Cavalli sospesi nel vuoto, bambini impiccati, Giovanni Paolo II abbattuto da un meteorite, un colossale dito medio nella piazza della Borsa di Milano. I suoi lavori spiazzano, indignano, dividono, ma chi è davvero Maurizio Cattelan? L'autore di opere essenziali che definiranno il nostro tempo nei libri di storia o un enfant terrible che si diverte a scandalizzare sebbene sotto sotto sia "serio come la morte"? In questa lunga e serrata intervista, il più noto e insieme il più sfuggente degli artisti italiani condivide per la prima volta con sincerità e ironia i ricordi, i dubbi, le riflessioni e le svolte di una vita avventurosa. Dall'infanzia a Padova segnata dalla malattia della madre all'adolescenza errabonda che lo ha visto lavorare negli obitori e negli ospedali, dalla scoperta della creatività - i primi mobili artigianali nel laboratorio di un cugino - al rifiuto di impiegarsi nel settore dell'arredamento e del design. Perché l'unica costante della sua vita è stata l'aspirazione all'indipendenza, a costo di sentirsi spesso escluso dal coro dei giovani artisti italiani e di andare a cercare idee a New York in attesa della telefonata di un gallerista. Che poi è arrivata, insieme agli inviti alla Biennale di Venezia, alla consacrazione da parte del mercato, alle grandi retrospettive degli ultimi anni e al bisogno di sfuggire ai meccanismi stritolanti della notorietà. "A volte è salutare restare al di fuori di un gruppo", sostiene Cattelan, e ha passato anni a dimostrarlo.
Perché Joseph Beuys si è rinchiuso per tre giorni in una galleria in compagnia di un coyote? Perché Chris Burden si è fatto sparare a un braccio? Perché Alberto Burri dipingeva con la fiamma ossidrica? Perché Mona Hatoum ha proiettato la sua gastroscopia? Perché Marina Abramovic ha trascorso un'intera Biennale di Venezia a scalcare ossi di manzo? Tuo marito sta indugiando perplesso, non capisce per quale ragione dovrebbe seguirti a un temibile vernissage, lui che non distingue un acquerello da un olio. Eppure un modo per fargli cambiare idea c'è. Basta sfogliare queste pagine e lasciare che Mauro Covacich, con allegra semplicità, venga a darti una mano e vi conduca insieme nel mondo dell'arte contemporanea.
"Quando il sole della cultura è basso sull'orizzonte, anche i nani proiettano grandi ombre." Con questa citazione di Karl Kraus si apre questo nuovo saggio di Jean Clair. Con la chiarezza e la lucidità che ne caratterizzano lo stile, l'autore riprende e approfondisce in questo testo alcuni dei temi trattati nel suo libro "La crisi dei musei" (Skira 2008). Le amare riflessioni di un amateur, una passeggiata solitaria attraverso l'arte di oggi, le sue manifestazioni e le sue espressioni. Il ritratto impietoso di un paesaggio saccheggiato, venale e mortificato, di un'allegria vagamente funerea.
"La scultura funeraria" è l'ultima grande opera pubblicata da Erwin Panofsky. È il frutto della rielaborazione di alcune lezioni tenute nel 1956 presso l'Institute of Fine Arts della New York University. Il successo riscosso da queste conferenze e l'insistenza di amici e colleghi convinsero Panofsky a riprendere in mano il lavoro e a trasformarlo in un testo, che vide infine la luce nel 1964. L'uomo ha sempre dovuto far fronte all'enigma e al timore della morte, ponendosi ovunque la stessa, eterna domanda: "Che ne sarà di noi dopo?". Ed è specialmente attraverso la scultura funeraria che ogni cultura esprime le diverse e innumerevoli risposte che associa alla morte. Secondo Panofsky sono due le tendenze principali: quella "retrospettiva" (che mira a perpetuare la memoria del defunto e a renderlo immortale celebrandone gesta e virtú) e quella "prospettiva" (che si rivolge piú al futuro che al passato, cercando di immaginare e soddisfare tutti i bisogni e i desideri che caratterizzeranno la vita nell'aldilà). Sulla scorta di questi due principî, Panofsky tratteggia la storia della scultura funeraria con un'ampiezza e un respiro tali da richiamare alla mente la migliore scienza dell'arte tedesca portando a sostegno della teoria una quantità straordinaria di esempi: dai cippi ai maestosi mausolei, dalle urne piú spartane ai sepolcri piú elaborati, dalle tombe dell'Antico Egitto alle Cappelle Medicee di Michelangelo e alla Beata Ludovica Albertoni di Bernini.
Attratto per un'intera vita dal teatro, come dimostrano i suoi "Ritratti di scrittori", Walser nutrì una passione altrettanto incoercibile per le arti figurative, anche in virtù dell'influsso esercitato dal fratello Karl, artista di rara finezza. Ma i quadri davanti ai quali si sofferma in queste pagine sono spesso un pretesto: per parlare di sé e dei ricordi di gioventù, per costruire catene di associazioni - ispirate, magari, da una mostra di antichi maestri fiamminghi. Certi dipinti (la Venere di Tiziano, l'Icaro di Brueghel il Vecchio, Il figliol prodigo di Rembrandt) gli suggeriscono un dialogo scenico o un sonetto, un autoritratto, un nudo, un soggetto sacro suscitano improvvise illuminazioni che si condensano in poche righe fulminanti. Può anche capitare che un Fragonard riveli d'improvviso inaspettati legami con le "Confessioni" di Rousseau, o che le figure di un quadro prendano la parola e raccontino storie irresistibili. Ironia, poesia, grazia visionaria ci introducono in mondi paralleli, dischiusi all'occhio del poeta (e al nostro) da un semplice colore o da un dettaglio all'apparenza secondario. Con le sue ecfrasi divaganti, tra un affondo estetico e un impeto affabulatorio, un'apostrofe all'Olympia di Manet e un'interrogazione (mai retorica) sull'uomo e il suo destino, Walser sa tuttavia offrirci anche profonde riflessioni sull'essenza dell'arte, nel costante invito a guardare oltre l'immagine: giacché "orbi in certa misura lo siamo tutti, tutti, benché dotati di occhi".
Foppa, Leonardo e Bramantino sono i protagonisti del Rinascimento lombardo, dall'insediamento del duca Francesco Sforza e dalla Pace di Lodi (1454) alla definitiva scomparsa del ducato sforzesco con la morte di Francesco II Sforza (1535). Questo libro segue i momenti più significativi della loro presenza milanese, ma si impegna a ricomporre anche il fitto contesto di presenze figurative e di intrecci culturali che caratterizzano uno dei momenti più alti e ricchi di futuro della storia dell'arte lombarda. Sfilano sotto gli occhi del lettore lo sfolgorante itinerario formativo di Vincenzo Foppa, dalla Padova di Mantegna alla cappella di Pigello Portinari in Sant'Eustorgio; l'affermazione umanistica di Bramante e di Bernardo Zenale, architetti e pittori, in una Milano che forgia un suo particolare Rinascimento "senza Roma", fantastico e iperdecorato; Leonardo che crea l'Ultima cena delle Grazie, primo capolavoro della "maniera moderna", sotto lo sguardo stupefatto dei colleghi lombardi, legati a una diversa tradizione figurativa, che in parte saranno travolti, ma in parte sapranno appropriarsi delle novità leonardesche distillandone un prezioso cromatismo e una sofisticata eleganza disegnativa (dal Maestro della Pala Sforza a Luini); Bramantino, a chiusura, che inventa un suo peculiare canone umano, di geometrica e lunare potenza, che suggestionerà tanta parte della pittura nell'Italia settentrionale, dal Veneto di Lorenzo Lotto al Piemonte di Gaudenzio Ferrari.
Attorno alle bellezze minori, attorno alle chiese e ai monumenti meno conosciuti e più colpiti dall’incuria o dall’indifferenza, si sta giocando una parte importante del nostro futuro, perché lì persiste un senso ultimo di comunità che altrove è perduto. Né i partiti né i circoli culturali ripropongono un’idea di comunità umana come invece viene riproposta dai gruppi e dai comitati che lavorano a dar vita alle bellezze ritenute periferiche e secondarie. Il grande monumento "spersonalizza" la sua tutela (nessuno si sentirebbe di dover difendere la Cappella Sistina di Michelangelo), mentre invece il piccolo monumento, proprio perché spesso mal conservato, malcurato, ignorato dalle amministrazioni, riesce a far nascere un senso di difesa, di condivisione, di richiamo a ciò che abbiamo di importante e di duraturo nella nostra civiltà.
A dieci anni di distanza dalla sua prima apparizione, questa storia del design viene riproposta in una versione riveduta e arricchita, che dà conto dei più recenti sviluppi registrati in questo campo. Da quando nel 1851 la Great Exhibition di Londra raccolse per la prima volta, sotto le modernissime volte in vetro e ferro del Crystal Palace, i «prodotti dell'industria di tutte le nazioni», la sterminata famiglia degli oggetti d'uso è entrata nella storia della nostra cultura, reclamando un progetto formale -il design - che ha finito col dare vita a un campo culturale ben strutturato, a una disciplina universitaria e a una professione perfettamente definita. Progettare la figura di un oggetto d'uso quotidiano costituisce infatti un'operazione complessa, nella quale la forma deve confrontarsi con la funzione, la creatività deve sfidare i vincoli tecnici, e il principio etico, formulato fin dall'inizio, di "portare la bellezza in tutte le case" deve affrontare le ragioni della produzione e del mercato. Questo libro racconta quindi la storia del design come storia di un laborioso equilibrio ogni volta raggiunto fra le componenti artistiche e quelle tecniche del progetto. Al suo centro, però, resta sempre l'oggetto d'uso, strumento indispensabile per il vivere quotidiano, portatore di significati sempre più ampi, con le luci e le ombre che lo hanno accompagnato nella sua lunga vicenda.
Questo libro parla di Venezia, delle sue pietre e dell'acqua con la quale da sempre fa i conti. Delle sue storie e dei suoi protagonisti: dai primi insediamenti veneziani alla Repubblica dei commerci, da Shakespeare a Byron che in Laguna alimentò il suo talento letterario e visse i suoi amori più brucianti. Un libro che ribalta anche uno stereotipo: la stagione d'oro della Serenissima non va cercata nel Sei-Settecento, bensì alla fine dell'Ottocento, nella Venezia di D'Annunzio che nel suo discorso di chiusura per la prima edizione della Biennale d'Arte veneziana proclamò la nuova formula vincente della città: Venezia non più centro-cuore dei commerci di gemme e sete come al tempo del Milione, bensì luogo ideale per lo scambio delle idee. La Venezia centro di networking internazionale prende ispirazione proprio da quell'intuizione. Rafforzata poi, dal 1932, dalla Mostra del Cinema nata per volontà del conte Volpi di Misurata. Il libro raccoglie infine le ambiziose sfide del futuro: la risoluzione del problema del contenimento della forza dell'acqua con il Mose e la candidatura della città come capitale della cultura per il 2019, dove gioca la carta vincente, da secoli: la sua unicità.
"Il mio sbigottimento alla notizia della morte di Giorgio Morandi non è quasi tanto per la cessazione fisica dell'uomo, quanto, e più, per la irrevocabile, disperata certezza che la sua attività resti interrotta, non continui; e proprio quando più ce ne sarebbe bisogno. Non vi saranno altri, nuovi dipinti di Morandi: questo è, per me, il pensiero più straziante. E tanto più se ricordo quel che, ancora pochi giorni fa, egli mi diceva: " Se sapesse, caro Longhi, quanta voglia ho di lavorare"; ed anche: "Ho delle idee nuove che vorrei svolgere...". Parole che denunciano l'improprietà, pur molto diffusa, di assimilare il percorso di un artista, soprattutto se anziano, a una parabola. Nella costante lucidità di Morandi, esso fu piuttosto una traiettoria ben tesa, una lunga strada; speriamo che resti aperta. Quelle poche frasi, sussurratemi nei suoi ultimi giorni (ed altre ne riporteranno certamente gli amici più vicini), stupiranno anche i molti che in Italia si sono accomodati a credere in una certa immobile comodità della posizione di Morandi dinanzi ai suoi semplici "oggetti" disposti, scalati, variati, permutati; senza intendere che in quella sua lunga, instancabile, solenne "elegia luminosa" - come ebbi a chiamarla presentandone la mostra al " Fiore " di Firenze nel '45, il giorno stesso della liberazione di Bologna". (Roberto Longhi)