La pratica della meditazione accompagna tutta la storia della cultura, in ogni tempo e a ogni latitudine, e affonda profonde radici in Oriente ma anche nelle tradizioni a noi più vicine di ebraismo, cristianesimo, islam. Dalla mistica ebraica all'ascesi cristiana e al sufismo, questo libro ci fa viaggiare attraverso i secoli per riscoprire uno degli aspetti più suggestivi della dimensione spirituale dell'umanità. Quando parliamo di 'meditazione' ci riferiamo prevalentemente all'insieme di pratiche di concentrazione e di raccoglimento tipiche di molte filosofie o religioni orientali, volte al raggiungimento del benessere personale. Ma esiste un'accezione più ampia del termine, in cui far rientrare non solo la cultura orientale ma anche tradizioni legate alla storia della spiritualità e del pensiero in Occidente: se per 'meditazione' possiamo intendere ogni attività di raccoglimento tesa all'incontro con una dimensione assoluta, scopriremo che è possibile rintracciare delle vie della meditazione nell'ebraismo, nel cristianesimo, nell'islam. E se in ciascuno dei tre monoteismi la dimensione assoluta coincide - ovviamente - sempre con l'alterità radicale che è Dio, sarà affascinante conoscere i percorsi diversissimi che queste religioni hanno tracciato come risposta a quella che è una esigenza profonda dell'essere umano. Scopriremo così protagonisti e luoghi di una tradizione che dice ancora moltissimo agli uomini e alle donne di oggi.
La storia degli ebrei in Italia è antichissima: nessuna comunità in Occidente ha una presenza così costante, dalla Roma antica fino a oggi. Soprattutto, la storia degli ebrei in Italia è una storia fortemente specifica e in parte diversa rispetto a quella dei centri della diaspora europea. Distinta da una netta continuità attraverso oltre venti secoli; prima culla, all'inizio dell'era volgare, dell'ebraismo diasporico. Caratterizzata da una forte integrazione nella società cristiana, sia nel Medioevo che nei secoli successivi, nonostante le mura dei ghetti; poco toccata, nei secoli, dai fenomeni più estremi di antisemitismo; segnata da una forte partecipazione degli ebrei, nel XIX secolo, alla costruzione risorgimentale; e infine colpita durante l'occupazione nazista da arresti e deportazioni a cui partecipano attivamente i fascisti della Repubblica di Salò. E ancora, almeno fino al secondo dopoguerra, poco impegnata nel progetto sionista e anche successivamente poco coinvolta in una concreta emigrazione in Israele, anche se molto condizionata e segnata dalla presenza dello Stato ebraico. Una storia che, a essere compendiata in una sola frase, potrebbe esser definita come 'una storia italiana'.
Questo libro racconta come finì, in antico, l'indipendenza dello Stato ebraico. Ciò avvenne, nel più generale contesto della conquista del Medio Oriente e in particolare dell'area siro-palestinese, ad opera delle legioni romane (63 a.C.). La figura dominante dell'aggressione e della spoliazione del 'tesoro di Stato' degli Ebrei fu Gneo Pompeo Magno, in quell'anno (l'anno terribile della congiura di Catilina) potente personaggio pubblico della repubblica imperiale romana. Una fonte ebraica coeva dei fatti, i cosiddetti Salmi di Salomone, fornisce un quadro veridico della vicenda. E svela il ruolo decisivo della voracità dell'aggressore. Voracità che si appagò finalmente, dopo oltre un secolo di violenze e apparente riconciliazione, nell'anno 70 d.C. Allora l'imperatore Tito, «delizia del genere umano» secondo la vulgata adulatrice, distrusse il Tempio di Gerusalemme e lasciò depredare il tesoro lì conservato, frutto del contributo corale di tutte le comunità ebraiche. Il movente economico e l'odio per un popolo atavicamente considerato con avversione furono, allora, alla base del primo genocidio degli Ebrei. È una storia che ci riguarda ancora. Il revisionismo storiografico riuscì a prevalere e la tradizione si prestò a fare da sponda alla menzogna di Stato, voluta dai vincitori e avallata dai loro clienti.
La maggior parte degli italiani non è abituata a pensare alla lunga storia del proprio Paese (tra Medioevo e Rinascimento, Controriforma e Risorgimento) anche come storia degli ebrei che pure, fin dall'epoca romana, lo abitarono ininterrottamente. Né, al contrario, la vitalissima storia ebraica nella nostra penisola è di solito concepita come parte integrante della storia italiana: la si pensa piuttosto come la parabola speciale di una minoranza emarginata, isolata, perseguitata; passiva di fronte agli eventi della 'Grande storia' o colpita in negativo da essi in ondate ininterrotte di antisemitismo. Germano Maifreda rovescia questo paradigma, sostenendo che conoscere la storia degli ebrei è indispensabile per capire la storia d'Italia nel suo complesso. Ripercorrendo, anche tramite documenti inediti, tante vicende piccole e grandi nell'arco di diversi secoli, l'autore dimostra che il passato italiano nei diversi ambiti (politico, economico, sociale, culturale, religioso) può essere visto con occhi nuovi se si tiene conto dell'azione costruttiva di donne e uomini ebrei; nonché delle influenze reciproche e delle tante forme di interazione avvenute tra loro e tutti gli altri abitanti della penisola.
Giulio Busi guida alla conoscenza dei concetti fondamentali della Qabbalah, i cui testi sono ricchi di immagini difficilmente comprensibili, di giochi di parole in lingua ebraica e di concetti espressi in modo da preservarne la segretezza. Oltre a penetrare nel linguaggio simbolico cabalistico, il lettore potrà così familiarizzarsi con la gimatreya, il criterio di permutazione linguistica basato sulle corrispondenze tra lettere e numeri, e con le altre tecniche di interpretazione.
La banca e il ghetto sono due invenzioni italiane. Nel 1516 veniva fondato il ghetto di Venezia. Negli stessi anni, sempre in Italia, si assisteva alla nascita di un nuovo modello finanziario, destinato a grandi fortune: la banca pubblica. Questa coincidenza non è casuale. La banca e il ghetto sono le due costruzioni complementari di una modernità che riconosce nella finanza l'aspetto più efficace del governo politico. La banca diventa in Italia, tra Medioevo e Rinascimento, un'invenzione strategica grazie alla quale le oligarchie cristiane al potere (dagli Sforza ai Gonzaga ai Medici, dal papa alle élites di Venezia o Genova) controllano direttamente lo spazio sociale che dominano. Si crea così la possibilità di indicare come economia "dubbia" quella in cui operano gli "infedeli". Il prestito a interesse e le attività economiche affidate dai governi agli ebrei sono derubricate ad attività minori e non rappresentative dell'economia "vera" degli stati. Questo percorso conduce alla delegittimazione progressiva della presenza ebraica in Italia e culmina con l'istituzione dei ghetti.
Un’antica casa medioevale ormai degradata, un vasto cortile rinascimentale. È qui che il 16 ottobre del 1943 i nazisti arrestano più di trenta ebrei, un terzo dei suoi abitanti, tra i più poveri della Comunità. Sono per lo più vecchi, donne e bambini. Altri quattordici saranno catturati nei mesi successivi.
La storia che racconta Anna Foa in Portico d'Ottavia 13 è quella degli abitanti della Casa e dei nove mesi segnati per gli ebrei romani da oltre duemila deportazioni. Sono presi per strada, nel quartiere del vecchio ghetto da cui non si sono allontanati, nelle stesse case in cui sono tornati, nei negozi, perfino al bar. Li arrestano soprattutto i fascisti, le bande autonome dipendenti direttamente da Kappler mosse dall’avidità della taglia, guidate dalle delazioni delle spie. Tutto può accadere: sono l’avidità e la crudeltà la norma della spietata caccia all’uomo. Quando le spie indicano gli ebrei alle bande, un carrozzone si avvicina per far salire gli arrestati, liberarne alcuni, mandarne altri a morte, a seconda della convenienza e del capriccio. L’arbitrio era re nella Roma di quei mesi. Intorno, il caos più tremendo, nessuna forma di organizzazione, il vuoto, i bombardamenti, la fame, i rastrellamenti, le fosse Ardeatine. Il quartiere è il teatro di questa caccia infinita, un teatro che attira come una calamita i suoi abitanti e i cacciatori, che conoscono le loro prede e sanno come e dove trovarle.
La razzia
A destra della via del Portico d’Ottavia, lato est, vedo un milite delle SS tedesche. Sta piantato sulle gambe leggermente divaricate; solo un piccolo moto a dondolo da destra a sinistra, e da sinistra a destra, un moto pigro, tranquillo, la mano alla cinghia del fucile mitragliatore messo a tracolla. Due passi ancora. Altro milite SS immobile, armato
(Luciano Morpurgo, Caccia all'uomo. Vita sofferenze e beffe. Pagine di un diario 1938-1944. Dalmatia 1946, p. 107).
Pioveva su Roma, una fitta pioggia autunnale che non faceva molto rumore e copriva di un velo il buio della notte. Prima dell’alba i soldati tedeschi avevano sparato diffusamente intorno alle vie strette del vecchio ghetto: sparavano in aria, nel deserto del coprifuoco, senza scopo apparente, e questo rendeva ancor più inquietante il fragore dei loro spari. Qualcuno si era alzato ancor prima dell’alba, nella Casa e nelle case vicine. Era annunciato un rifornimento di sigarette, quella mattina, ed era meglio mettersi in coda presto dal tabaccaio dell’Isola Tiberina, là accanto. Erano tanti a fumare, allora, e le sigarette erano un bene raro e rassicurante.
Nella Casa, i due ampi porticati erano vuoti, non risuonavano ancora dei giochi dei bambini. Era festa, era sabato ma era anche l’ultimo giorno di Sukkot. Gli abitanti, stremati per essere rimasti a lungo svegli a causa degli spari, si concedevano un poco di sonno in più. Nella Casa e nelle case vicine, molti avrebbero lavorato come se non fosse giorno di festa, cercando di raccogliere qualche soldo per mangiare in quei tempi grami di guerra e di persecuzione. Più tardi alcuni sarebbero andati in sinagoga, non al Tempio grande, che era stato chiuso per precauzione dalla Comunità, ma al Tempio spagnolo, sotto al Tempio grande, dove le funzioni continuavano a tenersi regolarmente.
C’erano state grandi discussioni in Comunità, su questa decisione di tenere aperto per le funzioni almeno quel Tempio, e il rabbino Zolli, che voleva chiudere tutto, anche gli uffici della Comunità, si era nascosto da amici fidati, dopo aver esortato i fedeli a seguire il suo esempio. Non erano tempi, quelli, che gli ebrei si radunassero tutti insieme, neanche per pregare il Signore. Ma il presidente della Comunità aveva deciso altrimenti, accusando il rabbino di essere un vile e un allarmista. Eppure, dopo che il rabbino si era allontanato da casa, i tedeschi vi avevano fatto irruzione, sfondando la porta e crivellandola di colpi, senza trovare né lui né i suoi. Era stata quella la prima casa di ebrei in cui i nazisti erano andati, già ben prima della razzia, vicinissimo alla sinagoga, al numero 19 di via di San Bartolomeo dei Vaccinari.
La razzia cominciò poco prima delle cinque e trenta. Il quartiere del vecchio ghetto era circondato, c’erano pattuglie tedesche di guardia a tutte le vie di accesso, in via del Tempio, in via del Progresso, in via del Portico d’Ottavia, in piazza Costaguti, in via di Sant’Angelo in Pescheria, in piazza Mattei, di fronte al teatro di Marcello. Anche se forse, a giudicare da quanti sono riusciti a fuggire da via di Sant’Angelo in Pescheria, da quella parte la rete non dovette essere troppo stretta, probabilmente per mancanza di uomini.
Nella Casa, i nazisti non ebbero neanche il bisogno di sfondare il portoncino di legno, che era tutto sfasciato e restava sempre aperto. Entrarono nel cortile a passi pesanti e cominciarono a bussare alle porte col calcio del fucile, là al piano terra, dove si aprivano gli appartamenti e i magazzini. Poi, dal momento che nessuno andava loro ad aprire, sfondarono una porta a spallate, sempre gridando ordini nel vuoto. A quel punto, tutti gli abitanti della Casa erano svegli e tendevano un orecchio atterrito a quanto stava succedendo al piano terra.
Una donna che abitava al secondo piano, subito sopra la prima porta sfondata, Cesira Limentani, non perse altro tempo, prese la figlia di cinque anni, avvolse in una copertina il bambino più piccolo, che aveva solo sei mesi, e insieme ad alcuni dei suoi vicini saltò fuori dalla finestra, verso il retro. Il salto era basso, e riuscirono a fuggire, sottraendosi ai posti di blocco dei tedeschi. Più tardi, trovarono rifugio in un istituto religioso vicino al Gazometro. La donna non credeva davvero che avrebbero preso anche loro, le donne con le creature, ma non si era fermata troppo a pensare e, quando aveva sentito il fracasso della porta sfondata e gli ordini rauchi dei tedeschi, era scappata via subito, d’istinto, con i bambini. E questo salvò loro la vita.
Scrupolosamente, gradino dopo gradino, i nazisti salirono le larghe scale di marmo consunte della Casa, memoria di antichi splendori, fermandosi ad ogni porta senza tralasciarne nessuna. Questo dette ad alcuni degli abitanti il tempo di fuggire. La Casa era piena di anfratti e corridoi, che consentivano di scappare dal retro senza essere visti. Alcuni, pochi però, si erano già allontanati nei giorni precedenti. In tutto, quel giorno furono catturati nella Casa trentacinque ebrei. Molti altri abitanti della Casa, quattordici in tutto, furono presi nel corso dei mesi successivi e ben sei di loro furono assassinati alle Fosse Ardeatine nel marzo del 1944. Per una sola casa, sia pur grande come quella, fra novanta e cento abitanti, non era certo poco.
Intanto, mentre i nazisti salivano le scale delle case lì intorno e bussavano perentori alle porte, tutti si erano svegliati. “All’improvviso la Piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni”, scrive Settimia Spizzichino, l’unica donna superstite della deportazione del 16 ottobre, allora una ragazza di ventidue anni che abitava con la famiglia subito lì dietro, a via della Reginella. Voci e grida risuonavano alte dalle finestre degli edifici, gli uni avvisavano i parenti o gli amici nella casa accanto di scappare. “Prendono gli ebrei, prendono tutti”, si gridava da ogni parte. Le donne si affacciavano alle finestre degli ultimi piani, mentre già i nazisti entravano nelle case sottostanti. Chi ci riusciva, prendeva le scale facendo finta di niente, come fece la famiglia Fatucci che abitava all’ultimo piano della Casa: dopo aver fatto fuggire i figli maschi dai tetti, i genitori di mezza età e le due figlie adolescenti scesero le scale senza voltarsi indietro. Si era ormai capito che i tedeschi non si limitavano ad arrestare gli uomini in età da lavoro, ma prendevano tutti, proprio tutti, dai vecchi ai neonati. Che cosa ne avrebbero fatto poi, nessuno lo sapeva. Come non sapevano che i tedeschi stavano facendo lo stesso in tutta Roma, che in quello stesso momento ogni edificio della città in cui abitavano ebrei risuonava delle stesse grida e degli stessi passi.
I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo. Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contemporaneamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città, fra italiani e stranieri oltre tredicimila. In realtà ne presero molti di meno, poco più di mille una volta rilasciati i “misti”, un sostanziale fallimento nell’ottica nazista, che il rapporto ufficiale di Kappler attribuisce sia al numero insufficiente degli uomini impegnati nell’azione sia “all’atteggiamento di resistenza passiva, e in alcuni casi individuali di aiuto attivo, della popolazione”.
Talvolta i tedeschi chiesero al portiere o ad altri inquilini dove potevano trovare quei signori là dell’elenco, alla cui porta avevano invano suonato. E ci fu chi, come il colonnello Guido Terracina, incontrò i nazisti mentre scendeva le scale per scappare e chiese loro in tedesco cosa stesse succedendo, lesse il suo nome sul loro elenco e rispose, con un gran sangue freddo, che quel signore non si vedeva dall’estate passata, che si diceva che fosse sfollato altrove. E continuò a scendere le scale, dopo aver salutato cortesemente i tedeschi (Morpurgo 1946, pp. 108-109). Ma per farlo bisognava sapere il tedesco e abitare in una casa, come quella dove abitava Terracina, in via Sannio, dove non vivessero solo ebrei. Non in Portico d’Ottavia, dunque, o, come dicevano gli ebrei, in “piazza”.
Gli uomini impegnati nell’operazione erano in tutto 365, cinque compagnie dell’esercito e della polizia di sicurezza guidate da un reparto specializzato nella caccia all’ebreo formato da 14 ufficiali e sottufficiali e 30 soldati, comandati dal capitano Theodor Dannecker, uno stretto collaboratore di Eichmann, che avrebbe successivamente cooperato con lui nella deportazione degli ebrei ungheresi.
Dannecker era arrivato a Roma il 6 ottobre, stabilendosi in via Tasso, la sede delle carceri della Gestapo, e aveva dedicato i giorni successivi alla preparazione della razzia, coadiuvato da un gruppo di poliziotti italiani messi a sua disposizione dalla questura e guidati dal commissario aggiunto Gennaro Cappa, allora capo del Servizio Razza della Questura di Roma e successivamente stretto collaboratore del questore Caruso. Avevano il compito di preparare l’indirizzario degli ebrei dividendolo per zone. Per farlo, usarono presumibilmente l’elenco depositato presso la questura (ma ce ne erano molte altre copie a Roma, dalle istituzioni centrali fin nei commissariati di polizia), frutto del censimento degli ebrei fatto nel 1938 e del suo principale aggiornamento nel 1942, e lo incrociarono con altri dati, tra cui probabilmente l’elenco dei contribuenti sequestrato alla Comunità ebraica il giorno dopo la consegna dell’oro, il 29 settembre.
Gli elenchi usati dai nazisti furono quindi il risultato del lavoro d’ufficio dei poliziotti italiani, sotto la direzione dei tedeschi. Non fidando però nella discrezione dei poliziotti italiani, Dannecker li consegnò per la notte in caserma per tutta la durata delle operazioni. L’azione doveva cogliere gli ebrei di sorpresa e il segreto era assolutamente necessario. Due o tre giorni prima del 16 ottobre arrivò anche il reparto speciale di Dannecker, che si acquartierò al Collegio Militare, sulla Lungara, dove poi sarebbero stati radunati gli ebrei razziati.
Stranamente, non abbiamo nessuna fotografia della razzia del 16 ottobre. Nessun tedesco, a quanto si sa, ha fotografato le file degli ebrei ammassati di fronte alle rovine del Portico in attesa dei camion, nessuno ha immortalato le azioni romane del reparto speciale di Dannecker. Eppure, sappiamo che era usanza dei nazisti prendere immagini delle loro azioni. Sono rimaste innumerevoli foto delle azioni naziste, perfino delle esecuzioni di donne e bambini nei villaggi russi e polacchi. Ci sono foto, scattate da un fotografo ufficiale delle SS, della distruzione del ghetto di Varsavia. A Roma non furono fatte foto. I nazisti potrebbero aver preferito non documentare questa azione, farla passare sotto silenzio.
È forse questo un altro indizio delle esitazioni tedesche di fronte alla deportazione degli ebrei romani proprio “sotto le finestre del papa”? O si tratta di un caso, e le foto c’erano e sono state successivamente smarrite? Emergeranno forse un giorno da qualche archivio ancora inesplorato, a renderci visibile quello che ora possiamo solo rivivere attraverso le testimonianze e i documenti scritti? Vedremo, allora, il portone del numero 13 con la fila di donne, vecchi e bambini che scendevano quelle scale spinti dai fucili dei nazisti?
I tedeschi eseguivano il loro compito senza violenze superflue ma in fretta. Solo il calcio del fucile a pigiare sui carri i recalcitranti, a spingere chi, vecchio o confuso, tardava a muoversi. Entrando, avevano consegnato ad ogni famiglia un biglietto dattiloscritto in due lingue, tedesco e italiano. Diceva che tutti, proprio tutti, dovevano raggruppare poche cose essenziali, dei viveri per otto giorni e lasciare la propria abitazione entro venti minuti, seguendo i militari tedeschi.
La fretta era tale che pochi ebbero il tempo di pensare, di capire cosa stava succedendo. Bisognava ricordarsi di prendere tutte le cose assolutamente necessarie ad uno spostamento, le medicine per i vecchi e i malati, quanto serviva ai bambini piccoli. La fretta stessa che veniva imposta alle vittime rendeva loro quasi impossibile sfuggire alla presa, una volta che erano nelle mani dei tedeschi. Ci fu chi riuscì a farlo, certo, nella confusione, ma molti che pure avrebbero potuto fuggire preferirono restare vicino ai loro cari, alle madri, ai bambini. Non dobbiamo dimenticare che erano intere famiglie che venivano così rastrellate. E poi, furono radunati tutti insieme ad aspettare i camion che li avrebbero portati lontano da lì, non si sapeva dove.
Per gli abitanti della Casa, furono pochi metri, poi furono fatti scendere sotto il livello del suolo, fra i ruderi del Portico d’Ottavia, là dove nel Medioevo c’era stato il mercato del pesce. E qui, mentre aspettavano, senza più il calcio dei fucili a far loro fretta, cominciarono a rendersi conto di cosa si trattava. Qualcuno si ricordò degli elenchi comunitari che erano stati sequestrati tre settimane prima dai nazisti, altri pensarono alle voci che giravano e a cui non avevano voluto dare peso. E lì, mentre aspettavano i camion e poi vi salivano, qualcuno riuscì ad allontanarsi approfittando di un attimo di distrazione dei soldati o forse di uno spiraglio di pietà. Ci fu anche chi riuscì a gettare il proprio bimbo nelle braccia di un passante generoso, come fece una delle donne arrestate al numero 9 di via del Portico d’Ottavia. Ma il sentimento più forte, oltre alla paura, era l’incredulità, che spingeva le famiglie a ritrovarsi, i figli a seguire la madre, i genitori a raccogliersi intorno i bambini. Che se ne facevano i nazisti di tutti quei bambini e quei vecchi?, si pensava. E nessuno poteva immaginare che la destinazione finale sarebbe stata non un campo di lavoro, ma la camera a gas.
Coloro che si salvarono in maggior numero furono quelli che i tedeschi cercarono più tardi, quando già la notizia si era sparsa per le case degli ebrei, portata da chi era riuscito a scappare o, dove c’era, dal telefono. Altri trovarono rifugio, mentre la razzia era in corso, in casa di non ebrei, di “ariani”. Bastò aprire la porta di casa e infilarsi in una porta a fianco che si apriva ad accoglierli, dal momento che in molti casi, anche se non in tutti, i tedeschi seguirono scrupolosamente i loro elenchi e avevano l’ordine di non frugare le case dei non ebrei. E anche quando intravedevano attraverso le porte socchiuse le loro vittime riunite nelle case degli “ariani” – come successe in alcuni casi – come capire se si trattava di ebrei in fuga o di parenti sfollati? Di quella solidarietà degli “ariani” verso gli ebrei, degli aiuti che questi avevano ricevuto, se ne lamentarono aspramente i nazisti, nel loro rapporto sulla razzia. Degli italiani, perfino di quelli in camicia nera, non c’era da fidarsi. Avevano fatto bene la sera prima a consegnare in caserma i reparti della polizia italiana che li avevano aiutati nella preparazione della razzia, perché non cominciassero a far chiacchiere in giro o non avvisassero addirittura gli ebrei di ciò che si stava preparando.
Ma nella Casa tutti gli abitanti erano ebrei, di tutti loro i tedeschi avevano i nomi. Non c’era nessun altro a portata di mano a cui chiedere rifugio, nessun appartamento che non fosse destinato ad essere rovistato da capo a fondo perché abitato dagli ebrei. E fu questa, se non la prima, comunque una delle prime case da cui cominciò nel quartiere del vecchio ghetto la razzia del 16 ottobre 1943: via del Portico d’Ottavia 13.
"A salvare il Tempio non valsero né gli sforzi dei Giudei, subito accorsi a combattere le fiamme, né l'intervento di Tito in persona, che si precipitò alla testa del suo stato maggiore ordinando ai soldati di spegnere l'incendio. Ormai la violenza dello scontro era cresciuta a dismisura e gli ordini non venivano più ascoltati da uomini che, sentendo di avere finalmente in pugno la vittoria, erano in preda ad un furore incontenibile e ad una smodata brama di saccheggio. Anziché estinguere le fiamme, le alimentarono. Il Tempio era perduto." Il conflitto tra Romani ed Ebrei fu una guerra ai limiti del genocidio, segnata dalla totale incomunicabilità tra le due parti: lo zelo ebraico verso la Legge divina da un lato, la devozione romana per le umane leggi dell'impero dall'altro. Un disastro per Roma, che nello scontro dissipò buona parte della sua forza militare e disperse un patrimonio non rimpiazzabile di energie vitali, quasi quanto per gli sventurati Ebrei. Una vicenda i cui cupi rintocchi continuarono a lungo a risuonare, non solo in Oriente.
Ogni volta che posso chiedo a mio padre di parlarmi di Lodz, della sua famiglia, di Auschwitz. Nel farlo sollevo automaticamente la manica della sua camicia, mettendo a nudo il numero tatuato sul suo braccio. Mentre mi parla continuo a fissare quel numero che diventa uno schermo capace di trasformare istantaneamente le sue parole in immagini. Le poche cose che mi racconta, della sua infanzia felice, dell'abbrutimento nel ghetto che aveva prosciugato persino le lacrime che sarebbe stato giusto versare per la morte del padre, dell'ultimo sguardo rivoltogli dalla madre, degli incubi che popolavano le notti ad Auschwitz, me le dice sorridendo. Per i pochi che sono riusciti ad uscirne vivi, e sicuramente per mio padre, dopo Auschwitz è iniziata un'altra esistenza che in nessun caso è riuscita a costruire un ponte sospeso che li collegasse alla vita precedente. Sono io che debbo costruire quel ponte, perché la sua esistenza, subita e vissuta con coraggio, e le contraddizioni, le incertezze, le angosce, le sue debolezze acquistino il senso e la dignità che meritano.
Le storie dell’antico Israele si assomigliano tutte perché tutte assomigliano alla storia contenuta nel testo biblico, ne assumono la linea narrativa, ne fanno propria la trama.
Quest’opera riporta la vicenda della nascita d’Israele alla sua realtà storica, prende atto dei risultati della critica testuale e letteraria, dell’apporto dell’archeologia e dell’epigrafia ed è concepita secondo i criteri della moderna metodologia storiografica.
Partendo dalla constatazione che il racconto biblico è frutto di una elaborazione molto tardiva, Liverani riporta i materiali testuali all’epoca della loro redazione, ricostruisce l’evoluzione delle ideologie politiche e religiose in progressione di tempo, inserisce saldamente la storia d’Israele nel suo contesto antico-orientale. Emergono così la ‘storia normale’ dei due piccoli regni di Giuda e d’Israele, analoga a quella di tanti altri piccoli regni locali, e la ‘storia inventata’, che gli esuli giudei costruirono durante e dopo l’esilio in Babilonia, proiettando indietro sulla loro storia i problemi e le speranze del loro tempo. Un libro importante che parla a tutti.
«Un libro dotto ma che si legge di slancio, proprio come una storia avvincente.»
Elena Loewenthal, “Tuttolibri”
«Gerico non è crollata al suono delle trombe di Giosuè, la conquista della Terra Promessa non è mai avvenuta così come narrato, Salomone non aveva un grande regno e forse il Dio del Sinai un tempo aveva anche una compagna. Il libro di Mario Liverani, sintesi affascinante di lavori in corso da anni tra gli archeologi israeliani e non, è fatto per provocare una scossa a quanti si sono nutriti per decenni di quel filone che nel dopoguerra fu trionfalmente inaugurato da testi come La Bibbia aveva ragione di Werner Keller.»
Marco Politi, “la Repubblica”
Che ruolo hanno i rabbini nella vita istituzionale delle odierne comunità ebraiche? E che funzioni hanno ricoperto nel passato, nella diaspora europea, e ancora più indietro nel tempo all'epoca del Tempio di Gerusalemme? Chi li nomina? Quali funzioni vengono loro attribuite dalle comunità ebraiche? Per rispondere a queste domande, che già si poneva in modo esplicito e provocatorio Napoleone nel 1806 e che ritornano con una certa frequenza ancora oggi, Gadi Luzzatto Voghera disegna le caratteristiche di una classe di dotti che nei secoli ha saputo sintetizzare competenze giuridiche, pensiero filosofico, sapere scientifico, inventiva letteraria, ricerca storica, per approdare, in epoca di emancipazione, a occuparsi con maggior continuità di culto, educazione, rappresentanza e custodia della tradizione. Questioni complesse che ritornano spesso e che presuppongono l'idea non proponibile di una storia omogenea e immobile della civiltà ebraica, ma piuttosto la necessità di comprendere a fondo le dinamiche che hanno portato alla nascita e poi alle successive trasformazioni del rabbinato, attraverso un percorso storico affascinante eppure non lineare, imprescindibile secondo Luzzatto Voghera per capire la millenaria vicenda della storia ebraica e di una delle grandi religioni monoteiste.
In breve
Le storie dell’antico Israele si assomigliano tutte perché tutte assomigliano alla storia contenuta nel testo biblico, ne assumono la linea narrativa, ne fanno propria la trama. Quest’opera riporta la vicenda della nascita d’Israele alla sua realtà storica, prende atto dei risultati della critica testuale e letteraria, dell’apporto dell’archeologia e dell’epigrafia ed è concepita secondo i criteri della moderna metodologia storiografica. Partendo dalla constatazione che il racconto biblico è frutto di una elaborazione molto tardiva, Liverani riporta i materiali testuali all’epoca della loro redazione, ricostruisce l’evoluzione delle ideologie politiche e religiose in progressione di tempo, inserisce saldamente la storia d’Israele nel suo contesto antico-orientale. Emergono così la ‘storia normale’ dei due piccoli regni di Giuda e d’Israele, analoga a quella di tanti altri piccoli regni locali, e la ‘storia inventata’, che gli esuli giudei costruirono durante e dopo l’esilio in Babilonia, proiettando indietro sulla loro storia i problemi e le speranze del loro tempo. Un libro importante che parla a tutti.
Indice
Prefazione - Abbreviazioni - Imprinting - 1. La Palestina nel Tardo Bronzo (secoli XIV-XIII) - Parte prima Una storia normale - 2. La transizione (XII secolo) - 3. La nuova società (ca. 1150-1050) - 4. Il processo formativo (ca. 1050-930) - 5. Il regno di Israele (ca. 930-740) - 6. Il regno di Giuda (ca. 930-720) - 7. L’impatto imperiale assiro (ca.740-640) - 8. Pausa tra due imperi (ca. 640-610) - 9. L’impatto imperiale babilonese (ca. 610-585) - Intermezzo - 10. L’età assiale - 11. La diaspora - 12. Il paesaggio desolato - Parte seconda Una storia inventata - 13. Reduci e rimanenti: l’invenzione dei Patriarchi - 14. Reduci e alieni: l’invenzione della conquista - 15. Uno stato senza re: l’invenzione dei Giudici - 16. L’opzione monarchica: l’invenzione del regno unito - 17. L’opzione sacerdotale: l’invenzione del tempio salomonico - 18. L’auto-identificazione: l’invenzione della Legge - Epilogo - 19. Storia locale e valori universali - Bibliografia - Indice dei nomi di personaggi e divinità - Indice dei nomi geografici - Indice dei termini citati - Indice dei testi citati - Indice delle tavole e delle figure - Fonti delle tavole e delle figure