Nell'Italia del Cinquecento, divisa tra lo splendore delle corti e delle arti e la tragedia delle guerre e delle pestilenze, nuove dottrine religiose diffondono gli umori inquietanti del dubbio e della ribellione, insieme con le speranze di un profondo rinnovamento. Il fervore del dissenso e della libera critica percorre strati sociali d'ogni condizione, tocca il vertice e la base ecclesiale della cattolicità, investendo tanto le dottrine teologiche quanto le pratiche religiose quotidiane.
Andrea Carandini è un protagonista dell'archeologia classica. Ma anche un tecnico che ha messo a disposizione dello Stato la sua conoscenza e il suo rigore al riparo di qualsiasi compromesso politico. Quando ha accettato di presiedere il Consiglio superiore dei Beni culturali, lo ha fatto con spirito di servizio e con animo libero da schiavitù di appartenenza tanto da dimettersi non molto tempo dopo, quando le condizioni tecnico-amministrative (il taglio dei fondi al ministero dei Beni culturali durante l'ultima stagione di Sandro Bondi) gli hanno impedito di condurre in porto il suo progetto. In queste pagine ripercorre la sua formazione e le sue origini (è nipote di Luigi Albertini, il direttore-proprietario del "Corriere della Sera" estromesso dal fascismo), l'incontro folgorante con Ranuccio Bianchi Bandinelli, archeologo e politico italiano nel dopoguerra, il suo essere "marxiano, mai marxista e nemmeno comunista". Nel parlare di sé Carandini ragiona sulla perdita di valore del merito, sulla caduta della cultura media in Italia, sul fallimento del progetto del Pci (trasferire alle masse il patrimonio della grande cultura borghese), sulle politiche e i progetti che lo hanno coinvolto come presidente del Consiglio Superiore dei beni culturali e che hanno al centro il nodo del patrimonio culturale italiano, cosa rappresentano per l'identità nazionale i valori che hanno i nostri tesori artistici e il paesaggio che li circonda e li contestualizza.
"La tentazione di parlare di post-Occidente è forte, ma in questo saggio lo eviteremo. Non possiamo infatti congedarci dall'Occidente perché lo portiamo dentro di noi, anche nelle narrazioni del suo tramonto o declino che da oltre cent'anni alimentano una redditizia letteratura. Dobbiamo piuttosto capire che cosa è diventata per noi quella che chiamavano "l'essenza dell'Occidente" identificata nella razionalità. Che cosa rimane di questa razionalità? Forse che la crisi del sistema economico-finanziario occidentale e globale in corso, che produce mutazioni culturali e politiche ancora incalcolabili nelle loro conseguenze e falsifica la sua (presunta) razionalità economica, coinvolge il concetto stesso di razionalità occidentale? Che ne è della sua pretesa di rappresentare un modello universale per tutte le culture? Dobbiamo chiederci se razionalità, razionalismo, razionalizzazione sono concetti che ancora qualificano quello che nel linguaggio tradizionale era il fondamento dell'Occidente". A partire da questi interrogativi Gian Enrico Rusconi affronta problemi e autori che hanno ragionato e ragionano sul sistema dei valori occidentali. Tematiche che riguardano non soltanto l'idea di democrazia e di secolarismo, la dimensione storica, la modernizzazione e il confronto delle civiltà ma anche l'analisi della guerra e il rapporto uomo-natura a confronto con le nuove tecnologie.
"Matteotti procedeva a passo svelto. Era assorto nelle sue riflessioni e non badava molto alle persone che in quel momento lo circondavano. All'improvviso due uomini interruppero il corso dei suoi pensieri. Lo bloccarono e lo afferrarono bruscamente, cercando di trascinarlo a forza verso la strada. Ad attenderli, accostata al marciapiede, un'elegante auto scura, una Lancia Lambda a sei posti, modello limousine chiusa": è il 10 giugno 1924 quando il parlamentare socialista Giacomo Matteotti viene rapito in pieno giorno. Ci sono tutte le premesse di un terremoto istituzionale, l'Italia è percorsa da un sentimento diffuso d'indignazione. I giornali seguono passo passo le indagini, che mostrano chiaramente come i mandanti dell'agguato siano da ricercarsi nelle alte sfere del potere politico, prefigurando un possibile coinvolgimento dello stesso presidente del Consiglio Benito Mussolini. Lo sdegno dell'opinione pubblica, lo scandalo delle forze politiche non bastano a proteggere la democrazia. Giovanni Borgognone tesse la storia di quei mesi convulsi e indaga sull'intreccio tra politica, affarismo e violenze che ha visto protagonisti esponenti di primo piano del fascismo, sulle reazioni scomposte di Mussolini e i suoi, sulla crescente tensione fino al ritrovamento del cadavere, che si rivelò un vero e proprio giallo.
La proibizione delle corride decretata dal Parlamento catalano nel 2010 ha riportato alla ribalta l'antico e mai sopito dibattito sull'ammissibilità morale di uno spettacolo molto radicato in Spagna e molto criticato altrove. I sostenitori si appellano ai valori estetici della corrida e al significato ancestrale di una tradizione che sublima nel combattimento tra uomo e toro l'antagonismo innato tra la nostra specie e gli animali feroci. I detrattori la condannano come una pratica selvaggia che dietro l'ipocrisia della lotta ad armi pari tra uomo e fiera nasconde la crudeltà di uno spettacolo di sofferenza e di morte. In mezzo a queste due posizioni si colloca il libro di Fernando Savater, che affronta la questione senza pregiudizi, cercando, attraverso un excursus storico, filosofico e culturale, di ricondurla all'alveo che le è proprio: quello dell'etica. Le domande che pone Savater (Gli animali sono 'umani' nella stessa misura in cui gli uomini sono animali? La loro felicità e la loro salute fanno parte dei nostri doveri morali? Quali sono, nello specifico, questi doveri? È peggiore la morte del toro in corrida o la vita di un animale da macello?) sono tanto pertinenti quanto spiazzanti, e ancora più spiazzanti sono le risposte, che non investono soltanto l'ambito specifico della corrida ma interessano in generale l'intera architettura dei rapporti tra esseri razionali e irrazionali, liberando il campo da falsità, ipocrisie e "buonismi".
La concezione più comune del piacere lo identifica come l'esito di un processo, che soddisfa un bisogno o un desiderio oppure riduce la tensione causata da quello stesso bisogno o desiderio. In questa concezione, il piacere si identifica con uno stato di quiete, e al limite di morte; non sorprende dunque che in Freud il principio del piacere diventi principio del Nirvana e si sposi infine all'istinto di morte. Nella concezione alternativa articolata da Bencivenga sulla scorta di autori come Kant, Hegel e soprattutto Aristotele, il piacere si accompagna invece sempre a un'attività condotta con passione e partecipazione, ed è sempre espressione di vita. Non esiste anzi il piacere, inteso come stato indifferenziato, identico a sé stesso, nelle condizioni più diverse: esistono invece i molteplici piaceri corrispondenti alle molteplici attività perseguite dagli esseri umani: da quelle più elementari, metaboliche, come lo sfamarsi, il dissetarsi o il respirare, a quelle più complesse e sofisticate come il suonare uno strumento o l'immergersi in una riflessione filosofica. L'ontologia del piacere conduce così naturalmente a una sua etica: alla necessità di scegliere fra le occasioni di piacere che ci vengono di volta in volta offerte in modo da privilegiare e promuovere la nostra comune umanità.
Cosa accadeva nell'Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent'anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l'Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c'erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell'etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l'Accademia per vent'anni, quando nell'Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano "filosofare insieme" (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l'ambiente dell'Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di "domande, risposte e amichevoli confutazioni", dalla quale sprizza la conoscenza del vero.
Miti, leggende e fantasie letterarie hanno costruito l'immaginario della battaglia di Legnano che ha segnato la storia d'Italia e dell'intera Europa. I fatti però andarono diversamente. 29 maggio 1176: nelle campagne a nord-ovest di Milano, l'imperatore Federico Barbarossa affronta l'esercito delle città italiane raccolte nella Lega Lombarda con un esito che all'epoca pochi si sarebbero aspettati. Perché avvenne lo scontro, come si svolse la battaglia, quali furono le ragioni dei contendenti, quali eventi precedettero il conflitto? Quale disegno politico aveva Federico Barbarossa e cosa rivendicavano i Comuni? Con gli strumenti della storia militare, Paolo Grillo segue passo passo le fasi della battaglia, scende fra le linee dei combattenti e svela cosa c'è dietro quell'amara sconfitta: a Legnano si affrontarono in realtà due forme contrapposte di organizzazione militare. L'Impero, da una parte, con la sua struttura aristocratica, era ben rappresentato dalla celebre e quasi imbattibile cavalleria pesante teutonica. I Comuni, dall'altra, si incarnavano nella collettività in armi dei fanti, che combattevano fianco a fianco ai cavalieri, da uomini liberi, decisi a battersi per la difesa della patria comune. Due mondi diversi, uno prossimo alla fine, l'altro - quello dei cittadini d'Italia - solo all'inizio.
Dal 1796 al 1870 vi è stato un tempo della nostra storia nel quale molti italiani non hanno avuto paura della libertà, l'hanno cercata e hanno dato la vita per realizzare il sogno della nazione divenuta patria. È stato il tempo del Risorgimento quando la libertà significava verità. Anzitutto sentirsi partecipi di una Italia comune, non dell'Italia dei sette Stati, ostili tra loro e strettamente sorvegliati da potenze straniere. La conquista della libertà "italiana" è stata la rivendicazione dell'unità culturale, storica, ideale di un popolo per secoli interdetto e separato, l'affermazione della sua indipendenza politica, la fine delle molte subalternità alla Chiesa del potere temporale, l'ingresso nell'Europa moderna delle Costituzioni, dei diritti dell'uomo e del cittadino, del senso della giustizia e del valore dell'eguaglianza ereditati dalla rivoluzione francese. Un'Italia dolente, notturna, divisa, risvegliata alla libertà. Le armi, le parole di un popolo che scopre se stesso dopo secoli di servitù. Giovani che hanno combattuto per l'unità e l'indipendenza della nazione. Questo è stato il Risorgimento. E questo resta l'orizzonte storico insormontabile della nostra identità nazionale e del nostro Stato democratico.
L'arte moderna ha utilizzato e assorbito l'intero assortimento dei colori messi in commercio dall'industria chimica, da quelli artificiali in tubetto ai coloranti industriali. Attraverso i colori si è misurata con gli oggetti, le materie e i materiali ordinari, tentando di darne una resa estetica. Negli anni centrali della seconda metà del Novecento sì è assistito a una significativa compresenza tra la nuova astrazione americana - e dunque la pittura pura in un'espressione assoluta - e l'arte povera italiana, ovvero la libera manipolazione dei materiali e degli elementi naturali. In entrambi i casi il risultato è stato quello di una vistosa inflazione coloristica, una vera 'pancromia' che riflette la chiassosità multicolore della metropoli, eletta a orizzonte di riferimento dall'arte odierna. Alberto Boatto rilegge le svolte e le rivoluzioni, il meglio dell'arte odierna in chiave coloristica e propone al lettore una serie di itinerari attraverso le opere dei più grandi artisti contemporanei.
Siamo il paese della libertà fragile. Le libere repubbliche del tardo Medio Evo non hanno saputo proteggersi dalla tirannide e dal dominio straniero; lo Stato liberale nato dal Risorgimento nel 1861 è stato distrutto cinquant'anni dopo dal fascismo; la Repubblica democratica nata il 2 giugno 1946 è degenerata nel sistema berlusconiano. Perché tutto ciò è accaduto e accade? Perché in tutte queste occasioni sono mancati gli oppositori determinati a combattere con tutte le forze contro queste tirannie, qualunque forma abbiano assunto, e perché in troppi sono disposti ad aprire loro le porte e a cedere il passo. La libertà italiana è sempre stata fragile perché troppo pochi sanno essere intransigenti.
Carl Schmitt e Hans Blumenberg erano due opposti speculari: il primo critico acuto e radicale della modernità, il secondo teorico della sua piena legittimità e autonomia. Ma entrambi interni alle correnti più innovative e originali della cultura contemporanea. Estraneo a ogni nostalgia tradizionalista il primo, alieno da ogni ingenua retorica progressista il secondo. Furono avversari scientifici, Hans Blumenberg e Carl Schmitt: le rispettive concezioni sul fondamento e la giustificazione delle pretese conoscitive dell'epoca moderna erano radicalmente differenti e la discussione a riguardo proseguì anche in una serie di lettere che si scambiarono tra il 1971 e il 1978. Tale corrispondenza e i testi ritrovati nel lascito di Blumenberg documentano una controversia assai significativa, da cui emergono scambi di tipo scientifico e biografico. Ma furono avversari "necessari" l'uno all'altro, come due interlocutori che sanno di trovare nel confronto con l'altro la propria vera "questione". La replica di Carl Schmitt ha influito in maniera decisiva sul rifacimento della "Legittimità dell'età moderna" di Blumenberg e ha lasciato tracce evidenti sino alla successiva "Elaborazione del mito". Per questo motivo la presente opera riporta brani da entrambi i volumi, oltre a tutto lo scambio epistolare, testi inediti provenienti da opere postume di Blumenberg ed estratti da altri saggi già pubblicati.