiste un unico modello di laicità? O un solo prototipo di libertà, individualismo, autorealizzazione? Per chi è scettico riguardo alla pretesa arrogante della civiltà occidentale di aver esaurito l'intero spettro delle possibilità di espressione umane, una delle principali fonti di interesse è rappresentata proprio dagli effetti imprevedibili, e spesso rigeneranti, della migrazione da un angolo all'altro del pianeta delle teorie e pratiche escogitate in risposta a specifiche difficili sfide storiche.
Tolleranza e riconoscimento sono due concetti allo stesso tempo familiari e opachi. Ciascuno di noi ne ha una comprensione intuitiva, ma più che idee chiare e distinte, sembrano le sedi naturali di un infinito conflitto di interpretazioni. Eppure, alle due categorie è affidato un ruolo politico strategico allorché si discute nelle nostre società circa i modi in cui andrebbe affrontata la questione della pluralità culturale e religiosa. È sufficiente tollerare ed essere tollerati? Oppure quello che pretendiamo è di essere visti, riconosciuti, stimati, apprezzati per ciò che possiamo offrire alla comunità di cui facciamo parte, non a dispetto, ma grazie alle nostre identità diverse e irriducibili? Il problema è allo stesso tempo storico, concettuale e pratico e in questi termini viene affrontato dagli autori di un volume che ha l'ambizione di accompagnare il lettore proprio nel centro di una contesa decisiva del nostro tempo. Il libro raccoglie quasi tutte le relazioni tenute all'interno del ciclo di conferenze sul tema della tolleranza e del riconoscimento organizzato dal Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler (FBK) tra ottobre 2012 e febbraio 2013 In appendice al libro viene pubblicata (con l'assistenza scientifica di F. Forte) una Tavola rotonda sull'Islam e il pluralismo religioso, tenutasi sempre nei locali della Fondazione Bruno Kessler, il 18 aprile 2013.
La diagnosi di una complessità sempre maggiore del mondo, della vita, dei fenomeni che toccano la nostra esistenza, e hanno la possibilità di deciderne il futuro, è ormai divenuta un luogo comune e con ciò ha perso la sua forza di allerta, di sfida e invito al pensiero. Quasi mimando i dati di fatto, anche il sapere si è scomposto e parcellizzato generando l'illusione che la specializzazione, accanita nella sua frammentazione, possa essere l'unico antidoto per riuscire a rimanere a galla nei mari inesplorati del nostro tempo. In questo modo la questione vitale dell'umano si giocherebbe sul piano della "quantità", dell'accumulo, e il problema rimarrebbe solo quello del semplice intreccio di una massa enorme di dati. Così facendo, però, sfugge all'attenzione il fatto cruciale, cioè che non disponiamo di un linguaggio e di un pensiero in grado di esprimere la realtà che le teorie vanno elaborando. Eppure quelle teorie pongono questioni e aprono orizzonti che dovrebbero essere cari all'esercizio di una ragione, tanto critica quanto appassionata, per il destino dell'uomo così come ci è stato consegnato dallo spirito umanistico della cultura europea.