Dove si trova Caporetto? Pochi lo sanno. Il villaggio nella valle dell'Isonzo, oggi conosciuto con il nome sloveno di Kobarid, è un buco nero della geografia e della storia d'Italia. Il Piave e il Monte Grappa invece tutti sanno dove sono: sotto casa. Impressi per sempre nella toponomastica dei nostri paesi e città. Memorie censurate, nomi trasfigurati dal mito della Vittoria. Ma Caporetto, Piave, Monte Grappa sono (anche) luoghi reali. Sono il punto di partenza e il traguardo di un viaggio durato un anno, dall'ottobre 1917 al novembre 1918. Un anno di invasione, di stragi, di fame, durante il quale l'Italia ha rischiato di perdere se stessa. Per ritrovare infine, contro ogni previsione, una sua controversa identità. Paolo Paci ci conduce passo passo nell'itinerario dalle Alpi Giulie ai contrafforti delle Prealpi venete, seguendo le tracce di un esercito in rotta e di un altro in trionfale avanzata. Tra ossari e diari di guerra, canzoni e trincee, film e musei spontanei, ritroviamo la verità geografica dei luoghi. Scoprendo, nel racconto degli abitanti (nipoti e pronipoti degli antichi soldati), come la memoria della Grande Guerra sia ancora straordinariamente viva. Un po' business, un po' nostalgia. E, in fondo, frammento del nostro Dna.
Nella seconda metà del XX secolo l'umanità è riuscita in un'impresa che per migliaia di anni è parsa impossibile: tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre. Oggi è più probabile che l'uomo medio muoia per un'abbuffata da McDonald's piuttosto che per la siccità, il virus Ebola o un attacco di al-Qaida. Nel XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace, coltiviamo con strumenti sempre più potenti l'ambizione antica di elevarci al rango di divinità, di trasformare ''Homo sapiens'' in ''Homo Deus''.
E allora cosa accadrà quando robotica, intelligenza artificiale e ingegneria genetica saranno messe al servizio della ricerca dell'immortalità e della felicità eterna? Harari racconta sogni e incubi che daranno forma al XXI secolo in una sintesi audace e lucidissima di storia, filosofia, scienza e tecnologia, e ci mette in guardia: il genere umano rischia di rendere se stesso superfluo. Saremo in grado di proteggere questo fragile pianeta e l'umanità stessa dai nostri nuovi poteri divini?
Centomila anni fa almeno sei specie di umani abitavano la Terra. Erano animali insignificanti, il cui impatto sul pianeta non era superiore a quello di gorilla, lucciole o meduse. Oggi sulla Terra ce una sola specie di umani. Noi. L'Homo sapiens. E siamo i signori del pianeta. Il segreto del nostro successo è l'immaginazione. Siamo gli unici animali che possono parlare di cose che esistono solo nella nostra immaginazione: come divinità, nazioni, leggi e soldi. Non riuscirete mai a convincere uno scimpanzé a darvi una banana promettendogli che nel paradiso delle scimmie, dopo la morte, avrà tutte le banane che vorrà. Solo l'Homo sapiens crede a queste storie. Le nostre fantasie collettive riguardo le nazioni, il denaro e la giustizia ci hanno consentito, unici tra tutti gli animali, di cooperare a miliardi. È per questo che dominiamo il mondo, mentre gli scimpanzé sono chiusi negli zoo e nei laboratori di ricerca. "Da animali a dèi" spiega come ci siamo associati per creare città, regni e imperi; come siamo arrivati a credere negli dèi, nelle nazioni e nei diritti umani; come abbiamo costruito la fiducia nei soldi, nei libri e nelle leggi; come ci siamo ritrovati schiavi della burocrazia, del consumismo e della ricerca della felicità.
Speer, numero due del regime, fu insieme a Hitler artefice di quella delirante «architettura da megalomani» che portò alla costruzione della nuova Cancelleria e all'accurata progettazione urbanistica per il futuro «Reich millenario». Divenne poi ministro degli Armamenti durante la Seconda guerra mondiale e costrinse una Germania stremata a proseguire a oltranza il conflitto. Ma fu anche uno dei pochi a opporsi alla distruzione sistematica degli impianti industriali tedeschi, tanto da arrivare a progettare un attentato per porre fine ai piani suicidi che il Führer meditava contro la sua stessa nazione. Condannato a Norimberga, scrisse nel carcere di Spandau, a Berlino Ovest, queste sue memorie autobiografiche che rimangono la più sconvolgente e acuta analisi del nazismo compiuta «dall'interno». Una testimonianza meticolosa e dettagliata sulla nascita e il crepuscolo degli dei nazisti, che descrive con efficacia insuperata Hitler e la sua corte di uomini e assassini.
Nel momento della battaglia, le nazioni, i popoli e gli eserciti mettono in campo tutto ciò che possiedono per ottenere la vittoria: cultura, etica, tecnologia, arte, coesione sociale, inventiva, ricchezza, fede, organizzazione. In un lasso di tempo breve, a volte poche ore, tutto questo si concentra e si contrae in uno spazio esiguo, come in certe catastrofi astronomiche, quando una stella esplode e sprigiona in un singolo istante enormi quantità di energia che si lasciano dietro solo polvere e detriti, e nessun ricordo di sé. Sono infatti innumerevoli, nella storia d'Italia, i racconti deformati, le memorie studiate a tavolino, le dimenticanze volute e anzi ricercate. E così, dalla scaramuccia all'epopea, dalla vittoria strategica alla battaglia campale, spesso la Storia non lascia alcuna traccia nei luoghi dov'è passata. Il viaggiatore di battaglie è allora colui che ostinatamente va alla ricerca di quella polvere e di quei detriti, che si mette in ascolto, in cerca dell'eco e delle vibrazioni superstiti di quella lontana esplosione. Fra monumenti e ossari, musei e manifestazioni, documenti e poesia, Marco Scardigli ci conduce alla scoperta dei grandi campi di battaglia italiani, insegnandoci a leggerne le tracce rimaste o la loro muta assenza. Attraversando più di venti secoli di storia d'Italia, riviviamo allora le antiche guerre combattute in Sicilia; saliamo sulla torre di San Martino e passeggiamo attraverso il Risorgimento; a Marsala e a Caprera inseguiamo Garibaldi e il suo mito; sul Carso ripercorriamo le trincee della Grande Guerra; infine rivolgiamo un pensiero alle tragedie del passato più recente. Perché recuperare la memoria delle battaglie passate non significa tanto celebrare la guerra, quanto preservare la Storia e, con essa, il valore sofferto della pace.
Attraverso alcune biografie esemplari, Domenico Quirico narra in queste pagine le avventure dei generali che, nel secolo che va dalle guerre d'Indipendenza al secondo conflitto mondiale, hanno contribuito a fare e disfare l'Italia. Con le loro divise ornate di greche e nastrini capeggiavano guerre diversissime dai conflitti moderni: campagne, come quelle del Risorgimento e dell'Italietta coloniale, dove «c'erano fronti, ritirate, medaglie, regole», le vie erano tracciate dal passo dei muli e «la truppa, che si affidava alle gambe come solo mezzo di trasporto, non era assetata di sangue». Campagne in cui talvolta affioravano tra i soldati pietà e onore, virtù sempre più rare nelle guerre contemporanee. Panciuti, goffi, spesso incapaci, i generali non esitavano a guerreggiare fra di loro. Le feroci lotte intestine venivano, però, puntualmente messe da parte allorché si trattava di difendere gli interessi corporativi della più elevata categoria degli ufficiali. Con una prosa arguta e serrata, Domenico Quirico costruisce una storia complessiva del loro operato, dei meccanismi con cui venivano selezionati, dell'ideologia che li muoveva. Un libro disincantato che narra di un universo a parte, di un clan, di una tribù che ha determinato, in una misura nient'affatto irrilevante, le sorti del nostro paese.
«Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso»: sono le parole che Márai incide sulla soglia di questo libro bruciante. Un libro di cui nel suo diario dice: «Non voglio che questa triste confessione, questo atto d'accusa nei confronti della nazione ungherese, venga letto anche da stranieri». Tant'è che si era deciso a pubblicarne solo una parte (la seconda: Terra, terra!...), e solo nel 1972. Un «testamento tradito», dunque? Non c'è dubbio. Come non c'è dubbio che (non diversamente che in altri, notevolissimi casi) ne sia valsa la pena: perché qui - in uno stile asciutto ed efficace, che non cela tuttavia l'amarezza di fondo - Márai racconta gli anni che vanno dall'Anschluss (quando lui era ancora un autore e un giornalista famoso) al giorno in cui i carrarmati tedeschi varcarono i confini ungheresi nel marzo 1944, e spinge lo sguardo fino ad altri giorni ferali: l'arrivo dei sovietici nel 1945, la scelta dell'esilio nel 1948. In quegli anni «una sorta di nebbia gialla era calata sugli occhi di una società in preda all'amok», una società che continuava a cullarsi in una «speranza autoingannatoria» senza rendersi conto di vivere «su un pantano ribollente sotto cui gorgogliava un vulcano». Il grande romanziere delle Braci ci consegna in queste pagine una appassionante testimonianza, che abbaglia per il modo in cui unisce la malinconia del ricordo alla precisione e all'acutezza delle analisi storiche.
Porta d'accesso al "secolo breve", guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre, "inutile strage": il primo conflitto mondiale fu una tragedia che costò la vita a oltre nove milioni di persone. La Grande guerra fu lo sbocco finale della corsa agli armamenti perseguita dalle principali potenze europee (in particolare dalla Germania), il frutto avvelenato dell'imperialismo. Ma davvero il Reich tedesco rappresentava una minaccia per l'ordine e la stabilità dell'Europa? Davvero si trattò di un conflitto inevitabile? A queste e altre domande risponde lo storico Niall Ferguson. Muovendosi in una interdisciplinare "terra di nessuno", confrontando dati economici e finanziari, rileggendo i testi dei "poeti di guerra", gli articoli dei principali quotidiani dell'epoca, come pure i libri di memorie o i documenti diplomatici, Ferguson fa piazza pulita di tanti miti e luoghi comuni e solleva questioni cruciali che intaccano alla radice la nostra percezione e conoscenza della prima guerra mondiale: è vero che l'opinione pubblica accolse la guerra con entusiasmo? Chi vinse la pace, o meglio, a chi toccò di pagare il prezzo della guerra? E soprattutto: ne valse la pena? Alla fine "Il grido dei morti", nelle sue conclusioni, ci consegna un'unica, terribile verità: la prima guerra mondiale non fu soltanto una tragedia. Fu il più grave errore della storia moderna.
La supremazia dell'Occidente è ormai da secoli un fatto indiscutibile. Ma a cosa è dovuta? Nel tempo sono stati evocati diversi fattori: razziali, tecnologici, di organizzazione economica, politica, morale... Hanson mette insieme tutto questo ma offre anche una sua provocatoria spiegazione: gli occidentali hanno vinto perché sono più bravi a uccidere. Focalizzandosi sull'aspetto militare della civiltà occidentale, Hanson vede nella guerra un momento privilegiato per studiare il carattere di una società. E se un ruolo importante nel costruire la supremazia bellica dell'Occidente lo hanno certo giocato le tecnologie più avanzate e le tattiche più efficaci, ¡1 fattore cruciale è stato di natura culturale: gli eserciti delle «democrazie in armi», basati su disciplina e organizzazione, ma anche sulla libertà individuale del cittadino, sulla discussione e sull'inventiva, si sono rivelati più efficaci anche contro armate imponenti di semplici «sudditi» come è accaduto per gli antichi Greci contro gli Imperi orientali. Per indagare le ragioni e i modi di questa millenaria vicenda, Hanson racconta con verve nove celebri battaglie, ciascuna esemplificativa di un particolare aspetto della «guerra occidentale», da quella di Salamina nel 480 a.C. all'offensiva del Tet nel 1968, passando per la conquista del Messico da parte di Cortes e le Midway, fino a giungere ai giorni nostri e a gettare uno sguardo sul nostro futuro.
«L'ardito è l'uomo votato alle imprese più arrischiate, che ha cancellato dal proprio vocabolario la parola "impossibile". Le bombe nel tascapane, il pugnaletto al fianco, l'ardito si getta allo sbaraglio, veloce come il fulmine, inesorabile come il destino. Proiettile umano lanciato a una meta certa, non conosce ostacoli» scriveva Benito Mussolini sulle pagine del «Popolo d'Italia». Sin dalle origini mito della destra, gli arditi sono rimasti tali nell'immaginario collettivo, proiettando la stessa dimensione ideologica su tutti i corpi speciali delle Forze armate, dagli incursori della Marina ai paracadutisti. Da questa impostazione sono derivate le celebrazioni del Ventennio e le rimozioni dell'Italia repubblicana: il paracadutista della «Folgore» o l'incursore della X Mas sono stati orgoglio nazionale sino al 1943, per diventare subito dopo pagine indicibili del nostro passato, con il risultato che si è scritto e parlato moltissimo degli alpini morti in Russia, pochissimo dei paracadutisti caduti a El Alamein, eppure erano i combattenti della stessa guerra di conquista scatenata nel 1940. Dopo aver narrato in "Fra i dannati della terra" la storia della Legione straniera, unico modello di riferimento a disposizione degli eserciti europei per l'istituzione dei reparti speciali, Gianni Oliva si cimenta ora nel racconto dei corpi speciali italiani, rintracciandone le caratteristiche al di là degli stereotipi consolidati. Partendo dal Primo conflitto mondiale, ripercorre la storia degli arditi, le truppe d'assalto addestrate agli attacchi della guerra di trincea, e degli incursori dei Mas, che affondavano le navi austroungariche; prosegue con i paracadutisti della «Folgore», che combatterono a El Alamein, e i «maiali» e gli «uomini gamma» della X Mas, reparto in grado di affondare le corazzate della leggendaria Royal Navy; per concludere con il Comsubin, il «Tuscania», il «San Marco», il «Col Moschin» e gli altri corpi speciali costituiti dopo il 1945, oggi in prima fila nelle missioni internazionali di peacekeeping.
Sono passati più di cento anni dal 13 maggio 1909 quando 127 ciclisti partirono per il primo Giro d'Italia organizzato dalla "Gazzetta dello Sport". 108 anni nei quali l'Italia e il mondo intero sono profondamente cambiati. E di quei mutamenti nell'economia, nella politica, nella cultura, nella società e nel costume la corsa in rosa è stata specchio e testimone. Ecco perché raccontare il Giro significa anche raccontare la storia dell'ultimo secolo del nostro Paese. Lo fanno in questo libro due studiosi che, partendo dalle fonti più disparate, raccontano i protagonisti dell'epopea del Giro e le vicende del nostro Paese, da Binda a Girardengo, da Giolitti a Mussolini, dai mitici Coppi e Bartali a Eddy Merckx, da De Gasperi e Togliatti fino a Pantani e Nibali, Berlusconi e Renzi.
"La Bibbia aveva ragione", tradotto in 24 lingue, venduto in milioni di copie in tutto il mondo, adottato nelle scuole e oggetto di seminari, è apparso per la prima volta nel 1955. Nel 1978, con l'aiuto di Joachim Rehork, Keller ha riveduto la prima edizione tenendo conto delle scoperte che nel frattempo, grazie all'acquisizione di nuove tecniche e metodi di ricerca, l'archeologia biblica aveva portato alla luce. Nonostante gli anni, e gli ulteriori sviluppi della storiografia in campo biblico, questo libro rimane un classico nel senso autentico del termine, perché per la prima volta ha presentato le ragioni del testo biblico confrontandole minuziosamente con il contesto storico, geografico, sociale e culturale del tempo. Dal Diluvio universale fino alle indagini sulla Sindone, un percorso rigoroso che illumina il testo biblico.