"Il fondamento dei fondamenti e il pilastro delle scienze consiste nel sapere che c’è un Esistente primo, e che Egli fa esistere tutto ciò che esiste; e tutte le cose esistenti nei cieli, sulla terra e tra di essi non esistono se non in virtù della verità della Sua esistenza. Se si arrivasse a pensare che Egli non esiste, non potrebbe esistere nessuna altra cosa. Se invece si arrivasse a pensare che, a parte Lui, non esiste nessuna delle altre cose esistenti, Egli solo esisterebbe e non si annullerebbe per il fatto che quelle cose si annullano; tutte le cose esistenti hanno bisogno di Lui; e Lui, sia benedetto, non ha alcun bisogno di esse, nemmeno di una."
Alcuni testi della letteratura ebraica parlano senza imbarazzo di una pluralità di volti e nomi di Dio, spesso associando la realtà suprema ai tratti fisici e psichici della persona umana. Ma dove conduce questa rappresentazione visiva, polimorfica e antropomorfica? E come si coniuga con il divieto dell’immagine che fonda l’Israele biblico? Un Dio che si rappresenta in più modi pare contraddire il luogo comune di un pensiero ebraico anti-mitico, cui è sottesa la distanza di YHWH, Dio unico e trascendente. È questa complessità di significati ad essere messa in gioco negli studi del Novecento e soprattutto degli ultimi anni, una problematica di cui il volume presenta le linee di ricerca e gli sviluppi più importanti, anche rintracciando nuove possibili letture delle forme e passioni di Dio, focalizzate sulla letteratura rabbinica ma aperte a tutto il mondo ebraico tardo-antico e medievale. Nella convinzione di fondo che l’identità culturale del giudaismo si sia costruita, fra grandi tensioni interne ed esterne, elaborando un codice linguistico di immagini e narrazioni concrete e cercando modulazioni sempre nuove delle (insopprimibili) figure del divino nell’immaginario e nel discorso esegetico.
La filosofia della storia sull'Olocausto ha versato fiumi d'inchiostro, ma al contempo sembra restare senza parole. Uno sterminio che interpella le filosofie del Novecento da Heidegger e i suoi allievi - Sartre, Gadamer, Arendt e Jonas - sino a Horkheimer, Adorno, Derida... Riflessioni che rimettono in questione la teodicea, la giustificazione del male: ma questa resta un pensiero-limite, un paradosso. V'è però un particolare filo della memoria che, intessendosi con il pensiero ebraico, va mutando la precomprensione della stessa filosofia. Il suo compito non si esaurisce nella definizione del male, ma nel "riparare il mondo dopo la Shoah", nell'opporsi al male in tutte le sue forme. Ecco l'originalità di Emil L. Fackenheim, con Levinas ispiratore di una 'filosofia della resistenza' al male che si alimenta per il fatto d'essere sopravvissuti. Massimo Giuliani ne presenta qui un testo diagnostico e programmatico: Olocausto. Un'inedita analisi, per il giudaismo e per la teologia cristiana: il male non può essere l'ultima parola, nonostante il male si può e si deve perseguire il bene. Un rovesciamento che ha un modello nei giovani della Rosa Bianca: col sacrificio della loro vita per opporsi a Hitler e all'illegalità, salvarono la dignità dell'uomo e della filosofia.
"Ne il qabbalista si sente l'ispirazione, le ali e la luce del vivente, si sente la forza e il legame che unisce gli esseri, il discepolo, il maestro, il mondo e la gioia di ricercare un poco del miracolo dell'Infinito. Il qabbalista: un libro di sapere e di amore, molto semplicemente un libro di vita…"
(M.-A. Ouaknin)
Hilary Putnam, uno dei più influenti filosofi contemporanei, racconta la propria "scoperta" dell’ebraismo e l’incontro con alcune figure di spicco della filosofia ebraica, Franz Rosenzweig, Martin Buber ed Emmanuel Levinas, cui si aggiunge Ludwig Wittgenstein, il quale, sebbene non praticante, ha sviluppato secondo Putnam una concezione della religione in qualche modo affine a quella dei primi tre. Ne nasce un libro molto personale, quasi intimo, in cui la riflessione sul significato di questo incontro amplia il proprio orizzonte fino a includere ciò che la religione in generale può significare nella vita di ciascuno di noi.
Seguendo la lunga riflessione operata dai Maestri sull'atto creatore, questo saggio di Catherine Chalier si iscrive nella linea di una meditazione sulla funzione delle lettere in una creazione che deve tutto alla parola. Una meditazione che si ispira alla grafia delle lettere e, quanto al loro significato, alle suggestioni del Talmud e dello Zohar. Essa tenta di mostrare al lettore moderno, senza dubbio poco incline a soffermarsi sulla poesia delle lettere ebraiche, che lo sforzo per decifrare l'enigma delle nostre vite avvalendosi di queste lettere è un cammino di speranza.
All'interno della cultura ebraica, la "Porta del Cielo" occupa una posizione unica. Scritta in spagnolo nei primi decenni del Seicento, essa è infatti il solo esempio di opera, fra quelle che ancora appartengono al periodo di formazione del canone classico cabbalistico, composta in una lingua "profana": non nella lingua santa ebraica, né nell'arcaizzante aramaico dello Zohar, né nello yiddish al quale anche sarebbe ricorsa la letteratura chassidica. Questa caratteristica rispecchia l'intento di Abraham Cohen de Herrera (il mercante di origine spagnola, vissuto in Italia e morto ad Amsterdam, le cui vicende personali e familiari vengono ricostruite nell'introduzione anche grazie a documenti d'archivio rimasti finora inediti): scrivere un'opera di introduzione alle dottrine cabbalistiche che fosse accessibile al maggior numero possibile di lettori eliminando l'ostacolo linguistico che ne aveva fino ad allora ristretto la conoscenza diretta a ebrei ed ebraisti. Altri elementi concorrono poi a giustificare quel ruolo di vera e propria mediazione fra cultura ebraica e contesto europeo che si propone la Porta: non solo la lingua ma anche il linguaggio, lineare e razionalizzante, nella quale è composta; il discorso sistematico con cui procede, richiamandosi al modello della Scolastica latina; e il costante riferimento e paragone con il pensiero filosofico, da Platone e Aristotele ai neoplatonici alla cultura italiana rinascimentale.
I costruttori della torre di Babele volevano assicurarsi fama eterna, garantirsi eternità, farsi un nome. Ma dovevano rivelarsi tanto poco padroni del tempo quanto del linguaggio. Come finirà allora la sfida del loro nome contro il Nome di Dio? Potrà la diaspora delle lingue trovare nei tempi messianici la via della redenzione? Seguendo il filo dell'ermeneutica ebraica questo libro ricostruisce, con il ritmo avvincente di un racconto, le profezie sull'istante messianico che segnerà la fine. Nell'unisono con cui verrà invocato, sarà il Nome di Dio a irrompere nella storia per sovvertirla, a invertire il tempo nell'eternità. Nel doppio futuro di Dio - "Sarò colui che sarò" (Es 3, 14) - affiora il nesso tra linguaggio e redenzione. Vocativo assoluto, Parola dell'incontro, Nome della speranza messianica, il Tetragramma è la possibilità di oltrepassare il tempo nel tempo, di fare della memoria l'inizio della redenzione. Sarà il Nome a porre il sigillo della fine.
Questa antologia rende accessibile al pubblico italiano la singolare riflessione spirituale e la rigorosa dottrina etica del grande rebbe di Kotzk, i cui insegnamenti ottennero enorme risonanza nel mondo ebraico. L'opera si suddivide in due parti: la prima contiene il racconto agiografico della vita del Kotzker, assieme a storie e brevi racconti che manifestano, nell'immediatezza della forma narrativa, il ricco mondo spirituale di R. Menachem Mendel. La seconda parte, nella quale sono raccolti aforismi, testi esegetici e dottrinali, evidenzia lo spessore del pensiero mistico e filosofico dello zaddik, in particolare il significato del concetto di verità.
Una tesi elaborata dall’interno da un membro della comunità ebraica romana: negli ultimi trent’anni si è verificato un curioso fenomeno, ancora tutto da studiare, che ha trasformato il tradizionale, ben conosciuto ebreo postbellico in “frequentatore” di ambienti urbani ormai artificiali come lo stesso ghetto di Roma. Piccole e ben strutturate realtà metropolitane che potrebbero forse essere paragonate ad aree protette in funzione della salvaguardia di pregiati ambienti naturali, e dei rispettivi antichi abitatori. Non è cosa scontata che il “ghetto”, nelle sue moderne varianti più o meno mimetizzate, debba rappresentare per le Comunità diasporiche la realtà più sicura, e soprattutto la riappropriazione di se stessi e delle proprie radici. I muri di pietre e mattoni non ci sono più, ma si sono formati muri nuovi.
Uno sguardo dall’interno, disincantato, perfino impietoso, ma senza cadere nel cinismo e nel sarcasmo del pettegolezzo. Il lettore ebreo potrà dunque farsi coinvolgere, ed anche sentirsi provocato. Non è lui, tuttavia, a costituire il pubblico vero di queste pagine: gli ebrei, come si cerca di dimostrare, sono purtroppo pochi. Saranno tutti gli altri a lasciarsi incuriosire e trascinare da questa incursione davvero “corsara” in un mondo che non cessa di destare interesse, che sembra ed è vicinissimo, ma si intuisce e percepisce anche come lontano e diverso.
obiettivo di questa monografia e`valutare le trasformazioni della festa nel giudaismo antico: lo sviluppo della celebrazione nelle diverse epoche e soprattutto la galvanizazione di nuovi significati che vi si sono aggiunti.
Recensione : a differenza di quanto accade con pasqua e pentecoste, non esiste una monografia dedicata allo studio delle interpretazioni antiche di questa festa delle capanne, probabilmente per il fatto di essere scomparsa dall'orizzonte liturgico cris tiano. la selezione degli aspetti festivi e`fatta a partire dal testo biblico, vedendo la sua risonanza ed elaborazione attraverso i diversi campi del giudaismo antico. e`interessante vedere quali sono le concezioni religiose che si sviluppano intorno a sukkot, che derivano dal testo biblico e dalla stessa pratica festiva. l'autore mostra come l'interp retazine della scrittura si trovi gia nelle versioni antiche e traspare come tendenza che accompagna le diverse fasi della redazione biblica, raggiungendo un maggiore sviluppo nella letteratura intertestamentaria e la sua massima liberta redazionale nei midrashim. lo studio di questa festa ci mostra la vitalita del testo biblico immerso in una tradizione celebrativa e interpretativa. infatti, se e`vero che il termine midrash deve essere riservato per le elaborazioni rabbiniche su un testo della scrittura, non bisogna dimenticare gli esempi di un atteggiamento midrashico nel processo stesso della redazione del testo biblico, ebraico e greco, e non solo nelle ultime fasi.