Cercare "l'antica madre", ossia inseguire di monumento in monumento le tracce di quello splendore che la Grecia aveva conosciuto in età arcaica, classica ed ellenistica: questo era lo scopo del viaggio che Pausania, originario dell'Asia Minore, intraprese intorno al 150 d.C. (dall'Attica sino alla Focide, attraverso il Peloponneso); e non diverso è l'approccio di ogni viaggiatore moderno che si accosti al mondo greco. Questa è la ragione del fascino della Guida della Grecia per chiunque progetti di muovere alla ricerca della Grecia perduta, con un viaggio reale o immaginario, affidandosi alla scrittura evocativa di Pausania.
Capolavoro di un genere letterario molto amato nell'antichità, la Guida della Grecia viene riproposta in Italia dopo centocinquant'anni di oblio, in una nuova edizione critica arricchita da un commento sia archeologico sia storico-religioso, e corredata di numerose cartine.
Nulla è più commovente della venerazione religiosa che interrompe lo stile di Pausania quando parla di Olimpia. "Molte cose tra i Greci hanno del miracoloso, alcune da vedere, altre da sentir raccontare: ma soprattutto v'è intervento divino quando essi celebrano i misteri di Eleusi e i giochi di Olimpia." Tutto è sacro, ad Olimpia. Sacri sono i luoghi: i fiumi, le sabbie, gli olivi "dalla bella corona", evocati con grande sobrietà. Sacre sono le origini delle feste, che risalgono a Zeus e ad Eracle: alle quali presero parte Ermes ed Ares; e che poi, dopo una lunga dimenticanza, vennero rinnovate nel tempo storico, dagli uomini assaliti dal ricordo. Sacre le gare, che spesso Pausania racconta con grazia incantevole. Sacri i templi e le statue, che Pausania descrive con scrupolo ed attenzione, soffermandosi soprattutto sul tempio di Zeus e sulla statua di Fidia. Un particolare lo commuove. Secondo la tradizione, quando la statua era già stata portata a termine, Fidia implorò il dio che gli inviasse un segno di conferma se la statua era di suo gradimento; e immediatamente cadde un fulmine, come testimonianza del favore divino.
Moltissimo vide Pausania, ad Olimpia: molto si fece spiegare dagli esegeti ufficiali. Ma diverse cose ne gli esegeti ne lui capivano più; e noi sentiamo quanto Pausania sia addolorato da questa coltre oscura distesa dal tempo, che la sua intelligenza e la sua cultura non riuscivano a sollevare.
San Benedetto, di cui Salvatore Pricoco pubblica la Regola insieme ad altri testi monastici medioevali, non è stato un legislatore rivoluzionario: ma l'accorto e sapiente erede, insieme rigoroso e moderato, della tradizione monastica occidentale. Egli aveva davanti agli occhi un modello antico e meraviglioso: gli eremiti orientali come sant'Antonio, che da soli lottavano con il diavolo nel deserto. Ma egli credeva che questo miracolo fosse ormai irraggiungibile. Voleva fondare qualcosa di più modesto: la vita dei monaci chiusi in una collettività guidata da un superiore; vita che doveva tenere lontana ogni influenza del mondo esterno, ogni viaggio, ogni rapporto con i congiunti. "Nessuno osi riferire ad un altro qualcosa di ciò che ha visto o sentito fuori del monastero, perché sarebbe un'enorme rovina." Tutto era calcolato e previsto dalla regola e dalla sapienza del superiore: ma ogni gesto della vita comune doveva essere impregnato dalle parole della Scrittura, imbevuto dallo sguardo luminoso di Dio, che contemplava i suoi fedeli dall'alto dei cieli. Con i suoi minuziosi suggerimenti, la Regola di san Benedetto ci informa con straordinaria efficacia sulla vita quotidiana dei monaci nel Medioevo, rievocando le mense, i lavori, i sonni, le preghiere, le letture comuni, e l'esempio di un amore reciproco senza limiti. "Se un monaco ha la sensazione che un anziano abbia verso di lui sentimenti d'ira o anche una lieve irritazione, subito, senza indugio, si prostri a terra davanti ai suoi piedi e rimanga disteso a far penitenza fino a quando questa irritazione sia placata e si risolva in una benedizione."
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni e sigle
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
- Regola dei Quattro Padri
- Seconda Regola dei Padri
- Regola di Macario
- Regola Orientale
- Terza Regola dei Padri
- Regola di san Benedetto
COMMENTO
- Regola dei Quattro Padri
- Seconda Regola dei Padri
- Regola di Macario
- Regola Orientale
- Terza Regola dei Padri
- Regola di san Benedetto
Indice dei passi
Prefazione / Introduzione
Le regole monastiche antiche
L'immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto storicamente falso. Essa ha lusingato in particolare la storiografia italiana, che ha alimentato a lungo il mito di san Benedetto padre del monachesimo occidentale, della civiltà religiosa medievale, dell'Europa tout court. In realtà, l'osservanza benedettina trovò diffusione largamente europea solo a partire dall'età carolingia, per l'opera riformatrice di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri dell'Impero a unità legislativa applicando le direttive politiche di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Prima di allora, tra il V e l'VIII secolo, numerose regole circolarono nell'Occidente. Una trentina di esse sono pervenute sino a noi.
Non vanno catalogati tra le regole, anche se talvolta ne portano il nome, scritti di carattere parenetico o didattico o descrittivo. Per esempio non sono regole, com'è evidente, il de laude eremi o il de contemptu munii, due opuscoli scritti tra il 418 e il 430 da Eucherio, monaco di Lérins e poi vescovo di Lione, sebbene contengano non pochi spunti sulla spiritualità e la condotta degli asceti; ma non lo sono neanche talune lettere di Girolamo, come la 2.2., la 58, la 12.5 e altre ancora, che sono dei veri e propri manuali di direzione spirituale, o la lettera di Leandro di Siviglia alla sorella Fiorentina, ne lo sono i libri de institutis coenobiorum di Cassiano, che descrivono i vizi contro i quali il monaco deve lottare e gli indicano i rimedi da adottare.
Tra lo scadere del IV secolo e i primi anni del V si colloca la prima generazione di regole latine. Più precisamente, si tratta in un caso di due testi originali, composti uno, l'Ordo monasterii, intorno al 395 nella cerchia di Sant'Agostino (forse dall'amico Alipio per i monaci di Tagaste), l'altro, il Praeceptum, dallo stesso
Agostino, verso il 397, per il monastero di Ippona, e dalla tradizione trasmessi insieme come "Regula Augustini"; in altri due casi si tratta, invece, di versioni di un testo greco, la Regola di Basilio, e di uno copto, la Regola di Pacomio. La prima fu tradotta da Rufino, che nel 397, su richiesta dell'abate del monastero di Pinete, vicino a Roma, volse in latino una redazione della quale non c'è rimasto l'originale greco, più breve rispetto all'altra, conservataci in greco. La seconda è costituita da quattro gruppi di precetti monastici dettati dal grande fondatore del cenobitismo egiziano, che Girolamo tradusse in latino, nel 404, da una precedente traduzione greca, assieme ad alcune lettere dello stesso Pacomio e del suo primo successore, Teodoro, e assieme al testamento spirituale di Orsiesi, successore di Teodoro.
Direttamente o per il tramite di testi intermedi, queste regole della prima generazione influenzarono le successive, con un fitto intrecciarsi di rapporti, che oggi, grazie soprattutto alle indagini di dom Adalbert de Vogüé, riusciamo a ricostruire abbastanza compiutamente. Tracce delle regole di Agostino e di Pacomio si rinvengono largamente sia nell'area gallo-iberica che in quella italiana e nel monachesimo iro-franco di Colombano; la Regola di Basilio sembra essere stata più presente nelle regole italiane, meno in quelle iberiche e provenzali.
Una seconda fioritura di grandi regole si ebbe a circa un secolo e mezzo dalle prime. Tra le due generazioni stanno - ma ne parleremo partitamente in seguito - le cosiddette Regole dei Santi Padri. I centri creativi di questa seconda stagione legislativa furono la Gallia meridionale e l'Italia centro-meridionale.
In Gallia, lungo la prima metà del VI secolo, svolse un'opera costante di sostegno e di regolamentazione della prassi monastica Cesario, prima monaco a Lérins e poi vescovo di Arse. Il testo più importante è la "Regula ad virgines", la prima regola femminile dell'Occidente, che Cesario compilò per il monastero di san Giovanni in Arles, retto dalla sorella Cesaria, ma che trascese subito l'ambito locale ed esercitò duratura influenza sul monachesimo sia provenzale che italiano, e non solamente femminile. Cesario vi si dedicò a più riprese, tra il 511 e il 534, e vi trasferì, con le opportune correzioni, le norme dell'ascesi e della vita comunitaria maschile, mettendo a profitto non solo i testi monastici più illustri, da Pacomio a Cassiano, ma anche l'esperienza personale, maturata negli anni del soggiorno monastico a Lérins e nella pratica pastorale. Successivamente (e non prima, come si è creduto a lungo), tra il 534 e il 541, Cesario stilò una "Regula monachorum", che di fatto non è che un compendio della regola femminile.
In Italia, tra Roma e Cassino, nella prima metà del VI secolo, a distanza di qualche decennio l'una dall'altra, vedono la luce le due maggiori regole dell'Occidente, quella del Maestro e quella di Benedetto. La questione dei loro rapporti ha dato origine negli ultimi cinquant'anni a una controversia serratissima e feconda di proposte storiografiche rinnovatrici. Oggi è largamente prevalente l'opinione che ammette la priorità e riconosce il valore e l'originalità dell'anonima "Regula Magistri", la più ampia delle Regole latine e la più sistematica. Anche di questi due testi tratteremo a parte.
Un nutrito gruppo di regole - più della metà di quelle che complessivamente ci sono rimaste - furono redatte nell'età successiva, tra la metà del VI secolo e gli ultimi decenni del VII. Sono scritti di modeste dimensioni e quasi sempre di scarsa originalità, che non superarono se non raramente i confini del monastero per il quale furono composti o, al più, i limiti regionali. Unica personalità di statura europea fu Colombano (+ 615), il fondatore di Luxeuil e di Bobbio, al quale, tuttavia, si devono regole di carattere limitato: una "Regula monachorum", contenente una serie di precetti spirituali e una descrizione dell'ufficio liturgico, e una "Regula coenobialis", che è sostanzialmente un codice disciplinare con norme punitive di tipo irlandese, comprendenti anche le percosse. Gli altri legislatori furono vescovi o abati galli, iberici, italici; alcuni testi sono anonimi e talvolta solo il confronto con altre regole meglio note ne lascia sospettare il luogo di provenienza.
Tra i molti segreti di uno scrittore complicatissimo come Plutarco, forse il più straordinario è questo. Plutarco vide in Demetrio e in Antonio due genti del male: o almeno due esseri accecati dalla propria arroganza e dalla propria hybris. Eppure nessuna Vita è scritta con partecipazione più calda e simpatia più intensa di quella dedicata ad Antonio, che per genio psicologico e talento drammatico costituisce il capolavoro di Plutarco, degno dell'altro capolavoro che ne trasse Shakespeare. Demetrio e Antonio vissero entrambi sotto il segno di Dioniso; e questa vocazione dionisiaca svela probabilmente sia l'avversione sia la nascosta partecipazione di Plutarco, devoto ad Apollo, il dio amico-nemico di Dioniso. "La vita di Demetrio" ci trasporta nel mondo dei successori di Alessandro, all'epoca in cui la Grecia sta ellenizzando l'Occidente e l'Oriente; Demetrio è visto come un personaggio da teatro, ora comico ora tragico, che affronta vita e morte all'insegna della recitazione e dell'apparenza. Antonio è un personaggio molto più complesso: grande generale, amato come nessuno dai propri soldati, capace in guerra di qualsiasi rinuncia; e gagliardo bevitore, cialtrone, spaccone. Il momento culminante della sua vita è l'incontro con Cleopatra. La scena in cui la regina egizia risale il Cidno sul battello dalla poppa d'oro, le vele di porpora spiegate al vento; la conversazione brillantissima della giovane sovrana; l'amore che stringe i due in un nodo fatale; l'annuncio da parte di entrambi di un'Età dell'Oro che seguirà al loro connubio; la sconfitta di Antonio e Cleopatra davanti a Ottaviano; la fuga e la solitudine di Antonio; i loro ultimi giorni, quando furono uditi strumenti e grida di una turba che inneggiava a Dioniso, e gli Alessandrini pensarono che "il dio più imitato ed eguagliato da Antonio per tutta la vita lo abbandonasse" - tutto ciò fa parte delle pagine più eccelse della storiografia di ogni tempo.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Demetrio
La vita di Antonio
Confronto fra Demetrio e Antonio
Scolî
COMMENTO
La vita di Demetrio
La vita di Antonio
Confronto fra Demetrio e Antonio
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Le "Vite di Demetrio e di Antonio" si distinguono, fra le altre biografie plutarchee, per vari motivi: per la loro estensione, perché l'abbinamento e il confronto fra i due personaggi risulta felice come poche altre volte, perché, infine, entrambi i protagonisti hanno, a giudizio dell'autore, un carattere "negativo", contrariamente a quello "esemplare" della maggior parte degli altri. Quanto poi alla "Vita di Antonio", essa è singolare anche perché è praticamente la biografia di una coppia, avendo Cleopatra quasi altrettanto rilievo: anzi, i capitoli 78-87 non riguardano più Antonio, ma gli ultimi giorni della regina d'Egitto.
Ci sono, naturalmente, temi comuni alle due Vite, quello fondamentale riguarda il ruolo della fortuna e la sua mutevolezza. Un altro importante carattere comune è la "teatralità", sia nel senso che i personaggi sono costruiti come eroi di tragedia, sia nel senso che frequenti sono le metafore e i richiami al teatro e alle sue scenografie. Ci sono poi punti di contatto specifici, da cui sembra emergere anche uno schema strutturale comune.
1. La "Vita di Demetrio". Il personaggio di Demetrio Poliorcete è costruito da Plutarco attraverso un'abile alternanza di luci e ombre, dal cui contrasto scaturisce una figura sostanzialmente condannabile, ma complessa e articolata. La presentazione di Demetrio, dopo alcune notizie sulla sua famiglia, è affidata a un ampio ritratto fisico e psicologico in cui qualità e difetti sono contrapposti: dalla bellezza fisica emanava leggiadria e terribilità così come il suo carattere era tale da sedurre e atterrire; il suo modello divino era Dioniso, il più terribile degli dèi ma anche il più disposto a tutte le forme di piacere. È subito posta di fronte al lettore una figura tale da esemplificare il tema delle grandi nature, che eccellono, ma in modo ambiguo, sia nel bene sia nel male. Ma non si tratta, in questo caso, di un personaggio visto soltanto nel contrasto di vizi e virtù, quale emerge dai due ritratti di Demetrio presentati da Diodoro e risalenti a Ieronimo di Cardia: Plutarco combina in modo originale i lineamenti che desume dalla sua fonte, li arricchisce e ne fa il punto di partenza per uno schema biografico chiaramente involutivo.
Il Demetrio di Plutarco appare, all'inizio della sua attività pubblica, dotato di qualità positive: alla bellezza e alla dignità regale, alla piacevolezza della compagnia e alla raffinatezza, al valore militare, si aggiungono una straordinaria pietà filiale, bontà d'animo e senso dell'amicizia, tanto che il biografo lo giudica naturalmente disposto all'equità e alla giustizia. A ciò Plutarco accompagna, attraverso tutta la biografia, la costante sottolineatura della fermezza indomita con cui Demetrio sapeva reagire ai colpi della sorte. Ma a queste note positive già la prima parte della biografia contrappone difetti (l'intemperanza e la propensione eccessiva ai piaceri amorosi) che andranno, dapprima gradatamente poi sempre più gravemente, corrompendo la sua natura, fino a renderlo preda di passioni sfrenate (non solo l'amore ma anche l'ambizione, la superbia e la sete di potere) e a farlo precipitare in una fine indecorosa, abbrutito dall'ubriachezza indolente della prigionia. In questo schema involutivo gioca, per Plutarco, un ruolo decisivo l'adulazione degli Ateniesi. Sicché, quelle che potevano apparire ombre di un ritratto contrastato, assumono un peso sempre più grave a causa della sua dismisura, che lo fa cadere nell'empietà e nell'ingiustizia.
Le tappe fondamentali dell'involuzione del carattere di Demetrio sono, secondo Plutarco, prodotte dal deleterio influsso dell'adulazione - fattore cui il biografo riconosce un ruolo di primo piano nel clima politico ellenistico, tanto che "adulatori" sono qualificati normalmente i personaggi più vicini ai diadochi - sui difetti del personaggio, fondamentalmente riassumibili nell'avidità illimitata di potere. Anche se il profondo deterioramento morale e politico provocato da quest'ambizione è caratteristica di tutti i diadochi, Plutarco si preoccupa di segnalarne puntigliosamente l'effetto in particolare sul suo protagonista.
Mentre leggiamo le Storie, vediamo Erodoto, animato da una curiosità insaziabile verso la totalità dell'esistenza, entrare nei templi e "osservare, conversare, porre domande, ascoltare, riflettere, paragonare, sollevare problemi, ragionare, talvolta concludere". Egli considera con attenzione e rispetto tutto ciò che fa l'uomo - tutte le nostre imprese gli sembrano degne di interesse o memorabili. E, insieme, sparge un'onnipresente ironia sugli orgogli, le vanità, le pretese, le follie, la hybris dell'uomo.
Prima o dopo di lui, nessuno ha mai saputo orchestrare così perfettamente una storia totale: i fatti politici, economici, militari, i costumi, le leggende, le favole, il folclore, la geografia, i monumenti si equilibrano in quest'opera che respira l'immensità e la libertà degli spazi aperti.
Con il quinto libro delle Storie, tradotto e commentato da uno dei più noti studiosi europei di Erodoto, entriamo in un nuovo mondo, rispetto ai primi quattro libri. Non ci sono più i grandi spazi asiatici e nordafricani, che ci avevano condotto sino ai confini della terra conosciuta, e ci avevano dato la vertigine dell'infinito. Il nostro spazio è la piccola Grecia, sia asiatica che europea. La storia unitaria di tutta la Persia si frantuma in molteplici storie locali di città greche (sullo sfondo, Atene e Sparta), le quali però si richiamano e riecheggiano a vicenda, come parti di una storia non meno universale di quella persiana. Come sempre, il racconto è impareggiabile per freschezza, intelligenza, ironia. Erodoto cerca le minime cause degli eventi; studia le doppie motivazioni; e spiega il contrasto tra la concezione greca e quella persiana della geografia. Egli mostra come gli uomini architettino grandi progetti, che credono di poter realizzare; mentre poi giunge il caso, che si diverte a scompigliare tutti i progetti umani. Mai Erodoto è stato meno nazionalista che in questo libro. La rivolta ionica, che faceva ormai parte dei miti eroici della Grecia, viene rappresentata come un'avventura inutile e sciagurata, nata dall'eccesso di benessere e dalle oscure ambizioni di qualche dubbio personaggio.
Indice - Sommario
Introduzione ai Libri V-IX
Bibliografia
Abbreviazioni bibliografiche
Introduzione al Libro V
Sommario del Libro V
Tavola cronologica
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Nota al testo del Libro V
Il Libro V delle Storie
Scolî
LEXEIS
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduione ai libri V-IX, di Giuseppe Nenci
E opinione diffusa che le Storie si possano idealmente suddividere nelle due parti corrispondenti agli attuali libri I-IV e VI-IX, fra le quali farebbe da cerniera il libro V.
Alla base di questa convinzione troviamo però motivazioni divergenti: una cosa è infatti sostenere che la diversità derivi da un rimaneggiamento profondo dei primi libri in funzione della storia delle guerre persiane; un'altra cosa è ritenere che la materia degli ultimi libri esigeva una trattazione diversa. Per i fautori della cosiddetta teoria dei logoi, che risale allo Schoell e fu teorizzata dal Bauer nel 1878, le varie parti dell'opera sarebbero state composte separatamente, ubbidendo ogni logos allo stesso schema, dopo di che Erodoto avrebbe più o meno abilmente legato fra loro i vari nuclei tematici: di qui la disorganicità dell'opera, le sproporzioni fra le diverse parti, le digressioni. Ripresa dal Jacoby nel 1915, che ripete le tesi dei logoi scritti per essere resi noti separatamente e rimaneggiati poi in uno scritto unitario per lumeggiare la storia delle guerre persiane, la teoria ha infine trovato nel De Sanctis lo storico che l'ha portata alla sua più coerente teorizzazione. Per il De Sanctis, avendo Erodoto davanti a sé modelli quali gli Annali (come quelli di Carone di Lampsaco), le Periegesi e le Genealogie (come quelle di Ecateo) o monografie sui barbari (i Persikà di Carene di Lampsaco o i Lydiakà di Xanto di Lidia), non avrebbe potuto fare un'opera assolutamente nuova. Per questa ragione Erodoto avrebbe scritto a sua volta alcuni logoi (sui Lidi, gli Egizi, gli Sciti e i Libi) e poi avrebbe pensato di inquadrarli in una storia della Persia, che facesse da cornice, trattandosi di popoli tutti combattuti o incorporati dai Persiani. Una simile narrazione avrebbe poi comportato anche la storia della "grande guerra" fra Grecia e Persia, e specialmente quella di Serse. Sempre secondo il De Sanctis, avvicinandosi alla storia della grande guerra, Erodoto avrebbe sentito crescere l'interesse del pubblico, comprendendo la grandezza della materia che aveva la possibilità di trattare e dando alla sua opera la forma attuale. Di qui lo spostamento dell'interesse dall'etnografia alla storia: di qui la preponderanza della narrazione della guerra fra Grecia e Persia tale da mutare radicalmente il piano della sua opera.
La teoria dei logoi, che è stata il Leitmotiv della critica erodotea dal secolo scorso fino agli anni trenta del Novecento', porta perciò con sé la considerazione che i libri V-IX siano una sorta di coda che avrebbe finito col trasformare geneticamente il resto. Per chi viceversa ritenga che la struttura dell'opera non sia tale da giustificare la teoria dei logoi, che ha alla sua radice una visione formalistica della struttura di un'opera letteraria e fu influenzata dal parallelo dibattito sui poemi omerici fra analisti e unitari, i libri V-IX non si differenziano affatto dai precedenti, salvo che per ragioni legate al loro contenuto. Come è stato osservato, nella seconda parte delle Storie Erodoto non poteva più usare la sua percezione materiale di viaggiatore, ma soltanto paragonare le fonti: in questo senso, "la narrazione della guerra è perciò più derivativa e di conseguenza in un certo senso inferiore"2.
Per questo motivo il nesso unitario fra la prima e la seconda parte delle Storie, più volte richiamato da Erodoto, va visto nella storia dell'espansionismo persiano e nella ricerca della causa del conflitto fra Greci e Persiani. E un nesso esplicitamente dichiarato nella nota premessa delle Storie, che giustifica nello stesso tempo l'interesse per tutto ciò che (in quanto umano e grande) diviene degno di ammirazione, nonché la genesi del conflitto greco-persiano. L'umanità diventa con Erodoto soggetto e oggetto della storia, lasciati al loro destino gli dei delle Teogonie: questo è il laico messaggio di Erodoto; nelle Storie la divinità sovrasta come sempre gli uomini, ma non interviene più direttamente, come nell'immaginazione omerica.
La diversità fra i libri I-IV (in cui prevale la storia degli ethne) e V-IX (caratterizzati da storie di poleis) è se mai da cogliere nel diverso modo, più serrato, di trattare gli eventi, nel venire meno della necessità di pagine etnografico-scientifiche (non era necessaria una etnografia greca), e nella scoperta del concetto unificatore di Hellenikòn, che Erodoto individua nell'unità di sangue, di lingua, di religione, di costumi e istituzioni simili fra Greci, e non nell'abitare una terra chiamata Hellàs. Inoltre, nei libri V-IX, se si eccettua la voluta inserzione della storia arcaica di Sparta e di Atene, le digressioni si fanno più rare sia ratione materiae, sia per l'esigenza di collegare più strettamente fra loro eventi ben connessi anche cronologicamente - cosi la rivolta ionica e le due spedizioni persiane in Grecia -, mentre il loro spazio viene in qualche modo riempito da discorsi ora più frequenti come fra protagonisti più ravvicinati.
In sostanza, è più agevole cogliere ciò che accomuna fra loro le due parti delle Storie, se tali vogliamo che siano, che non ciò che le distingue. E cosi le accomuna l'identica cura nell'affrontare i problemi, la stessa tensione morale, la stessa visione della vita e del mondo: un mondo in cui l'etica delfica della moderazione e i primi spunti di uno spirito laico convivono in Erodoto, sempre presente col suo io narrante, se è vero che "leggerlo è come sentirlo parlare", perché di fatto egli scrive come parla. Il vero nesso unitario dell'opera erodotea sta nel fatto che la sua storia è funzione della sua storiografia, ovvero del modo in cui Erodoto concepiva il mestiere e il lavoro dello storico.
"L'istruzione cristiana" (titolo originale latino: De doctrina christiana) è un trattato di ermeneutica, scritto da sant'Agostino quando era appena diventato vescovo di Ippona. In termini più attuali, può essere definito un manuale in cui il grande Dottore di una Chiesa ancora giovane e inesperta insegna a interpretare la Sacra Scrittura e a spiegarla pubblicamente secondo i canoni stilistici ereditati dalla latinità classica, in sostanza dalla retorica ciceroniana. Come modello supremo, però, viene proposto san Paolo, teologo ispirato e sublime oratore. "L'istruzione cristiana" viene così a situarsi come fondamentale opera-ponte tra l'antichità, nutrita di letteratura profana, e il medioevo, permeato di cultura biblica.
I libri VII, VIII e IX delle "Confessioni", nel commento di Goulven Madec e di Luigi F. Pizzolato, accompagnano la vita di Agostino sino all'autunno del 387. All'inizio del libro VII, Agostino è ancora immerso nell'ombra. Le dottrine manichee lo influenzano profondamente. Se pensa a Dio, immagina qualcosa di corporeo, collocato nello spazio. E da dove nasce il male? E perché Dio crea il male? È un problema a cui Agostino non troverà mai, in realtà, una risposta definitiva: "Che tormento, allora, per il mio cuore in travaglio, che gemito, mio Dio! E lì c'erano le tue orecchie, anche se non lo sapevo". La liberazione è rappresentata dalla lettura dei libri Platonicorum, che gli mostrano Dio come una luce immutabile e gli insegnano che il male non è una sostanza.
Tuttavia, mille ansie e angosce lo torturano ancora: l'eros, il mestiere retorico. Vive nell'incertezza: "E tu, o Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, t'adirerai sino alla fine? [...] Quanto tempo ancora e ancora, domani e domani? Perché non subito?". Infine Agostino sente una voce come di fanciullo, che dalla casa vicina gli dice: "Prendi, leggi; prendi, leggi". È un passo di Paolo. In quel momento, la luce della certezza penetra nel suo cuore; e all'istante tutte le tenebre del dubbio si dissipano. La storia del periodo trascorso con gli amici a Cassiciaco, e la morte della madre Monica ad Ostia, completano il terzo volume. Insieme alla madre, Agostino conosce una rapidissima visione mistica di Dio, anticipatrice della rivelazione definitiva, che ogni cristiano avrà soltanto nella vita eterna.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro VII
Libro VIII
Libro IX
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro VII
Libro VIII
Libro IX
Nato a Gerusalemme nel 37 dopo Cristo, Flavio Giuseppe discendeva da una famiglia di grandi sacerdoti ebrei. Per qualche tempo, diresse la resistenza del suo popolo contro i romani: poi cadde prigioniero, collaborò con i nemici, predisse l'ascesa al trono di Vespasiano ; e per tutta la vita fu combattuto fra il profondo amore per il Dio di Israele, il tempio di Gerusalemme, i riti amorosamente coltivati e conservati, e la convinzione che la Provvidenza aveva ormai scelto l'immenso, maestoso e armonico impero di Roma.
La guerra giudaica, scritto prima in aramaico poi in greco, è uno dei libri più drammatici della storiografia universale. Il lettore moderno vi trova lo stesso paesaggio di città, di campagne e di deserti, dove pochi decenni prima aveva predicato Gesù Cristo : penetra nel Tempio, apprende i riti e le abitudini degli Esseni, la filosofia politica degli Zeloti, conosce lo stesso mondo che ci è stato recentemente rivelato dai manoscritti del Mar Morto. La prima parte del libro è dedicata ai delitti che funestarono la famiglia di Erode ; e l'intreccio tra la passione per il potere e gli amori e gli odi egualmente sanguinari fra parenti ricorda le tragedie storiche di Shakespeare. Ma il cuore dell'opera è la lotta del piccolo popolo ebreo, guidato dalla fazione degli Zeloti, contro le legioni di Vespasiano e di Tito. Una delle più terribili tragedie della storia di ogni tempo rivive davanti ai nostri occhi: esempi di coraggio disperato, di straordinaria astuzia guerriera e di folle fanatismo rivoluzionario : scene di battaglia, lunghissimi assedi, fame, saccheggi, prigionieri crocifissi, inermi massacrati, gli ultimi difensori che si uccidono a vicenda con le spade, fino al momento - che Flavio Giuseppe rievoca lacrimando - in cui il Tempio, simbolo della tradizione ebraica, viene avvolto dalle fiamme di un incendio inestinguibile.
Questa edizione traduce, nell'appendice a cura di Natalino Radovich, anche i frammenti dell'antica versione russa della Guerra giudaica, che mancano nel testo greco. In alcuni di questi frammenti, appare Gesù Cristo : secondo alcuni studiosi, si tratterebbe della più antica testimonianza d'ambiente ebraico intorno al Messia.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Commento
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Prefazione / Introduzione
La vita di Giuseppe e il racconto della guerra giudaica
Giuseppe (più tardi, quando ebbe la cittadinanza romana, Flavio Giuseppe) appartenne a quella generazione di giudei cui, mentre si appressavano al "mezzo del cammino", toccò di vedere la distruzione di Gerusalemme e la rovina del tempio. A Gerusalemme egli era nato fra il 13 settembre del 37 e il 17 marzo del 381: troppo tardi per rendersi conto dell'ansia disperata di cui la città fu preda intorno al 40, quando. da Roma arrivò l'ordine di collocare nel tempio, e farne oggetto di culto, un'immagine di Caligola. Superata, all'avvento di Claudio, la grave tensione, la vita era ripresa nella più o meno generale rassegnazione agli incomodi del dominio romano, e Giuseppe potè intraprendere gli studi in un'atmosfera meno agitata. Più tardi, rievocando nell'ultima pagina dell'Archeologia quei suoi studi e tutta la sua formazione spirituale, egli distinse tra lo studio della grammatica e della lingua greca (della quale tuttavia confessava di non aver raggiunto una pronuncia perfetta: la sua lingua materna era l'aramaico) e quella che chiamava la paidéia epichórios, paidéia propriamente giudaica: una paidéia, aggiungeva, nella quale, per ammissione dei suoi connazionali, andava innanzi ad ogni altro. In ogni modo, la preparazione di Giuseppe fu adeguata al suo elevato rango sociale; la sua era infatti una delle famiglie più cospicue, appartenente per parte di padre all'alta nobiltà sacerdotale, mentre per parte di madre egli si gloriava di discendere dalla famiglia reale degli Asmonei. In questa preparazione lo studio della Legge aveva una parte di primo piano, e non v'è ragione di non prestargli fede quando egli aggiunge di aver fatto, grazie alla sua non comune memoria e intelligenza, tali progressi, che al tempo in cui era solo un giovinetto di quattordici anni alcuni sommi sacerdoti e altre personalità di primo piano si recarono da lui a consultarlo.
Il quindicesimo anno di vita fu speso in una diretta sperimentazione delle regole teorico-pratiche seguite dalle tre sette che allora tenevano il campo, i Farisei, i Sadducei e gli Esseni, con l'intenzione di prepararsi ad una scelta. Dai rapidi cenni della Vita (2,10) si ricava l'impressione che si sia trattato di una frequentazione cursoria, con una permanenza meno breve presso gli Esseni, cui Giuseppe sembra alludere quando narra di essersi sottoposto a un duro tirocinio, passando attraverso una serie di prove molto severe. Assai più lunga fu invece l'esperienza ascetica vissuta nei tre anni successivi, quando si ritirò nel deserto a far vita di penitenza; il fatto che Giuseppe ricorda anche il nome del maestro che gli fu allora di guida lascia pensare che per lui si trattò di un impegno superiore al normale, e di un'adesione spirituale che i posteriori contatti con il mondo greco-romano non avrebbero potuto cancellare. Comunque, quand'egli fece ritorno in città, fu alla setta dei Farisei che andò la sua preferenza piuttosto che a quella dei Sadducei, verso cui era in genere orientata l'aristocrazia delle grandi famiglie sacerdotali, e il giovane Giuseppe continuò a esercitare il suo ingegno nel lavoro d'interpretazione della Legge e il suo zelo nel praticarne i precetti.
Nato a Gerusalemme nel 37 dopo Cristo, Flavio Giuseppe discendeva da una famiglia di grandi sacerdoti ebrei. Per qualche tempo, diresse la resistenza del suo popolo contro i romani: poi cadde prigioniero, collaborò con i nemici, predisse l'ascesa al trono di Vespasiano ; e per tutta la vita fu combattuto fra il profondo amore per il Dio di Israele, il tempio di Gerusalemme, i riti amorosamente coltivati e conservati, e la convinzione che la Provvidenza aveva ormai scelto l'immenso, maestoso e armonico impero di Roma.
La guerra giudaica, scritto prima in aramaico poi in greco, è uno dei libri più drammatici della storiografia universale. Il lettore moderno vi trova lo stesso paesaggio di città, di campagne e di deserti, dove pochi decenni prima aveva predicato Gesù Cristo : penetra nel Tempio, apprende i riti e le abitudini degli Esseni, la filosofia politica degli Zeloti, conosce lo stesso mondo che ci è stato recentemente rivelato dai manoscritti del Mar Morto. La prima parte del libro è dedicata ai delitti che funestarono la famiglia di Erode ; e l'intreccio tra la passione per il potere e gli amori e gli odi egualmente sanguinari fra parenti ricorda le tragedie storiche di Shakespeare. Ma il cuore dell'opera è la lotta del piccolo popolo ebreo, guidato dalla fazione degli Zeloti, contro le legioni di Vespasiano e di Tito. Una delle più terribili tragedie della storia di ogni tempo rivive davanti ai nostri occhi: esempi di coraggio disperato, di straordinaria astuzia guerriera e di folle fanatismo rivoluzionario : scene di battaglia, lunghissimi assedi, fame, saccheggi, prigionieri crocifissi, inermi massacrati, gli ultimi difensori che si uccidono a vicenda con le spade, fino al momento - che Flavio Giuseppe rievoca lacrimando - in cui il Tempio, simbolo della tradizione ebraica, viene avvolto dalle fiamme di un incendio inestinguibile.
Questa edizione traduce, nell'appendice a cura di Natalino Radovich, anche i frammenti dell'antica versione russa della Guerra giudaica, che mancano nel testo greco. In alcuni di questi frammenti, appare Gesù Cristo : secondo alcuni studiosi, si tratterebbe della più antica testimonianza d'ambiente ebraico intorno al Messia.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Commento
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Cartine
Tavole genealogiche
Appendice
IL TESTO RUSSO ANTICO DELLA "GUERRA GIUDAICA", a cura di Natalino Radovich
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
Testi
Libro primo
Libro secondo
Libro terzo
Libro quarto
Libro quinto
Libro sesto
Libro settimo
Indice dei nomi propri di persona e di luogo
Come un grande drammaturgo, Plutarco rievoca, sullo sfondo delle "Vite di Nicia e di Crasso", i personaggi principali che in quei tempi vissero ad Atene e a Roma: Pericle, Cleone e Alcibiade, Silla, Pompeo e Cesare. Davanti ad essi, Nicia e Crasso sono personaggi minori: entrambi prudenti, amabili e moderati. Nicia tende a nascondersi, mentre alla fine Crasso viene travolto dall'avidità e dall'euforia. Ma nessuno dei due possiede l'energia, la determinazione, la forza che permettono a un uomo di interpretare il proprio tempo e di simboleggiare un periodo storico.
In queste due Vite, Plutarco rivela il dono capitale del drammaturgo: l'amore per il disastro. La follia collettiva che sconvolge Atene e la conduce alla guerra del Peloponneso, il massacro in Sicilia della spedizione guidata da Nicia, il crollo della civiltà ateniese. I segni infausti che accompagnano la spedizione romana in Oriente, il fascino e le insidie del mondo iranico, la sinistra e scurrile mascherata alla corte dei Parti, dove un doppio in vesti femminili impersona Crasso, compaiono le cortigiane, vengono recitate le "Baccanti" di Euripide, mentre la testa del generale romano viene gettata nella sala del banchetto...
Leggendo le due Vite qualcuno si chiederà cosa Tucidide e Shakespeare avrebbero pensato di pagine così straordinarie, capaci di rivaleggiare con la grandiosa obiettività dell'uno e la fantasia visionaria dell'altro.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Grasso
Scolî
COMMENTO
La vita di Nicia
La vita di Crasso
Confronto fra Nicia e Crasso
APPENDICE
Nota al testo
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
1. La "Vita di Nicia". In questa biografia è a prima vista percepibile un tratto che la distingue, insieme con poche altre, nel corpus cui appartiene: la ricostruzione della personalità del protagonista non ha le evidenti contraddizioni che, per esempio, si riscontrano nella "Vita di Cìmone". Al primo capitolo, dedicato alla rassegna dei principi metodologici, segue la descrizione del carattere del protagonista, che fluisce ininterrottamente, sotto forma di notazioni quasi mai marginali, anche in quella parte della Vita dedicata al racconto delle sue gesta. In via preliminare va detto che il ritratto di Nicia risulta nient'affatto elogiativo, perché il suo comportamento appare sempre permeato di viltà, di cautela che sconfina nel timore e di superstizione. Plutarco sostiene che Nicia era per natura privo di coraggio e pessimista; in guerra la sua pusillanimità veniva dissimulata dalla fortuna che gli fu propizia in quasi tutte le campagne militari. Nel 425, con un comportamento simile a quello che Dante avrebbe attribuito a Celestino V, Nicia "fece per viltade il gran rifiuto", cedendo all'avversario Cleone il comando dell'impresa di Pilo. E ciò - commenta Plutarco - apparve una vergognosa manifestazione di debolezza, più grave ancora che gettare lo scudo o la clamide in battaglia.
Nicia era costantemente in preda alla paura: per timore dei delatori non pranzava con alcuno dei concittadini, non osava conversare con nessuno, non trascorreva mai le giornate in compagnia di altri; se non aveva affari pubblici da sbrigare, era assai difficile avvicinarlo, perché se ne stava chiuso e rintanato in casa. Non attribuiva mai i suoi successi a prudenza, ad abilità o a virtù personali, bensì alla sorte, e si trincerava dietro l'intervento divino per timore dell'invidia suscitata inevitabilmente dalla fama. Nel 415, non essendo riuscito a dissuadere gli Ateniesi dall'intraprendere la spedizione in Sicilia e posto contro il suo volere a capo dell'armata, Nicia mostrò un'esitazione e un timore sconfinati. Come un fanciullo - nota Plutarco - si volgeva a guardare indietro dall'alto della nave, rimuginando sull'insuccesso dei discorsi da lui pronunziati per evitare la guerra e finendo così con lo scoraggiare i colleghi e spegnere l'ardore dell'impresa. Non c'è da stupirsi che il suo modo di agire offrisse il destro al nemico Ermocrate di esclamare che Nicia era uno stratego veramente ridicolo, in quanto rivolgeva tutti gli sforzi a evitare di combattere, quasi non fosse venuto in Sicilia per questo scopo. Infatti, a furia di calcoli, esitazioni e cautele, finiva con lo sciupare sempre le occasioni propizie. Era facile allo sconforto: battuto dai Siracusani guidati da Gilippo, si lasciò prendere dallo scoraggiamento. Scrisse agli Ateniesi d'inviare in Sicilia un'altra armata oppure di ritirare quella che già c'era; in ogni modo li pregava di esonerarlo dal comando a causa delle cattive condizioni di salute: soffriva terribilmente di "nefrite".
Sulle orme di Tucidide, Plutarco iscrive Nicia nella schiera di quanti temono fortemente gli dèi e sono perciò troppo inclini alle pratiche divinatorie. Quando il 27 agosto 413 si verificò un'eclissi totale di luna proprio mentre gli Ateniesi erano in procinto di lasciare la Sicilia, egli, per ignoranza o superstizione atterrito da quel fenomeno, convinse i suoi uomini a restare per la durata di un'altra lunazione. Così, trascorrendo le giornate a fare sacrifici e a consultare oracoli, rinunziò a una fuga ancora possibile, condannando sé stesso e l'esercito tutto a una sicura sconfitta. E, con una punta di cinismo, Plutarco sostiene altrove che Nicia avrebbe fatto meglio a togliersi la vita, anziché lasciarsi accerchiare per timore dell'ombra prodotta da un'eclissi lunare.
Dotato di straordinari beni di fortuna, non era alieno dal ricorrere alla corruzione: nel 421, conclusa la pace fra Atene e Sparta, con una somma di denaro comprò segretamente il risultato del sorteggio, sicché toccò ai Lacedemoni restituire per primi territori, città conquistate e prigionieri. Ciò che maggiormente viene sottolineato nel corso della Vita è la debolezza di carattere di Nicia: per non combattere contro gli Spartani, consegnò all'inesperienza di Cleone navi, soldati, armi e un comando militare che richiedeva il massimo della competenza, compromettendo non solo il proprio prestigio, ma anche la sicurezza della patria. Infine, nonostante le commoventi parole poste sulla sua bocca, Plutarco sottolinea che, a differenza di Crasso, Nicia si diede in balia dei nemici con il miraggio di una possibile salvezza, procurandosi invece la più ingloriosa delle morti. E quasi a commento, Pausania riferisce che lo stratego ateniese non ebbe il nome inciso sulla stele dei caduti per essersi arreso. Come già Aristofane, Plutarco biasima l'abituale tendenza di Nicia a temporeggiare; ne disapprova la viltà e la debolezza; ne riprova la politica e denunzia il fatto che egli, privo delle qualità di Pericle e della ciarlataneria con cui Cleone compiaceva e insieme controllava il demo, era costretto a cattivarselo per mezzo di spettacoli teatrali, ginnici e altre munificenze.
Qua e là Plutarco è indotto a riconoscere che a Nicia non mancavano doti e qualità, ma lo fa sempre con riserva. Se ne apprezza la moderazione, l'umanità, l'esperienza e l'abilità; se lo presenta come un individuo onesto e saggio che non si lasciò esaltare da speranze nè insuperbire dall'importanza del comando; se ne loda l'astuzia dei piani militari e l'abilità come stratego; se ne ammira l'energia, l'efficacia e la rapidità di movimenti;
Il secondo volume delle "Confessioni" comprende i libri quarto, quinto e sesto, commentati da Luigi E Pizzolato, Patrice Cambronne e Paolo Siniscalco. Composti a onde che si avanzano e si ritirano, secondo un fitto intreccio di motivi sinfonici, questi libri sono da un lato ritmati dal passo inesorabile e vano del tempo ("le cose che vanno dove vanno sempre, per non essere, per non essere più") e, dall'altro, dal passo di Dio che, "per vie nascoste e meravigliose", si insinua nel cuore di Agostino e di ogni uomo. Quando il libro quarto inizia, Agostino possiede una religione e una cultura: crede nel manicheismo, nell'astrologia, nella retorica; e vive come vivono tutti, accanto a una donna e a un figlio. Ma tutto precipita. Presto non crede più nella "massa tetra e informe" del Male, opposta alla quiete imperturbabile di Dio; nell'astrologia ne alle parole di Cicerone e di Aristotele. Intanto ha conosciuto lo slancio entusiastico dell'amicizia, la coscienza di essere due in uno, la morte dell'amico, il dolore straziante della separazione definitiva, il gusto e l'amore delle lacrime. "Tutto mi faceva orrore, persino la luce, e qualsiasi cosa non fosse lui m'era insostenibile e fastidiosa, eccetto il gemito e il pianto. " E su questo terribile strazio grava, nel testo delle "Confessioni", il senso della vanità di tutte le passioni terrene. Alla fine del libro sesto, Agostino ha lasciato l'Africa ed è a Milano. Ascolta e intravede Ambrogio e la sua lettura silenziosa. Ormai è sulla soglia. Attraverso Ambrogio, incomincia a capire le Scritture e la sostanza spirituale. Il Dio "altissimo e vicinissimo, segretissimo e presentissimo" sta per rivelarglisi.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro IV
Libro V
Libro VI
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro IV
Libro V
Libro VI
Il quarto libro delle Storie contiene la storia più bella narrata da Erodoto. Sotto la guida di Dario I, un grande esercito persiano avanzò nella Scizia: nel cuore dei paesi del freddo, dove per otto mesi all'anno il mare gela, il freddo fa cristallizzare le lacrime nell'occhio, e l'orizzonte è nascosto da una nevosa tempesta di piume. I cavalieri sciti si ritirarono come fantasmi davanti all'armata di Dario, distruggendo i raccolti, bruciando i pascoli, riempiendo i pozzi di terra, o comparendo all'improvviso sui loro cavalli, per aggredire i soldati che riposavano accanto ai fuochi accesi nella notte. I Persiani non potevano raggiungerli, a meno che non divenissero uccelli per assalirli dal ciclo, o non si trasformassero in topi per inseguirli sotto terra, o in rane per balzare nelle paludi. Così Dario decise di tornare in patria. Gli arcieri a cavallo della Scizia avevano sconfitto gli strateghi del "re dei re". Gli sciamani avevano scrutato il futuro meglio dei maghi achemenidi. L'antica patria degli Iranici era rimasta lontana e imprendibile, come i grifoni che custodiscono l'oro tra le nevi del Settentrione.
Nessuno dei grandi affreschi etnologici di Erodoto è forse pari a quello che egli ha dedicato alla Scizia: con le pagine meravigliose sulle tombe, i rituali funebri, le cerimonie sciamaniche. Le modernissime indagini archeologico-etnologiche, che Aldo Corcella ha raccolto con precisione e completezza nel suo commento, non fanno che confermare ciò che ha scritto Erodoto, quest'uomo innamorato dell'esattezza.
L'ultima parte del libro è dedicata alla Libia: Erodoto si inoltra sempre più lontano nel deserto, tra le montagne e le case di sale, dove non scende nemmeno una goccia di pioggia. Quando giungiamo tra gli uomini che non hanno nomi propri ne sogni, noi, che siamo fatti di nomi e di sogni, sappiamo di aver toccato la fine del mondo.
Il volume è accompagnato da un ampio inserto iconografico di ori e documenti scitici.
Indice - Sommario
Introduzione al Libro IV
Bibliografia
Abbreviazioni bibliografiche
Sommario del Libro IV
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Nota al testo del Libro IV
Il Libro III delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Appendici
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
Il quarto libro di Erodoto si apre con la decisione da parte di Dario di marciare contro gli Sciti; ciò avverrebbe "dopo la presa di Babilonia", narrata alla fine del terzo libro. Questa vaga datazione ha fatto molto discutere; e stabilire quando realmente la spedizione ebbe luogo non è facile. Sarebbe comunque un errore non riconoscere che l'indicazione erodotea è funzionale al "tempo narrativo": Erodoto dice che la spedizione avvenne dopo la presa di Babilonia perché ha deciso di narrarla subito dopo di quella, ma l'intervallo di tempo effettivo resta indeterminato, celato - come spesso accadeva nell'epica - nell'apparente continuità del racconto. Contemporaneamente alle ultime fasi della spedizione di Dario si svolge d'altro canto la spedizione in Libia; tutta la narrazione del quarto libro si sviluppa intorno a questi due eventi, quasi simultanei ma raccontati in sequenza, uno dopo l'altro.
All'iniziale dichiarazione sulla spedizione scitica fa seguito l'indicazione della causa. Come di consueto in Erodoto, sulla motivazione economica generale (la ricchezza dell'Asia, la volontà di espansione) si innesta la causa particolare, la vendetta. Il motivo della vendetta riporta la narrazione indietro, con un richiamo all'invasione scitica dell'Asia di cui Erodoto aveva parlato a I 103-6. Questo flashback offre il pretesto per raccontare un episodio relativo al ritorno degli Sciti dall'Asia: un piccolo excursus all'interno del quale se ne inserisce un altro (la lavorazione del latte da parte degli schiavi). Nel cap. 4, quindi, l'excursus viene chiuso con una tipica formula di passaggio che ci riporta al tema della spedizione di Dario enunciato al cap. I: "Fu così che gli Sciti dominarono sull'Asia, e... tornarono in patria nel modo che ho detto. Per questo motivo Dario, volendo vendicarsi, raccoglieva un esercito contro di loro".
A questo punto ci attenderemmo il racconto della spedizione. Questo racconto comincerà però solo al cap. 83; i capp. 5-82. sono invece occupati da un ampio excursus, il cui argomento è la Scizia e gli Sciti.
II
II modo in cui questo excursus si sviluppa ricorda da vicino il logos egizio del secondo libro. L'intimo nesso tra le due sezioni consiste nell'analogo atteggiamento, nel comune indirizzo della ricerca. Se il logos egizio si apre con la dichiarazione che gli Egizi sono il popolo più antico o quasi, all'esordio di quello scitico viene detto che gli Sciti sono i più giovani; entrambe queste affermazioni vengono quindi discusse attraverso un'analisi delle tradizioni locali, messe a confronto con quelle greche. Il problema dell'origine del popolo si lega così a quello dell'estensione del territorio e della sua delimitazione: per l'Egitto, si discute della sua natura di "dono del Nilo", della sua posizione a cavallo tra Asia e Libia e delle regioni all'estremo sud, fino alle foci del Nilo; per la Scizia, delle regioni poste all'estremo nord.
Erodoto va così esplorando i confini dello spatium historicum e dello spazio geografico, e la sua ricerca lo porta a una polemica contro i predecessori: se i racconti mitistorici greci vengono smentiti dalle tradizioni locali, le nozioni della geografia ionica si rivelano troppo schematiche rispetto alla realtà. L'excursus di IV 36.2.-45 sulla divisione tra le parti del mondo, apparentemente pretestuoso, trova così una sua motivazione: alla base della descrizione geografica della Scizia c'è la medesima esigenza di controllo e di verifica dei dati precedentemente noti ai Greci, e cristallizzati nei loro peripli e carte, che animava l'inizio del libro secondo (nonché la riflessione sulle regioni estreme del mondo a III 106-16); e a IV 36.2.-45 Erodoto può finalmente tirare le somme, su un piano più generale, di tutto questo lavoro.
Solo tenendo presenti questi presupposti la struttura per certi versi disordinata del logos scitico può risultare più chiara. Innanzitutto, Erodoto deve fare i conti con i precedenti autori greci. Dell'origine degli Sciti e dei popoli che, al di là della Scizia, vivevano ai margini del mondo conosciuto, aveva già parlato una curiosa figura di poeta, Aristea di Proconneso, in un altrettanto singolare poema, le Arimaspee. Ma Aristea, tipico esponente di quella schiera di figure misteriose a proposito delle quali si raccontavano, nella Grecia tra età arcaica e classica, reincarnazioni, sparizioni miracolose, episodi di ubiquità, non era un personaggio che potesse incontrare il favore di Erodoto. A esordio del proprio poema egli affermava di essere approdato tra gli Issedoni "per un in-vasamento di Apollo": qualcosa di simile, forse, ai mistici arabi medievali sempre pronti a partire dalla natia Spagna per il loro misterioso "oriente". Aristea, per parte sua, doveva parlare di un volo magico, e discorreva degli Iperborei, il mitico popolo apollineo ben noto ai poeti greci. Tutto ciò sembrava fatto apposta per destare la diffidenza di Erodoto, il quale rivela chiaramente il suo scetticismo sulla realtà del viaggio di Aristea; e anche gli studiosi moderni, incerti perfino sulla sua collocazione cronologica, non sanno decidere se Aristea fosse solo un sublime ciarlatano, che inserì nel racconto del suo "viaggio dell'anima" elementi geografici, etnografici e mitici raccolti da ogni dove; oppure un reale viaggiatore, spintosi dalla Propontide fino agli avamposti settentrionali della grecità e di lì penetrato nelle steppe eurasiatiche, dove figure e leggende sciamaniche poterono corroborare una vocazione apollinea ben diffusa in tutte le colonie milesie del Ponto.
Se alla fine del ventesimo secolo esiste un pensiero religioso-filosofico vivo, è certamente quello di tradizione gnostica. Da Kafka a Jung, da Heidegger alla Weil, da Pessoa alla Cvetaeva a Cioran, la letteratura e la psicologia moderne sono state profondamente plasmate dai grandi temi gnostici. La formicolante moltitudine degli dèi; l'idea della luce divina caduta nella materia, da cui cerca di liberarsi; il mondo materiale come carcere; l'ineffabilità come legge segreta dello spirito; l'esilio di ogni uomo; il mito dell'uomo-donna; la rappresentazione mitologica del pensiero e dei sentimenti - non c'è quasi nessun tema gnostico che non risvegli un'eco profonda in un cuore di oggi. Come dice il "Vangelo di Filippo": "La verità non è venuta nuda nel mondo, ma è venuta in simboli ed immagini".
La scoperta dei testi gnostici copti di Nag Hammadi ha fatto dimenticare che i frammenti gnostici conservati, in lingua greca e latina, dai polemisti cristiani sono spesso molto più ricchi e complessi. Nel volume che presentiamo, tutti questi frammenti sono raccolti da Manlio Simonetti e accompagnati da un commento di ammirevole precisione e chiarezza. È la prima volta che testi accecanti per ardore intellettuale e forza di immaginazione vengono messi alla portata di qualsiasi lettore. Tutti comprenderanno che l'apparentemente complicatissima mitologia gnostica continua a parlare di ciascuno di noi. Che cos'è la gnosi? Un'eresia cristiana? O una religione autonoma, di carattere sincretistico, con apporti orientali, greci, ebraici e cristiani? Esiste una gnosi precristiana? A queste domande storico-culturali, da cui dipende il nostro posto nel mondo, il libro curato da Simonetti risponde secondo un'ottica nuova, la quale tiene conto di tutta l'immensa ricerca degli ultimi tempi.
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni bibliografiche
TESTI E TRADUZIONI
- Parte Prima - Simon Mago e la sua scuola
- Parte Seconda - Ofiti e Sethiani
- Parte Terza - Basilide e i Basilidiani
- Parte Quarta - Carpocrate e suo figlio Epifane
- Parte Quinta - Valentino e la sua scuola
COMMENTO
INDICI
- Indice dei passi biblici e di altri autori
- Indice dei nomi e di alcune cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Esperienza e dottrina dello gnostico
Nell'antichità non si ebbero dubbi sull'appartenenza dello gnosticismo al novero delle eresie che pullularono dal II secolo in poi nella Chiesa cattolica compromettendone in vario modo unità e stabilità. Di esso si misero in luce soprattutto gli stretti legami con la filosofia greca e la pretesa di rappresentare una rivelazione divina (gnosi) riservata a pochi eletti, moralmente e intellettualmente preparati, in contrapposizione alla fede comune della gran massa dei cristiani. Tale fede aveva il suo fondamento nella predicazione pubblica di Gesù continuata dall'opera missionaria degli apostoli: invece la rivelazione gnostica traeva origine da una sorta di insegnamento segreto riservato da Gesù solo a pochi dei suoi discepoli e impartito durante il suo soggiorno in terra fra la resurrezione e l'ascensione, che gli gnostici volentieri consideravano ben più esteso dei quaranta giorni fissati dalla tradizione. Tale insegnamento segreto era stato tramandato per occulta via parallelamente a quello ufficiale della Chiesa, a beneficio di pochi eletti.
In tal modo lo gnosticismo si configurava come rivelazione di tipo superiore e più approfondita rispetto alla tradizione comune della Chiesa: di qui la suggestione che esso esercitò, nei suoi aspetti più intellettualmente impegnati (Basilide, Valentino), sui ceti colti della società cristiana, che più avvertivano l'ambizione e l'esigenza di un approfondimento del dato elementare di fede. Per tal motivo, nel II e III secolo lo gnosticismo rappresentò per la Chiesa il massimo pericolo, maggiore ancora di quello rappresentato dal marcionismo e dal montanismo, anche se non riuscì a darsi la salda organizzazione unitaria del primo né alimentò l'entusiasmo delle folle al pari del secondo. Ma la pronta reazione della Chiesa sul piano sia disciplinare sia organizzativo sia dottrinale fu tale che già alla metà del III secolo lo gnosticismo era ovunque in fase decrescente, anche se sporadicamente continuò a sopravvivere nel IV e anche nel V secolo. I resti delle varie sette gnostiche per lo più confluirono, a partire dal IV secolo, nel manicheismo, che presentava notevoli punti di contatto con l'esperienza e la dottrina gnostica, esasperandone gli aspetti più significativi.
Abbiamo accennato alla mancanza di unità del movimento gnostico; in effetti esso prese consistenza in numerose sette, spesso notevolmente diverse fra loro sul piano sia dell'organizzazione e del culto sia della dottrina, con un'articolazione a diversi livelli per cui si passava da sette di tono e carattere popolari, largamente aperte alle suggestioni magiche e poco esigenti sul piano dell'impegno intellettuale, a sette molto più aperte in questo senso e tali da alimentare un'approfondita riflessione dottrinale e una sincera esperienza mistica. Date tali differenze fra le varie sette gnostiche anche sotto l'aspetto dottrinale, basterà qui solo un rapido cenno sullo sfondo comune un po' a tutte.
Alla base dell'esperienza di ogni gnostico, che si sente alienato nel mondo materiale che lo circonda e lo condiziona, e sostanzialmente estraneo a esso, c'è la convinzione di essere depositario di una rivelazione divina destinata a pochi eletti. Questa rivelazione riguarda la sua più autentica natura, consistente in un germe, una particella di sostanza divina, degradata e caduta nel mondo, prigioniera del corpo materiale da cui anela a liberarsi per tornare al mondo divino da cui ha tratto origine. Ma la redenzione è possibile soltanto grazie all'opera di un Redentore divino, che o scende in persona dal cielo sotto apparenza umana o fa sentire in altro modo la sua presenza, per tramite di un uomo (Gesù) particolarmente meritevole di diventare strumento dell'opera divina di redenzione. Tale opera affranca l'uomo depositario del germe divino dalla schiavitù in cui era tenuto nel mondo materiale: questo infatti aveva tratto origine dall'errore o dal peccato di un essere divino, per lo più di genere femminile (Sophia), ed era stato plasmato da un Dio inferiore, il Demiurgo, identificato col Dio creatore del Vecchio Testamento. Il completo graduale recupero del seme divino degradato e imprigionato nel mondo materiale renderà superflua l'esistenza di questo, che perciò è destinato ad avere fine.
Da tale complesso di dottrina scaturiscono due fondamentali prese di coscienza da parte dello gnostico: I) concezione completamente negativa del mondo materiale, visto come prigione e sepolcro temporaneo del germe divino caduto dal ciclo e immerso in un letargo mortale da cui solo la rivelazione divina (gnosi) lo libera, dando coscienza all'uomo, in cui tale germe è racchiuso, della sua vera origine e del suo destino. Da questa concezione consegue l'opposizione fra il Dio supremo, Padre del Redentore divino che opera il recupero del seme divino, e il Dio inferiore, creatore del mondo, identificato col Dio del popolo ebraico, creatore del cielo e della terra. 2.) La redenzione ha per oggetto soltanto la parte divina dell'uomo, lo spirito (e in alcuni sistemi gnostici anche l'anima, vista come elemento divino di secondo ordine), non il corpo materiale, che perciò è destinato alla dissoluzione finale e non partecipa alla resurrezione e al ritorno dello spirito nel mondo divino (Pleroma, Eone). Quanto alla presenza dell'elemento divino nell'uomo, non c'è completo accordo fra i vari sistemi gnostici: ma è prevalente la convinzione che solo pochi privilegiati (gnostici) abbiano in sé il seme divino, lo spirito, infallibilmente destinato alla presa di coscienza del suo vero essere e perciò alla redenzione e al ritorno nel mondo divino d'origine. Altri uomini albergano soltanto l'elemento divino di secondo ordine (l'anima, sì che tali uomini sono detti psichici), e sono destinati a redenzione e recupero a livello inferiore rispetto agli spirituali.