A chi si deve l’edificazione del Duomo di Milano? Con quali risorse poté sostentarsi l’impresa di una costruzione così ambiziosa e imponente, avviata nel 1386 e conclusa definitivamente solo nel XX secolo? Grazie allo studio di alcuni preziosi documenti (soprattutto i Registri delle Offerte), Martina Saltamacchia analizza il campionario dei donatori che contribuirono al finanziamento della Fabbrica. Sorprendentemente, i dati numerici rivelano che la parte più cospicua delle entrate è ottenuta dalla somma di offerte modeste o minime, dal valore apparentemente trascurabile. Da quegli elenchi di cifre fanno capolino incredibili storie di uomini e donne comuni – non di rado in situazione di disagio economico o sociale – mossi da una fede sincera a un commovente e gratuito atto di carità. Facendo memoria di questi piccoli gesti, per lo più anonimi ma in qualche caso precisamente identificati, il volume rende giustizia ai veri “edificatori” della cattedrale. Commentano il testo una serie di immagini storiche del Duomo, che raffigurano le diverse fasi della sua costruzione e testimoniano nei secoli la partecipazione attiva del popolo all’opera del cantiere nel corso dei secoli.
GLI AUTORI
MARTINA SALTAMACCHIA, laureata in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione presso l'Università Bocconi di Milano, è attualmente ricercatrice presso la Rutgers University, New Jersey (USA) con specializzazione in Storia Medievale Italiana.
Il martire è, oggi forse con più evidenza che in passato, una figura che si pone nella zona d’intersezione tra la teologia e la politica. I saggi raccolti in questo volume cercano di individuare, all’interno dello spazio delimitato da quella intersezione, le sovrapposizioni, talora manifeste, talora occulte, tra martirio e sacrificio. Attraverso il meccanismo sacrificale, infatti, la testimonianza del martire assume senso salvifico, religioso e politico, al prezzo del totale annullamento del martire nel suo gesto, della sua sublimazione in pura immagine.
Nel tentativo di assumere su di sé la pienezza di un’idea e di portarne la testimonianza oltre il limite della propria morte, il martire non può però che fallire. Ed è perciò che si rende necessario un atto di pietà: bisogna trovare la forza di seppellire il martire, di abbandonare il suo ricordo e il suo corpo. Ciò che iniziamo a chiamare qui deposizione.
Il volume comprende, tra gli altri, uno studio inedito di Adolf von Harnack. Inoltre, tre liriche shaihidiche: il testamento di un volontario della milizia iraniana votato a missioni suicide nella guerra tra Iran e Iraq, la poesia di un martire palestinese e una poesia sufi.
La poesia è sempre e comunque interrogante. Il poeta, cioè, non è l’uomo dalla risposta pronta, che allunga il braccio e indica la via, ma un delirante ricercatore. Qualcosa tra Lancillotto e Falstaff, tra Giobbe e Lord Jim. Il libro di Davide Brullo fa così, ci mette nel mezzo di un cerchio rimandandoci, quasi biblicamente, le stesse ossessive domande dacché l’uomo è uomo. Chi siamo? Dove andiamo? Da dove siamo venuti? Qual è il nostro compito su questa terra, in questo vento di vita? Dove sono posti i confini tra il bene e il male? E lo fa con una lingua che attinge dal Testo Sacro, per tratti scabra, presuntuosa e percotente, in perpetuo scavo. In cui si parla di un mondo arcaico ma anche postatomico, come se in un palmo di mano si radunassero millenni. Leopardiano in questo senso, Brullo. Ma soprattutto, inciso, sì, un libro che è come un colpo di scalpello su una roccia destinata a conservare ciò che è stato del mondo.
GLI AUTORI
Davide Brullo (1979) legge il Vecchio Testamento, di cui ha tradotto Il libro della Sapienza (Medusa, 2006) e alcuni profeti minori in Scanni (Raffelli, 2003). Ha pubblicato due consecutivi libri in versi, Annali (Edizioni Atelier, 2004) e Annali. Lustro (Mimesis, 2006), e un’antologia di poeti moderni “fuori dai canoni”, Maledetti italiani (Il Saggiatore, 2007).
Testimonianza di una nobile e sincera amicizia, il libro è il generoso omaggio di un grande filosofo a un filosofo più giovane che da principio ne ha seguito le tracce, per imporsi poi con un’opera originale. Omaggio filosofico, ovviamente: per quanto non manchino pagine intensamente affettuose che conferiscono un caldo colorito alle ricorrenti riflessioni sull’amicizia, il volume è dedicato a una lettura del pensiero di Jean-Luc Nancy (ben noto anche in Italia), considerato sotto una particolare angolazione, la questione del tatto, in tutti i significati che la parola ha assunto nella cultura occidentale, da quello erotico a quello religioso, da quello gnoseologico a quello etico. In un serrato dialogo con una tradizione che muove dall’antichità, ma con particolare attenzione a quella che Derrida chiama una linea filosofica «franco-tedesca», il libro, pur incentrato su Nancy, ne mette a confronto la scrittura con le tesi classiche in numerose digressioni che muovono da Aristotele per toccare Descartes e S. Giovanni della Croce, il Nuovo Testamento e Kant, il problema di Molineux e Maine de Biran, Husserl e Merleau-Ponty, Lévinas e Heidegger. Derrida tuttavia non elabora un trattato, e meno che mai si preoccupa di tracciare un capitolo della storia della filosofia occidentale, ma, secondo lo stile che caratterizza la sua splendida maturità, affida a un scrittura straordinariamente affascinante, benché non facile, il compito di cercare «nel solco di Heidegger, la specificità di un pensiero che non si riduca né alla poesia, né alla filosofia né alla scienza».
Accompagnato dai lavori di Simon Hantai
GLI AUTORI
JACQUES DERRIDA nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, nei pressi di Algeri. Ha insegnato prevalentemente a Parigi e negli Stati Uniti, e ha ottenuto lauree e dottorati honoris causa in molte Università presenti nel mondo. Riconosciuto come uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, ha prodotto lavori che sono stati tradotti in una decina di lingue e che sono stati oggetto di convegni e incontri in Francia, Italia, Germania, Inghilterra, Canada, Stati Uniti e Giappone. Muore a Parigi il 9 ottobre 2004.
L’umanità e la nozione stessa di soggetto umano sono minacciate dal pensiero postmodernista che ha dichiarato non solo la ‘morte di Dio’ ma la ‘morte dell’uomo’. Questo libro costituisce una rivendicazione del concetto di umanità, respingendo la teoria sociale contemporanea che cerca di sminuire le proprietà e facoltà umane. La Archer sostiene che essere umani dipende da un’interazione con il mondo reale in cui la pratica detiene il primato sul linguaggio rispetto all’emergere dell’autocoscienza umana, del pensiero, dell’emozionalità e dell’identità personale – tutti precedenti a, e più elementari, della nostra acquisizione di un’identità sociale. Questo saggio originale e stimolante di una studiosa di punta della teoria sociale elabora i temi già approfonditi nei suoi libri precedenti Culture and Agency (1988) e Realist Social Theory (1995). Si pone come lettura imprescindibile per docenti e studenti di teoria sociale, culturale, politica, di filosofia e di teologia.
Prefazione e cura di Riccardo Prandini
GLI AUTORI
MARGARET S. ARCHER è Professore di Sociologia nell’Università di Warwick (UK). Dal 1986 al 1990 è stata Presidente dell’International Sociological Association, prima donna ad essere eletta in quella carica. È membro, tra l’altro, dell'Accademia Pontificia per le Scienze Sociali, della Accademia Europea e co-direttore del Centre for Critical Realism.
L’intento è di superare l’“impasse” tra l’universalismo etico illuminista, con le sue insolute aporie, e il relativismo post-moderno, con la sua “insostenibile leggerezza”.
Il nichilismo post-moderno nega la possibilità stessa di porre filosoficamente il problema, pertanto il primo passo consiste nella giustificazione del senso e del ruolo di questa indagine. Il contesto della globalizzazione richiede un’etica mondiale, in grado di coniugare differenze e pluralismo. Bisogna quindi esaminare le istanze relativistiche e le loro motivazioni per far emergere le ragioni che spingono ad impostare un’etica razionale e non razionalistica che consenta di rendere ragione alle istanze dell’autenticità, della diversità sociale e del riconoscimento. Dal confronto con le diverse figure di razionalità pratica attualmente più rilevanti emergeranno i tratti essenziali di una proposta di riflessione per l’etica di oggi, in cui proprio le ragioni del pluralismo etico spingano a rifiutare il relativismo e a fondare nell’umanità degli uomini i doveri reciproci di rispetto e responsabilità.
GLI AUTORI
ALDO VENDEMIATI (1961) è Professore ordinario di Filosofia morale nella Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana (Roma). Le sue ricerche vertono prevalentemente sulla fondazione dell’etica (In prima persona, Urbaniana University Press, Roma 2004), in dialogo con la tradizione tomista (La legge naturale, Edizioni Dehoniane, Roma 1995) e con la fenomenologia (Fenomenologia e realismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992). Si è dedicato anche all’approfondimento delle tematiche bioetiche in ordine alla loro fondazione epistemologica (La specificità bio-etica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002).
Questo volume fa seguito a Città costruita, qualità del vivere ed è opera dei medesimi autori, ai quali se ne sono aggiunti altri di ulteriori e differenti profili scientifici e professionali. Dall’osservazione condotta nel richiamato lavoro del 2001 sulla città costruita quale spazio esistenziale ove condurre l’indagine sulla qualità del vivere come condizione di ben-essere dell’uomo si perviene in questo secondo volume allo studio delle modalità della formazione di una cultura tesa al recupero della dimensione qualitativa della vita. Emerge così con evidenza come la ricerca della qualità dell’architettura della città, quale nozione che coniuga quella di urbs e di civitas, sia la strada attraverso la quale ricondurre l’esistenza dell’uomo ad una reale qualità della vita. Percorsi, speranza, partecipazione rappresentano pertanto l’alveo all’interno del quale si dipanano i contributi qui raccolti. Percorsi, in particolare, che tendono ad amalgamarsi nella pluridisciplinarietà di approcci caratterizzati, tuttavia, da una comune fiducia riposta sulle scienze umane anziché su di una messianica fiducia nelle tecnologie. Speranza e partecipazione, infine, si coniugano rendendo possibili interventi fondati su modalità di concertazione e di negoziazione sempre volti a considerare l’uomo il fine di ogni azione. Muovendo da prospettive differenti, amalgamate da questo comune sentire, gli autori pervengono alla formulazione della proposta di adozione di strumenti operativi incentrati sulla figura del Polis-Maker, inedito gestore della trasformazione della città e del territorio, vera e propria cerniera fra la funzione decisionale propria del politico, la dimensione amministrativa ed il cittadino, quest’ultimo portatore di esigenze materiali ed immateriali che non possono più a lungo rimanere insoddisfatte.
Questa galleria di testimonianze e ritratti lirici insegue il crocevia dei luoghi come eterna o contingente rosa dei venti. Luoghi usuali, dimore quotidiane, borghi culla di nascite, ma anche metropoli sconfinate, feroci di alienazione. I luoghi degli affetti, geografie d'amore... Luoghi mentali, anche, e luoghi / metafore, fulcro del linguaggio. Volti e luoghi animano e arringano i versi: ritratti comunque introiettati, moltiplicati, di tutte le viandanze della vita. Il volto vero della poesia, certo, sono questi versi: ma partono comunque dal nostro sguardo, dagli occhi che l'anima presta alle parole, e le prolunga. Poeti di svariate generazioni, che hanno attraversato tutte le ombre del '900 e guardato un nuovo millennio trasognato di stelle, eppure qui passeggiano, levitano quasi in volo di terra. La fotografia rivela l'inconscio ottico – giurava Benjamin – così come la psicanalisi fa con l'inconscio istintivo... Se le parole ci fissano, gli occhi si confondono: e allora il vero sguardo è solo luce.
Prefazione di Paolo Lagazzi
L’autore, sacerdote e insegnante con una lunga esperienza educativa maturata grazie al carisma di don Luigi Giussani in Comunione e Liberazione, affronta le questioni più attuali sulla famiglia e sull’educazione dei figli alla luce del pensiero cristiano, così come si è andato formando dal medioevo ai nostri giorni. Un pensiero illuminato dalla fede, ma fondato sulle ragioni della ragione, cioè di quel criterio oggettivo di cui è dotato ogni uomo per discernere ciò che è giusto e vero. Per questo riferimento costante al cuore umano e alle sue evidenze ed esigenze originali l’opera risulta affascinante e convincente e si contrappone al moralismo con il quale normalmente vengono trattati questi argomenti, moralismo che non è in grado di mostrare la bellezza di una proposta che riguarda la verità dell’amore umano e la sua intima natura: un’amicizia fedele e feconda. Saggio introduttivo di Rocco Buttiglione Postfazione di Giuliano Ferrara
GLI AUTORI
FRANCESCO VENTORINO (Catania 1932) già ordinario di Storia e Filosofia nei Licei, è docente emerito di Ontologia e di Etica presso lo Studio Teologico “S. Paolo” di Catania. Per Marietti ha pubblicato Amicizia coniugale (Milano, 2007).
All'invito di Benedetto XVI ad «allargare la ragione» non può certo sottrarsi il matrimonio. La difficoltà a riconoscere il senso intero dell'incontro uomo-donna è tale da invocarne una vera e propria rielaborazione. Non è adeguato all'io vivere per riprodurre la specie umana, ed è altresì inappagante e ulti-mamente noioso il narcisistico far coincidere l'amore con l'intesa della coppia. È congruo continuare a pensare che l'amore è frutto dell’orto del "sentimento di coppia", mentre i doveri del matrimonio sono imposizioni legate al dover sorreggere, lui e lei, la "cellula prima" della società? Poiché «ragionevole è sottomettere la ragione all'esperienza» ecco la lettura del "ti amo" conforme a quanto è sotteso a tale evento. Se lei non può colmare l'anelito che pure ha suscitato in lui ne consegue l'irrazionalità del a priori laicista: «se Dio c'è, non c'entra». Il Magistero ha aperto una via di conoscenza esistenziale dell'amore lui-lei. Ne emerge la fisionomia personalizzante del patto: nell'apparte-nenza personale alla comunità cristiana la funzione ecclesiale di coniuge coincide, di fatto, col cammino dell'io al suo compiersi. Presentazione di Lorenzo Albacete Prefazione di Claudio Risé
GLI AUTORI
Giorgio Zannoni, sacerdote dal 1970, laureato in Diritto canonico, dal 1980 è Giudice del Tribunale Ecclesiastico Flaminio. Tra le sue pubblicazioni Matrimonio e antropologia nella giurisprudenza rotale (Città Nuova, Roma 1985) e Oltre il cattolicesimo democratico (Edit, Padova 1986).
Leggere l’avventura umana di san Camillo de Lellis è un'esperienza affascinante. È vedere come l’incontro con Cristo porti a compimento il desiderio di pienezza umana che muove tutte le azioni dell’uomo. Camillo fu un giovane in cerca di una vita bella e gloriosa che, come per tanti nobili del suo tempo, coincise nei suoi sogni con la fama di una brillante carriera di soldato di ventura. Per essa sarebbe stato disposto a compiere qualunque sacrificio, tranne che a rinunciare al gioco dei dadi o delle carte, vizio cui non sapeva resistere e che lo portò a perdere tutto, perfino la stima di se stesso. Quando si trovò disperato di fronte all'incapacità di soddisfare il suo profondo desiderio, fu pronto a riconoscere la voce del Signore che lo chiamava a Sé. L’amore a Cristo coincise per Camillo con la carità verso tutti gli uomini, soprattutto verso coloro che erano provati dalla sofferenza della malattia, a cui egli si dedicò con la tenerezza e la fantasia di una madre, radunando intorno a sé molti giovani toccati dalla sua testimonianza e dando vita alla più grande riforma dell’assistenza ospedaliera.
La voce del poeta si riconosce, tra l’altro, perché crea uno spazio speciale. Ogni voce autentica ci rende presente il mondo in una luce particolare, sotto le volte di un’architettura nuova. Non si confonda l’esiguità del dettato di Roberta Castoldi con una delle tante forme di gioco al ribasso, di esercizietto che oggi vengono spesso scambiate per poesia. No, qui siamo di fronte a un’asciuttezza architettonica, a un misuratissimo, e perciò concentrato e dispendioso lavoro di disposizione dello spazio, come di sé nel destino. Una radicale riscoperta del mondo. Non è minimalismo la gentile e a volte tagliente attenzione della Castoldi ai particolari del vivere, ai fotogrammi di esistenza o ai movimenti segretissimi. Piuttosto, secondo la lezione di alcuni autori – come l’amato Ponge, ma senza la sua disincarnata beatitudine – l’avventura di scoprire quali orizzonti interi, quali visioni o quali improvvise epifanie si aprano nella percezione drammatica dei dettagli dei giorni. Sospesi come sono, in lotta come sono tra il prevalere del bianco di assenze immedicabili o di conversazioni che accedono alla sorpresa dell’amore e la custodiscono. Una poesia di trauma e pazienza, che ci dona una sfida anche stilistica tra le più originali del momento, tra le più concentrate e libere. (Davide Rondoni)