Negli ultimi anni la Lombardia, regione locomotiva dell'economia italiana, non ha cercato di fermare l'avanzata mafiosa. Al contrario, molti (troppi) imprenditori hanno spalancato le porte delle loro 'fabbrichette' a manager e mediatori che in altri tempi avrebbero definito 'poco raccomandabili'. Hanno scelto la 'ndrangheta come socio, finendone puntualmente stritolati. La mafia calabrese è quella più presente, potente e, per certi versi, accettata. Per anni la politica ha cercato di minimizzare, ma adesso anche gli ultimi negazionisti si sono arresi alla drammatica evidenza. Anni di indagini hanno rivelato il progressivo radicamento dei clan calabresi e la ramificazione dei loro insediamenti e dei loro interessi economici. Soprattutto nella filiera dell'edilizia e nel grande cantiere dell'Expo. Giampiero Rossi racconta l'avanzata del potere mafioso e il suo più recente salto di qualità, attraverso gli atti giudiziari, le valutazioni (sempre più allarmate) degli investigatori, le tardive confessioni di imprenditori, manager e politici che hanno accettato il patto col diavolo e - soprattutto - attraverso la viva voce dei boss e dei picciotti della 'ndrangheta del Nord, ascoltati in milioni di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali.
Il clan dei casalesi non esiste più. È stato sconfitto con l'arresto dei suoi capi e dei latitanti storici Antonio Iovine e Michele Zagaria. "Lo Stato non ha vinto" è il racconto in presa diretta di come questo è avvenuto e delle indagini condotte dal Pubblico Ministero della Direzione distrettuale antimafia di Napoli Antonello Ardituro che per anni ha indagato sugli affari illeciti del clan. È lui che ha coordinato le ricerche che hanno portato alla cattura dei boss latitanti Mario Caterino, Giuseppe Setola e del capo Antonio Iovine, collaboratore di giustizia dal maggio 2014. Leggendo il suo racconto, scritto con Dario Del Porto, scopriremo come si è sgretolata la rete di comando della più potente famiglia di camorra, la trama complessa del suo sistema, i delitti, i protagonisti. Scopriremo che i casalesi hanno perso ma che lo Stato non ha vinto. Perché è stato troppe volte complice, troppe volte connivente, altre volte distratto. I boss sono in carcere, ma il groviglio delle relazioni, dei rapporti, delle trame indicibili, è ancora lì, forte. Per sconfiggere la camorra che va oltre i casalesi e continua a fare affari, non basta arrestare boss e affiliati. E neppure portargli via i beni. Il trono è vuoto ma lo Stato non ha vinto. Non ancora.
"Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo la polizia, i magistrati, i politici, gli opinion makers e perfino i semplici cittadini hanno avuto accesso a un'incredibile quantità di informazioni sul problema della mafia. Gli italiani si sono indignati per la violenza della criminalità organizzata e per le collusioni fra una parte della classe politica e i boss. Il risultato è stato che il dramma della mafia spesso si è dispiegato sotto la luce dei riflettori, diventando un evento mediatico. Ma l'Italia; ha mostrato grande ingegnosità anche nel trovare ragioni per guardare da un'altra parte o per non fare niente. La storia delle mafie italiane, dunque, non è solo un giallo in cui bisogna cercare il colpevole, ma anche un giallo in cui bisogna cercare chi sapeva. E soprattutto, cercare di capire perché diamine chi sapeva non ha fatto nulla". Con le stesse qualità del suo libro precedente, il rigore analitico dello storico combinato al racconto del romanziere, John Dickie affronta contemporaneamente la camorra napoletana, la mafia siciliana e la 'ndrangheta calabrese, le cui origini sono tutte e tre riconducibili alla nascita dello Stato italiano.
"Mafia Republic si basa su due semplici principi: il primo è che fra le tre grandi mafie italiane esistono molte più differenze di quanto potrebbe sembrare a prima vista. L'altro principio è che a dispetto di queste differenze le mafie hanno molto in comune, innanzi tutto il rapporto perverso con lo Stato italiano. Uno Stato in cui si sono infiltrate, con cui hanno collaborato, contro cui hanno combattuto. L'Italia non ha entità criminali statiche e solitarie, ma un ricco ecosistema malavitoso che continua ancora oggi a generare nuove forme di vita." Questo è il racconto di una storia lunga più di sessant'anni che si intreccia in molte, troppe, fasi con quella della Repubblica italiana.
Se la trattativa fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto, se la mafia avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è così. Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo sostengono una tesi sorprendente: l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regge, i comportamenti di cui all'accusa non sono reato e Cosa Nostra non è stata salvata. Perché dunque si è scelto di celebrare questo processo? Perché gli italiani hanno bisogno di pensare che la mafia abbia vinto (e debba sempre vincere)? Uno sguardo nuovo su un processo ricco di ambiguità, di coni d'ombra, di nodi tecnici da sciogliere, nel quale si fondono e si confondono tre piani: giudiziario, storico-politico, etico.
"È tutto finito; non c'è più niente da fare": le parole di Antonino Caponnetto dopo l'assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta rappresentano la disperazione di un'intera nazione. Vent'anni dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, la mafia però non ha vinto. Nonostante che molti misteri siano ancora irrisolti e molti retroscena siano oscuri. Nonostante gli attacchi ripetuti alla magistratura, le polemiche violente, i rapporti ambigui tra politica e criminalità, i silenzi della società civile, la disillusione. In queste pagine troviamo le inchieste e i processi più clamorosi, gli imputati eccellenti e le pedine, le storie dei pentiti, il racconto di come il nostro paese sia stato invaso di capitali che hanno radici mafiose. Una mafia che in questi anni ha cambiato pelle, ha ucciso sempre meno e riciclato sempre di più. Che si è mossa senza rumore.
Fin dalla seconda metà dell'Ottocento, nei dintorni di Palermo operava la mafia cosiddetta 'dei giardini', dedita allo sfruttamento di ricche aziende agricole e all'intermediazione commerciale dei loro prodotti. La Piana dei Colli era uno dei suoi luoghi d'elezione. Qui i gruppi mafiosi, oltre ad accedere a ingenti risorse, potevano attivare relazioni con i più diversi strati sociali, tra cui le classi dirigenti cittadine. Si trattava infatti di un ambiente composito, in cui le splendide residenze dell'aristocrazia convivevano con le case di borgata. La trasformazione da esso subita nel corso del Novecento, quando è diventato parte integrante della città, non ha intaccato il ruolo di primo piano della mafia della Piana dei Colli. Sulla base di un'esaustiva e originale lettura di diverse fonti archivistiche e giudiziarie, Vittorio Coco ricostruisce le ultracentenarie vicende di gruppi mafiosi che hanno dimostrato grandi capacità di adattamento a un così radicale mutamento del contesto.
Alba del Corpus Domini 2011, statale Ionica, Locride. Davanti alla farmacia di Maria Carmela Lanzetta bruciata da un incendio appiccato da quattro picciotti delle cosche, si mettono in fila le donne di Monasterace, con strofinacci, acqua e detersivo: per salvarle il salvabile, ripulire ciò che resta della bottega di questa farmacista che s'è fatta sindaca e ha sfidato crimine e corruzione con la semplicità e il buonsenso d'una madre. "Come vi potrò ripagare?", chiede lei. "Già ci avete ripagato", rispondono loro. Il libro è la cronaca d'un faticoso viaggio nella primavera delle donne calabresi, dentro la ribellione delle "pentite" di 'ndrangheta e il coraggio di molte madri e figlie, spose e sorelle di dire infine "no", giorno per giorno, alle regole arcaiche d'un universo omertoso e misogino. Una cronaca raccontata attraverso gli occhi e la storia di Maria Carmela Lanzetta, sindaca di Monasterace, che ha subito due attentati mafiosi per il solo azzardo di avere riportato legalità e normalità nel piccolo comune del reggino che governa dal 2006. La vicenda di questa tenace amministratrice calabrese s'intreccia con quella di altre donne come lei...
"Nel corso dell'ultimo secolo e mezzo la polizia, i magistrati, i politici, gli opinion makers e perfino i semplici cittadini hanno avuto accesso a un'incredibile quantità di informazioni sul problema della mafia. Gli italiani si sono indignati per la violenza della criminalità organizzata e per le collusioni fra una parte della classe politica e i boss. Il risultato è stato che il dramma della mafia spesso si è dispiegato sotto la luce dei riflettori, diventando un evento mediatico. Ma l'Italia; ha mostrato grande ingegnosità anche nel trovare ragioni per guardare da un'altra parte o per non fare niente. La storia delle mafie italiane, dunque, non è solo un giallo in cui bisogna cercare il colpevole, ma anche un giallo in cui bisogna cercare chi sapeva. E soprattutto, cercare di capire perché diamine chi sapeva non ha fatto nulla". Con le stesse qualità del suo libro precedente, il rigore analitico dello storico combinato al racconto del romanziere, John Dickie affronta contemporaneamente la camorra napoletana, la mafia siciliana e la 'ndrangheta calabrese, le cui origini sono tutte e tre riconducibili alla nascita dello Stato italiano.
Con un'esperienza maturata alla procura di Palermo, Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino sono i magistrati che hanno portato in Calabria i metodi investigativi messi a punto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino contro Cosa Nostra. Con le loro indagini hanno rivelato la faccia torbida delle relazioni tra la 'ndrangheta e il Paese ufficiale: non soltanto imprenditori e politici, ma perfino ufficiali dei carabinieri, magistrati e collaboratori dei servizi segreti pronti al doppio gioco per favorire le latitanze dei boss e gli affari delle cosche. Un gioco pericoloso, dal quale la 'ndrangheta è uscita spesso vincente, perché ha contagiato trasversalmente tutta la società. In queste pagine il racconto, curato da Gaetano Savatteri, in presa diretta e con rivelazioni inedite, dei due magistrati, sulle ragioni per cui la 'ndrangheta è riuscita a infiltrarsi anche nelle regioni più ricche d'Italia, come la Lombardia, il Piemonte e la Liguria, con un sistema di colonizzazione rigidamente regolato: a Milano si guadagna, in Aspromonte si decide. Un sistema antichissimo capace di stare al passo con i tempi. Forse la sfida più difficile dello Stato, che impegna tutta l'Italia sulla frontiera di Reggio Calabria.
La convinzione che Cosa nostra sia stata sconfitta ha già declassato la lotta alla criminalità organizzata nell'agenda della politica e della grande informazione. Eppure, restano ancora molti misteri da svelare attorno a una lunga e drammatica pagina della storia d'Italia. Sono i 'pezzi mancanti' che Salvo Palazzolo, giornalista di "Repubblica", autore di cronache scottanti apparse in questi ultimi mesi e, con Michele Prestipino, del Codice Provenzano, ha raccolto nel suo diario di cronista a Palermo: le prove sparite dopo i delitti eccellenti, i nomi di molti sicari, dei mandanti occulti e di troppi infedeli servitori dello Stato, le complicità nella politica, i patrimoni ancora custoditi da insospettabili tesorieri. Dopo ogni delitto eccellente sono scomparse prove, tracce. Così non si trovano più gli appunti di Peppino Impastato, le bobine su cui erano registrate alcune telefonate del padrino latitante Bernardo Provenzano, l'agenda del commissario Ninni Cassarà, due videocassette girate dal sociologo Mauro Rostagno, gli appunti dell'agente Nino Agostino, alcuni file del computer di Giovanni Falcone, l'agenda di Paolo Borsellino, il dossier del maresciallo Antonino Lombardo. Scomparse le prove, sono rimasti impuniti molti sicari e tutti i mandanti. Ma qualche traccia degli insabbiamenti e dei depistaggi è rimasta comunque. È spesso legata ai movimenti di misteriose talpe istituzionali al servizio di Cosa nostra: ventisette inquietanti presenze, ancora senza nome e senza volto.