L'utopia di una società orizzontale, trasparente e senza gerarchie è tornata prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni, complice l'impatto destabilizzante di internet sul nostro modo di comunicare e di valutare l'operato della classe dirigente. Da dove ha origine l'opinione diffusa secondo la quale, se la gente comune potesse esercitare pienamente il potere, tutto andrebbe meglio? Sappiamo davvero di cosa parliamo quando parliamo di democrazia diretta? Oppure l'uso continuo e la popolarità di cui gode questo ideale all'apparenza cristallino nascondono uno dei più grandi abbagli degli ultimi anni? Attraverso cinque espressioni chiave che richiamano altrettanti «miti d'oggi» - popolo, autenticità, tecnologia, disintermediazione, democrazia diretta -, in questa disamina della politica contemporanea Massimiliano Panarari chiarisce le radici del presunto «primato della gente» che sta scuotendo le fondamenta della nostra democrazia, e offre un'utile chiave di lettura per capire l'evoluzione della galassia populista internazionale e, soprattutto, di quella italiana, dagli esordi con la Lega all'exploit con il berlusconismo, dalle varie fasi del «turbo-renzismo» al trionfo del Movimento 5 Stelle, fino alla sintesi alchemica del governo giallo-verde.
La società della potenza tecnica, affermatasi nel 1989, a partire dal 2008 è entrata in crisi. L'epoca della globalizzazione e della sua idea di potenza si è arrestata di fronte a un vortice di recessione che, forse, è irreversibile. O meglio, la crisi in corso sta imponendo alla storia una torsione inedita e inaspettata. La potenza tecnica dispiegatasi in modo formidabile in quei vent'anni ha generato una pericolosa illusione di onnipotenza, e oggi si trova nella drammatica impossibilità di risolvere i problemi che essa stessa ha causato. Ogni catastrofe, ogni crisi, richiede un cambio di prospettiva. Mauro Magatti compie un atto rivoluzionario e ragiona sulla deriva del mondo contemporaneo recuperando l'idea antica di potenza. Perché la potenza, spiega Magatti, è l'elemento che caratterizza la nostra specie. "La vita umana non è mai determinata solo dal dato biologico o storico. Benché vincolata o limitata, la sua forma più caratteristica è quella di 'essere possibilità'." La libertà creativa dell'uomo è radicata nella sua eccentricità. La potenza è la capacità di sottrarsi all'immediatezza e alla necessità del presente, è la facoltà di cogliere l'apertura delle possibilità per imprimere una nuova direzione. E da qui si deve partire per uscire dalla crisi del mondo contemporaneo. Riscoprire la natura eccentrica dell'uomo in ogni ambito della vita significa "riflettere sulla potenza che, come singoli e come collettività, siamo diventati capaci di produrre", vincendo il monopolio della società tecnica. In fondo, l'obiettivo è uno solo: migliorare il nostro mondo e, insieme, la nostra umanità.
Ci avviamo in Italia e in Europa verso un mondo con sempre meno giovani e sempre più anziani: lo dicono con cruda evidenza i numeri delle statistiche demografiche. È l’esito di un processo che ha conosciuto una straordinaria accelerazione negli ultimi decenni, grazie alla scienza e alla tecnologia che hanno consentito una forte diminuzione della mortalità infantile e un aumento considerevole della longevità, soprattutto in Occidente. E a questi fattori va poi sommata anche una drastica caduta della natalità, ben al di sotto del tasso che garantirebbe il rinnovo generazionale.
Il nostro futuro dovrà necessariamente fare i conti con le sfide di questo inedito paesaggio antropologico, economico e sociale. Il saggio di Alessandro Rosina invita ad affrontarle a viso aperto, senza cedere a suggestioni apocalittiche, ma valorizzando il potenziale dei soggetti coinvolti. Il corso della vita va attivamente coltivato in tutti i suoi stadi – dall’infanzia all’età anziana – con lucidità e lungimiranza, tenendo viva la tensione verso un futuro da costruire con fiducia.
Snodo decisivo di questo processo è la valorizzazione del potenziale delle giovani generazioni. Ad esse andrebbe passato il testimone, riconoscendo davvero, attraverso adeguati percorsi formativi ed efficaci politiche del lavoro, il protagonismo che spetta loro di diritto. Un futuro che non invecchia ha la sua condizione fondamentale proprio in questa alleanza tra le generazioni. Per darcene un’idea, Rosina rivisita in tale prospettiva dieci parole-chiave che iniziano con la “f” di futuro: forza/fragilità, formazione, fare, fallimento, fiducia, famiglia, facebook, femminile, fede, felicità. Abbiamo bisogno di riscoprirne il senso per appoggiarvi la nostra speranza.
Come si è passati dal mese di ferie estivo del secolo scorso al continuo spostarsi di città in città senza mai smettere di lavorare grazie a voli low cost, Airbnb e treni ad alta velocità? Che impatto avrà il turismo sull'economia italiana nei prossimi anni e come dobbiamo prepararci ad accogliere in futuro un numero di persone sempre crescente? Disastri naturali, amori, guerre, smania di conquista o di fuga hanno spinto da sempre milioni di persone ad abbandonare anche per breve tempo la loro quotidianità per spostarsi in altri luoghi. Ma come ci ricorda Domenico De Masi in questo ampio studio sul desiderio umano di viaggiare, se «la società industriale, quella che per due secoli ci ha accompagnato con ciminiere, catene di montaggio, centri direzionali [...] separava nettamente i luoghi, i tempi e i modi per soddisfare il nostro istinto stanziale da quelli per soddisfare il nostro istinto nomade» il nostro presente iperconnesso e in costante evoluzione ha rimescolato le carte in tavola, facendoci diventare «nomadi anche quando restiamo seduti nella nostra stanza». Avvalendosi del contributo di numerosi analisti ed esperti di varie discipline, De Masi propone un quadro realistico delle sfide economiche e formative che l'Italia dovrà affrontare per rimanere una delle più importanti mete turistiche al mondo, di come il continuo scambio con altre culture rovescerà la nostra percezione degli altri e, soprattutto, del nostro modo di usare il tempo libero, di oziare e, quindi, di stare al mondo.
Zygmunt Bauman
Di nuovo soli. Un’etica in cerca di certezze
Pensare eticamente, dotarsi di una morale condivisa e condivisibile, è ancora possibile? Con il crollo delle vecchie ideologie e con la conseguente perdita di valori e certezze, su cosa si può fondare, oggi, un’etica? In questo breve e appassionante saggio il celebre filosofo polacco offre la sua convincente risposta. Da una parte dimostra quanto sia ormai vano il tentativo di rivitalizzare le vecchie basi dell’etica – famiglia, comunità, tradizione – e quanto inattuabile quello di esacerbare le antinomie tra un’etica prettamente politica e una economica, tra una morale collettiva e una individuale. Dall’altra, azzarda una soluzione. Viviamo in tempi incerti e mutevoli, caratterizzati da una sorta di privatizzazione globale che spinge a coltivare i propri ristretti interessi nel disinteresse di quelli comuni. Per affrontarli, è necessario riscoprire le connessioni profonde tra gli interessi della comunità e quella dei singoli individui, tra la prosperità delle istituzioni che si occupano del bene comune e quella di milioni di esseri umani sempre più soli e spaesati.
Zygmunt Bauman
(Poznan, 1925 – Leeds, 2017)
Filosofo e sociologo polacco di origini ebraiche, si è formato all’Università di Varsavia e alla London School of Economics. Nel 1968 ha perso la cattedra a Varsavia a causa della ripresa dell’antisemitismo e dei conflitti interni che allora infiammavano la Polonia. Rifugiatosi dapprima in Israele, ha in seguito insegnato Sociologia all’Università di Leeds in Gran Bretagna a partire dal 1971, dove è rimasto sino alla morte (9 gennaio 2017). Si è guadagnato una fama internazionale grazie alle ricerche sui rapporti fra modernità e totalitarismo. Castelvecchi ha pubblicato Scrivere il futuro (2016), Meglio essere felici e La libertà (2017), Le nuove povertà, Gli si diceva… Varsavia 1968, Socialismo. Utopia attiva, La vita in frammenti e Città di paure, città di speranze (2018).
A partire dagli scritti del sociologo Luca Diotallevi e dello scrittore Erri De Luca, il volume propone un'originale riflessione a più voci sul futuro della fede in un tempo di crisi. I contributi sottolineano da diversi punti di vista (biblico, letterario, teologico, filosofico, sociologico-pastorale) la necessità di una nuova riflessione in riferimento alle condizioni mutate del tempo, soprattutto in un momento storico in cui andrebbe riscoperto anche dal punto di vista comunicativo il senso della rivelazione nella storia. Il tempo di crisi, come suggestivamente suggerisce il magistero di papa Francesco, è infatti un'occasione propizia per riflettere e testimoniare la fede in Cristo. Presentazione di Francesco Asti.
Per chi e perché lavoriamo? Perché sacrifichiamo così tante energie in un’attività che spesso ci porta a vivere tante ore lontano dalla famiglia, dagli amici, dalle nostre passioni? Vivendo in contatto quotidiano con persone che hanno perso il lavoro e che si trovano in condizioni socio-economiche di marginalità, non posso che affermare che lavoriamo per la dignità, per non sprofondare nella miseria, per non perdere il diritto di partecipare attivamente alla vita sociale ed economica. Le persone escluse da molto tempo dal mondo del lavoro o che non hanno mai lavorato e non riescono ad entrare nel mondo del lavoro, si trovano in una situazione assurda e dolorosa: vivono in una Repubblica “fondata sul lavoro” dove la partecipazione attiva alla vita sociale passa necessariamente attraverso un reddito fornito dal lavoro ma loro sono escluse da tutto questo perché afflitte dalla peste del non lavoro. Un cittadino che non lavora non riesce a vivere pienamente la sua cittadinanza. Vive senza un fondamento civico che lo rende riconosciuto e riconoscibile. Non ha un posto, non ha un impegno che lo rende visibile agli occhi della società. Sostenuto quasi unicamente dalle politiche di welfare può anche sprofondare in una passività priva di uscita. In una progressiva perdita di dignità che è disumana. Senza un lavoro dignitoso, sensato, necessario, ben retribuito, non ci sarà dignità per tutti. È questa la chiave di volta nella fase di rapida trasformazione sociale che stiamo attraversando. Ma è veramente possibile realizzare una condizione di piena occupazione in una società come la nostra? Possiamo costruire le basi per una nuova condizione socio-economica mantenendo inalterati gli attuali rapporti di produzione?
Pietro Piro (Termini Imerese 1978) sociologo. Ha lavorato come ricercatore e come educatore sociale e culturale in diverse istituzioni per la realizzazione d’interventi di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. I suoi più recenti contributi sono: Desiderio di volti. Scritti d’occasione (2017); Auschwitz è ancora possibile? Temi e argomenti per un pensare civile (2016); La comunità dei virtuosi. Una sfida al conformismo sociale (2016).
Negli ultimi decenni le nostre società sono diventate più repressive, le leggi più severe, i giudici più rigidi, e questo senza che ci sia alcun legame diretto con la criminalità. Didier Fassin si sforza di cogliere, con un'analisi genealogica ed etnografica, la posta in gioco di questo momento punitivo. Per farlo, è necessario aggiornare quello che sappiamo sulla stessa "strana pratica, e la singolare pretesa, di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni" di cui parlava Foucault. Quella nuova tecnologia chiamata punizione. Che cosa c'è da punire? Perché abbiamo bisogno di imporre punizioni? E contro chi? Queste tre domande disegnano il campo di un dialogo critico tra la filosofia morale e le teorie del diritto. Con un'indagine sulle diverse configurazioni della punizione nella storia e nelle nazioni, Fassin mostra che non sempre il crimine è stato disciplinato da sofferenze inflitte per legge e che non necessariamente la punizione appartiene a logiche razionali, usate per legittimarla. Per di più, l'inasprimento delle pene e la disuguaglianza nella loro distribuzione rendono la società meno sicura e meno giusta. Quello di Fassin è un saggio attualissimo in tempi di trionfo del populismo, perché offre gli strumenti per una revisione delle premesse che alimentano la passione punitiva e invita a ripensare la sua collocazione nel mondo contemporaneo.
"Il lavoro intellettuale come professione" è il titolo scelto da Max Weber per raccogliere i testi di due celebri conferenze, "La scienza come professione" e "La politica come professione", da lui tenute all'Università di Monaco tra il 1917 e il 1919. La riflessione del grande filosofo è incentrata da un lato sulla situazione della Germania uscita disastrosamente dalla Grande Guerra e dall'altro sulla figura e il ruolo dell'intellettuale, scienziato e politico, sui limiti intrinseci delle due discipline e sull'inevitabile conflitto tra la scienza, la cui autorità riposa sul suo essere del tutto avalutativa, e la politica, che nella definizione e nella scelta di gerarchie di valori ai quali la realtà deve adeguarsi trova la propria ragion d'essere. I due testi costituiscono un'opera unica, la cui «grandezza problematica» è ben sottolineata dall'ormai classico saggio di Massimo Cacciari, qui presentato in una versione aggiornata.
In un breve dialogo dal ritmo serrato, Marc Augé esprime le sue posizioni sull’immenso fenomeno migratorio di cui siamo oggi testimoni: gli spostamenti massicci dal Sud al Nord del mondo, le navi che affondano sulle coste del Mediterraneo, il modello repubblicano francese di integrazione degli immigrati, il divario sempre più grande tra ricchi e poveri che crea profondi squilibri e disuguaglianze sul pianeta. Decostruendo i pregiudizi che la figura del migrante porta sempre con sé e denunciando l’assenza di morale della politica dei governi occidentali, l’antropologo francese riflette sull’incalzare odierno di nazionalismi e regionalismi, sul rigurgito di posture xenofobe ed escludenti che favoriscono nuove forme inquietanti di terrorismo e fanatismo religioso. La ricetta che Augé propone è l’elaborazione di un’antropologia della mobilità che sia capace di scorgere nell’incontro con l’altro l’essenza stessa dell’umano.
Nelle città moderne - sempre più centro di contaminazione tra razze e culture - si decideranno le sorti dell'umanità: è qui che il bisogno di sicurezza si confronta con le limitazioni della libertà, è qui che la mixofilia lotta contro la mixofobia, il terrore con le speranze, la paura dell'altro con l'accettazione e la comprensione. Trasformare la convivenza tra culture diverse da minaccia in risorsa, suggerisce Bauman, è compito della politica, delle istituzioni, di chi pianifica le città e di chi le costruisce. Ma, soprattutto, è compito di chi le abita.
In questa provocante raccolta di saggi, Ulrich Beck sostiene la necessità di ricercare nuovi punti di riferimento per comprendere la società globale del rischio in cui ci troviamo a vivere oggi. L'autore delinea gli aspetti ecologici e tecnologici del rischio e le loro implicazioni sociologiche e politiche. Secondo Beck, la società odierna è governata da una "politica globale" inesistente fino a pochi anni fa e tale fenomeno va esaminato nei termini della dinamica e delle contraddizioni di una società globale del rischio. Partendo da tale presupposto, i suoi saggi si interrogano su diverse questioni: che cos'è l'ambiente? Cosa la natura? Lo stato naturale? L'essere umano? I saggi contenuti costituiscono le basi del "Manifesto cosmopolitico" di Beck, concentrato sulla dialettica tra questioni globali e locali che non rientrano nella politica nazionale. Riconoscendo che la diversità, l'individualismo e lo scetticismo sono caratteristiche proprie della nostra cultura, possiamo gettare le basi di una nuova coesione sociale, di un nuovo cosmopolitismo in cui l'incertezza creativa della libertà sostituisca la certezza gerarchica della differenza.