La storia della nascita dell'alpinismo è raccontata secondo uno schema che si ripete uguale da due secoli. All'origine ci sarebbe la grande scoperta razionalista delle Alpi quali laboratorio della natura: una rivoluzione che avrebbe schiuso all'uomo territori inesplorati che le rozze popolazioni alpine popolavano di superstizioni. La passione settecentesca per l'alta montagna avrebbe quindi aperto la strada alla conquista cittadina delle cime e all'invenzione dell'alpinismo. "Controstoria dell'alpinismo" rovescia questo modo di guardare alle Alpi e alla storia della frequentazione delle terre alte. Ricostruendo decine di salite compiute tra Sei e Ottocento da cacciatori, raccoglitori di cristalli, artigiani, garzoni di monasteri, notabili di villaggi e religiosi, il libro documenta come l'alpinismo trovi le sue radici nella cultura e nella società alpina e i suoi 'inventori' nelle popolazioni che hanno abitato le nostre Alpi. La storia dell'alpinismo ne risulta riscritta dalle basi e tutti i suoi eventi fondatori assumono così una luce completamente diversa. A partire dall'assalto con scale e pioli al Mont Aiguille nel 1492 o dalla salita di Petrarca al Ventoux che è servita come archetipo alla rimozione dei montanari dalla storia dell'alpinismo.
Fondata a Londra nel 1717, la Massoneria mostrò immediatamente la propria influenza pervasiva, tanto da diffondersi in tutto il mondo in solo due decenni. Così, se con George Washington divenne il credo della nuova nazione americana, furono le reti massoniche a tenere insieme l'Impero britannico. Se con Napoleone divenne uno strumento dell'autoritarismo, con la Restaurazione funzionò da copertura per le cospirazioni rivoluzionarie del Risorgimento. Ai rituali e alle formule di affiliazione della Massoneria si ispirarono, fino a copiarli, tanto i mormoni quanto la mafia siciliana. La Chiesa cattolica ne ha temuto l'influenza al punto di scomunicare gli aderenti già dal 1738 e la temettero anche Hitler, Franco e Mussolini che considerarono le logge uno strumento di diffusione del pacifismo e del giudaismo internazionale. In questo libro, John Dickie ricostruisce con una prosa avvincente il lato oscuro della modernità.
Uno dei problemi principali affrontati nel corso dei secoli dai filosofi politici è la differenza tra l'agire politico e l'agire in modo moralmente giusto. Per la filosofia politica contemporanea la giustizia globale è il principale rompicapo da risolvere, e il compito dei filosofi politici coincide con l'elaborazione di una teoria che tenga insieme le diverse esigenze. È un dovere tanto ineludibile quanto difficile. Serve una teoria che risponda alla domanda a proposito del 'mondo giusto' e che si misuri con l'ingiustizia della terra. Salvatore Veca, che è stato uno dei maggiori filosofi politici contemporanei, con questo libro ci offre una guida alla filosofia politica contemporanea.
Spesso si considera la scienza il regno della certezza e della verità. Invece, il dubbio e l'errore sono fondamentali per il progresso del sapere in ogni settore. E, come accade nella vita di ogni giorno, anche nella scienza l'errore si presenta sotto molteplici forme: c'è l'errore che è motore di nuove conoscenze, ma anche quello frutto dell'ideologia o della fretta. C'è l'errore riconosciuto e quindi fecondo, ma anche quello testardo. In questo libro scopriremo storie affascinanti di chimica, biologia, medicina e soprattutto di fisica, dal punto di vista di chi sbaglia. Incontreremo scienziati come Fermi, Einstein e Pauling e studiosi quasi ignoti. Scoprire che anche i grandi della scienza hanno sbagliato sarà una iniezione di ottimismo. Viviamo in un mondo che con l'errore ha un rapporto difficile. Oggi più che mai è importante rivalutarlo: lunga vita all'errore!
Esuli in patria, costretti a palcoscenici marginali, a spazi culturali periferici: così i fascisti descrivono la propria condizione all'indomani del 1945. Eppure, sin dall'immediato dopoguerra, le edicole di tutta Italia si riempirono di rotocalchi i cui articoli raccontavano con toni agiografici, o quanto meno indulgenti, le imprese di Mussolini e dei suoi fedelissimi. Gli scaffali delle librerie ospitavano memoriali, biografie e persino romanzi firmati da fascisti e filofascisti. Andava così in scena, agli albori del processo di costruzione di una memoria pubblica attorno al Ventennio e alla stagione della guerra civile, la riscrittura di quello stesso passato da parte fascista. Una simile operazione di per sé non sorprende: la voglia di raccontare la propria versione dei fatti piegando il racconto in base ai propri interessi è un fatto fisiologico. Semmai a sorprendere è il buon esito di quell'operazione ed è in particolare questo punto che il libro indaga, dando conto del grado di complicità mostrato da ampi settori del mondo giornalistico ed editoriale. Non è così ovvio, infatti, che i protagonisti di un regime autoritario e liberticida e di un governo, quello della Rsi, complice di una forza occupante, disponessero della possibilità di far circolare legalmente la propria versione dei fatti.
È da un inciampo che il filosofo Maurizio Ferraris parte per ragionare attorno all'esistenza, alla stratificazione di esperienze e memorie che sono il modo in cui ciascuno di noi impara a vivere. Vivere, sopravvivere, previvere, convivere sono le stazioni attraverso cui questo libro ci fa passare per riflettere su un mélange di argomenti che ruotano attorno alla vita e a come si possa imparare a vivere. Se lo spunto è una battuta d'arresto accidentale, capillare, profonda e non casuale è la considerazione della propria intera esistenza, della piega che ha preso nel tempo. Nel momento in cui ci si ferma, la galassia di sentimenti e risentimenti che emergono è fatta dalla memoria delle cose vissute nel passato, nel proprio intimo, attraverso gli altri, intrecciata alle cose apprese anche attraverso la vita scritta, i libri, la letteratura. Da Montaigne a Heidegger, da Nietzsche a Derrida, da Proust a Yourcenar, da Fitzgerald a Hemingway: tutto questo e altro ancora è precipitato in questo libro unico, emozionante e ricco di riflessioni.
Tenere su un piedistallo nella piazza - centro della polis e dunque luogo politico per eccellenza - un personaggio, significa indicarlo come modello di virtù civili. È l'equivalente della santificazione: «guardatelo, prendetelo a esempio, fate come lui». Naturalmente questo messaggio arriva quando c'è un nesso ancora vivo tra il personaggio e la comunità che lo celebra, nel bene e nel male. Non è dunque un discorso sul passato, ma una contesa sul presente e un confronto di progetti sul futuro. Se masse oppresse in tutto l'Occidente si rivolgono contro statue e monumenti è perché sono tuttora umiliate e sconfitte. La loro battaglia non riguarda la storia, ma il futuro. Ed è sacrosanta. È giusto che le memorie materiali siano al centro di un conflitto: sarebbe un tragico errore cancellarle, ma lo sarebbe anche impedire che la società di oggi ne cambi il senso. L'ultima cosa che dobbiamo fare è usare l'arte e la storia contro la giustizia e l'eguaglianza.
L'Italia è l'ottavo Paese più ricco del mondo, ma anche il Paese dove un lavoratore su quattro è povero e uno su tre vulnerabile, ovvero condannato alla povertà in caso di evento inaspettato (come una malattia o la nascita di un figlio). Dopo anni in cui la politica si è mostrata succube nei confronti dell'economia, ha mortificato i lavoratori e colpevolizzato i poveri, si è tornati a discutere di come riconciliare democrazia e mercato. Lo si è fatto varando il reddito di cittadinanza, per molti aspetti difettoso ma l'unica forma di incisiva redistribuzione della ricchezza adottata negli ultimi decenni. Lo si è fatto con la proposta di introdurre minimi salariali stabiliti per legge. Queste misure, smantellate o avversate dall'attuale maggioranza, sono peraltro minimali rispetto a quelle contemplate dal patto di cittadinanza previsto dalla Costituzione: quello per cui il lavoro è un diritto ma anche un dovere, che ha però come contropartita un salario dignitoso, un welfare esteso e la partecipazione dei lavoratori alla definizione dell'indirizzo politico generale. Il lavoro povero è, perciò, una contraddizione in termini: cambiare è possibile ma soprattutto necessario.
La vicenda di Roma, lungo tutto il suo percorso millenario, è accompagnata da un concetto particolarissimo e originale: quello espresso nel termine imperium. Questo vocabolo traduce il rapporto tra il potere nella sua accezione più alta e la sua responsabilità. Nel gestire questa gravosa incombenza il potere deve confrontarsi con una serie di doveri. Ab origine, la responsabilità verso il popolo romano è subordinata a una serie di valori addirittura anteriori alla nascita stessa dell'Urbe, come quello di fides, il rispetto delle regole. A questo concetto sono costretti a rapportarsi tutti i grandi di Roma. Camillo, cui viene attribuita una prima definizione del diritto naturale, che vieta ogni atto in contrasto con la natura dell'uomo; Scipione, il primo imperator, che proclama la superiorità di un singolo sulle strutture. Muove all'azione Silla, l'idealista in cerca di impossibili ritorni al passato; accende Cicerone nella sua teoresi; lo reclama per sé Cesare senza poter conservare né il potere né la vita; lo struttura mirabilmente Augusto, nel nuovo patto con gli dei (la pax Augusta) da cui nascerà la monarchia. L'intero corso della storia imperiale assiste poi a un costante dibattito, che impegna tanto gli stoici quanto la propaganda di corte, gli imperatori-soldati come il pensiero cristiano. Da quest'ultimo ambito uscirà, infine, la struttura tetragona e proiettata nei secoli a venire dell'impero cristiano.
Comprendere l'attualità attraverso le esperienze della follia, della medicina e della sessualità; ridisegnare la storia del presente mettendo in discussione i concetti tradizionali del potere, della soggettività e delle norme sociali: è questa l'avventura intellettuale di Michel Foucault, di cui Stefano Catucci ricostruisce l'originale percorso filosofico dagli esordi fino alle ultime ricerche, testimoniate non solo dai libri ma anche dalle interviste, dalle conferenze e soprattutto dai testi dei suoi corsi. Ne emerge il ritratto di un autore enciclopedico e geniale, al quale si deve la più efficace sintesi intellettuale del nostro tempo, l'immagine del presente più forte che la contemporaneità abbia saputo produrre.
Il 9 giugno del 53 a.C., sulla pianura di Carre, nell'Alta Mesopotamia, un esercito di cavalieri venuti dall'Iran e dall'Asia centrale sbaraglia un'armata di oltre cinquantamila uomini, inviati da Roma a conquistare l'impero rivale dei parti. L'avanzata verso la conquista del mondo, ritenuta fino ad allora inarrestabile, è bloccata da un'armata di cui erano state sottovalutate la perizia militare, la forza d'urto e, soprattutto, la capacità di resistere al temibile dispositivo della legione. Giusto Traina racconta la storia avvincente e appassionante di una battaglia fra le più oscure nella storia militare dell'antichità, il primo grande scontro di una guerra continua, praticamente mai conclusa, fra Roma e l'Iran.
Noi siamo il nostro profilo Facebook? Le intelligenze artificiali sono tecnologie o soggetti sociali? Com'è possibile che il bitcoin abbia creato una crisi in Kazakistan? Come ha fatto un chatbot su Twitter ad aver imparato frasi razziste, violente e antisemite senza bisogno di programmazione? La società del XXI secolo è il prodotto di un panorama sociale che vede interconnessi persone (e le loro relazioni), dati (nella forma di informazioni e algoritmi) e tecnologie (dispositivi e servizi sempre nuovi). Le scienze sociali, da un punto di vista teorico e metodologico, ci aiutano ad analizzare questi fenomeni e a immaginare risposte.