Donatrici/venditrici di ovociti, fecondazione in vitro, madri surroganti che conducono gestazioni e partoriscono su commissione, bambini e bambine che nascono con problemi di salute. Davanti al cieco entusiasmo del mondo scientifico e di parte del femminismo, Laura Corradi intende smascherare il fervore neoliberista che indica come "diritti di riproduzione" quelli che in realtà sono privilegi geo-politici ed economici. Una riflessione sulle implicazioni etiche, biologiche e psicosociali delle nuove tecniche di riproduzione e sulla mercificazione dei corpi, in una prospettiva femminista. Il contesto sociale contemporaneo ha costruito un capzioso idealtipo, ben pubblicizzato dai media, quello della "donna che vuole un figlio a tutti i costi", che sembra giustificare l'omissione dei dati disponibili sugli aspetti negativi per la salute della madre e del feto da parte dell'industria medica e del suo indotto.
Con quindici anni di ricerca sul campo a Las Vegas, l’antropologa Natasha Dow Schüll mostra come il ritmo elettronico delle slot spinga i giocatori in uno stato di trance che loro chiamano “la zona della macchina”. In questa zona le preoccupazioni quotidiane, le pressioni sociali e anche la consapevolezza della propria dimensione fisica scompaio- no. Una volta entrati nella zona, le persone continuano a giocare non per vincere ma per continuare a giocare, il più a lungo possibile.
Se l’obiettivo delle persone è perdersi nel gioco, l’obiettivo dell’industria è massimizzare i profitti. Schüll in questo libro descrive le strategie nascoste negli algoritmi delle macchine, nell’architettura e nell’arredo degli spazi e nella gestione dell’ambiente in cui il gioco si svolge.
“Mollie mi raccontò come era cominciato il suo gioco e come quel gioco aumentasse sempre più la propria intensità. Iniziò tutto negli anni Ottanta, poco dopo il suo trasloco a Las Vegas con il suo terzo marito. Fu lui a insegnarle a giocare ai video poker, su una macchinetta palmare in miniatura. ‘Rimasi incatenata a quella macchina bizzarra. In seguito sarei passata a quelle reali’. [...] La sua spesa aumentava di pari passo con le giocate, arrivò al punto di spendere il suo intero stipendio in soli due giorni.”
— Intervista a Mollie, giocatrice d’azzardo
Il teatro delle marionette, regolato nel Settecento da un preciso codice, diventa nell'Ottocento uno spettacolo popolare; ma se sarà proprio questo codice a precludergli in certe aree la possibilità di adeguarsi alle esigenze del nuovo pubblico, preparandone il definitivo confinamento a livello infantile, in altre aree esso, proprio per la sua rigidità, finirà col favorire la nascita di un teatro delle marionette radicalmente nuovo: l'opera dei pupi. In realtà temi e motivi del teatro settecentesco delle marionette, che per altro, pur avendo in repertorio soggetti guerreschi, ne usava sporadicamente, non rispondevano alle attese dei ceti popolari, non ne esaurivano lo strutturale bisogno di riscattare miticamente la loro subalternità, di proiettare l'esigenza di un diverso ordine del mondo in eroi superumani che risolvessero in termini mitici le opposizioni sperimentate come inconciliabili nella prassi fra l'amico e il nemico, il giovane e il vecchio, il debole e il forte, il giusto e l'ingiusto. Contraddizioni queste proprie delle società fortemente stratificate dove i gruppi sociali subalterni sperimentano, in conseguenza della precarietà dei beni, la violenza della lotta per la sopravvivenza, la netta divisione dell'universo sociale in amici e nemici, la permanente possibilità di essere traditi dall'amico più fidato. Il declino dell'"opra" è iniziato quando ha cominciato a non essere più un rito, quando le contraddizioni di cui essa rappresentava le mitiche soluzioni.
Perché esistono i rituali? E perché il rito è uno strumento usato dal potere, nelle piccole comunità primitive come nelle antiche civiltà e negli Stati contemporanei? Per rispondere a queste domande, nel volume vengono descritti i comportamenti rituali nelle altre specie e negli antenati dell'Uomo, esplorate le componenti emotive, cognitive e sociali dei rituali umani e analizzate le molteplici funzioni che il rito svolge in relazione al potere: il rito come mezzo per legittimare l'autorità ma anche per "costruirla", il rito come arma nella competizione per la conquista del potere, come meccanismo di controllo dei conflitti ma anche come innesco che fa esplodere la violenza. Viene poi proposta un'esplorazione etnografica che conduce il lettore attraverso le cerimonie imperiali dell'antico Giappone, i funerali di John Kennedy, i poteri magici dei re capetingi, la divinizzazione degli imperatori romani e degli antichi sovrani giavanesi e balinesi, le parate militari sulla Piazza Rossa, i sacrifici umani degli Aztechi.
Centomila anni fa almeno sei specie di umani abitavano la Terra. Erano animali insignificanti, il cui impatto sul pianeta non era superiore a quello di gorilla, lucciole o meduse. Oggi sulla Terra ce una sola specie di umani. Noi. L'Homo sapiens. E siamo i signori del pianeta. Il segreto del nostro successo è l'immaginazione. Siamo gli unici animali che possono parlare di cose che esistono solo nella nostra immaginazione: come divinità, nazioni, leggi e soldi. Non riuscirete mai a convincere uno scimpanzé a darvi una banana promettendogli che nel paradiso delle scimmie, dopo la morte, avrà tutte le banane che vorrà. Solo l'Homo sapiens crede a queste storie. Le nostre fantasie collettive riguardo le nazioni, il denaro e la giustizia ci hanno consentito, unici tra tutti gli animali, di cooperare a miliardi. È per questo che dominiamo il mondo, mentre gli scimpanzé sono chiusi negli zoo e nei laboratori di ricerca. "Da animali a dèi" spiega come ci siamo associati per creare città, regni e imperi; come siamo arrivati a credere negli dèi, nelle nazioni e nei diritti umani; come abbiamo costruito la fiducia nei soldi, nei libri e nelle leggi; come ci siamo ritrovati schiavi della burocrazia, del consumismo e della ricerca della felicità.
A differenza dei tanti uomini pronti a misurarsi in quella che considerarono un'eroica ed elettrizzante avventura, le donne italiane non invocarono la guerra. Ci fu poi un gruppo di utopiste, legate a una rete internazionale di militanti, che avanzò una ferma critica al sistema di potere maschile. Per quella élite di femministe e di suffragiste erano gli uomini a capo dei governi e della diplomazia, che sceglievano di dirimere i conflitti tra le nazioni attraverso lo strumento della guerra, a provocare dolore e spargimenti di sangue. Per questo motivo, negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento e nel corso del primo conflitto mondiale, chiesero più diritti e più democrazia per le donne e sollecitarono la loro partecipazione nelle decisioni sulle vicende nazionali e internazionali.
Siamo tutti in grado di riconoscere la differenza tra rabbia e paura, tra desiderio e invidia. Sappiamo anche che è meglio non confondere l’affetto con l’amore, il rimpianto con il rimorso, l’euforia con la felicità.
Quello di cui non ci rendiamo conto, però, è che lo spettro delle emozioni umane è ancora più sfumato di così: esistono sensazioni che tutti noi abbiamo provato, stati d’animo molto precisi e inconfondibili, e a cui però spesso non abbiamo saputo dare un nome.
Eppure in qualche angolo del mondo, in qualche lingua a noi ignota esiste una parola che li definisce: per esempio, solo gli inuit chiamano iktsuarpok il miscuglio di ansia, nervosismo, eccitazione e felicità che prova chi aspetta l’arrivo di ospiti a casa, o la risposta a una mail importante; per i finlandesi, kaukokaipuu è l’inspiegabile nostalgia per un posto dove non siamo mai stati; gli spagnoli chiamano vergüenza ajena l’imbarazzo empatico di chi assiste alle figuracce altrui.
Tiffany Watt Smith attraversa storia, antropologia, scienza, arte, letteratura e musica in cerca delle espressioni con cui le culture di tutto il mondo hanno imparato a definire le proprie emozioni, e nel frattempo ci rivela come siano complesse e sorprendenti anche quelle che credevamo di conoscere bene. Di parola in parola veniamo risucchiati nel caleidoscopio di questo libro divertente, colto e curioso, metà enciclopedia e metà atlante, che mentre mappa le differenze affettive tra i popoli ci ricorda che proprio nell’universalità di ciò che proviamo ci scopriamo uguali.
L'uomo fu sin dalla preistoria un creatore di simboli, i quali costituiscono un ponte rispetto alle proprie origini, al cosmo e al destino. Le voci di questo Dizionario, selezionate dall'amplissimo repertorio in 17 volumi dell'Enciclopedia delle Religioni diretta da Mircea Eliade in collaborazione con Ioan P. Couliano e curate da massimi esperti internazionali, sottolineano l'emergere e il persistere di tale creatività, non solo in solenni circostanze, ma soprattutto nelle osservazioni, nei gesti e negli oggetti quotidiani. Per secoli i simboli sono stati vissuti come portatori di un significato capace di sfondare gli orizzonti del limite umano per proiettarsi in una presenza che si poneva come «altra». Si scopre così che anche gli oggetti più usuali - una chiave, un tessuto, uno specchio, un gioiello - o i gesti più comuni come mangiare, dormire, offrire un dono, giocare, non sono aspetti scontati della nostra vita: nella storia dell'umanità, infatti, sono stati caricati di un senso che noi possiamo aver scordato, ma che attesta come la ricerca di un significato sia impressa nelle profondità del desiderio umano. Le grandi articolazioni di questa ricerca sono tratteggiate nel saggio dello storico delle religioni Jacques Vidal che introduce la nuova edizione.
L'età media della popolazione italiana non è mai stata tanto alta, eppure oggi nessuno più si sente vecchio. Definirsi anziani è diventato un tabù; e tutti vogliono rimanere giovani, cedendo alle lusinghe di un'"eterna giovinezza". La questione della vecchiaia, però, diventerà sempre più centrale e porterà a profondi mutamenti sociali e culturali che ci coinvolgeranno tutti. Senza dimenticare che non si può negare un futuro alle nuove generazioni. Perché essere anziani significa aver imparato molte cose, e dunque prendersi l'autorità e la soddisfazione di raccontarle. Ma significa anche avere il diritto di scoprire uno spazio della vita tutto da reinventare, andare lenti, osservare meglio il mondo, lasciare spazio a chi è più giovane. Marco Aime e Luca Borzani ci accompagnano alla riscoperta di una fase dell'esistenza ingiustamente rimossa, che, senza ansie, si può e si deve vivere con pienezza.
Si rischia grosso a dire, magari ad alta voce, che essere madre è un tratto essenziale della donna: noi, donne dei Paesi occidentali (quasi tutte), temiamo di venir rinchiuse di nuovo in quella stanza angusta che fino a poco fa ci impediva di partecipare alla vita fuori casa, di contribuire alla vita politica e economica, di studiare. In quella stanza eravamo sempre all'ombra di un uomo (padre o marito), ritenute spesso capaci della "sola" funzione materna. Le cose però sono cambiate. Il rischio è ben altro. Maternità è un concetto eroso e costantemente ridefinito. Nel diritto e nella realtà non è più un termine univoco: la madre ormai può essere biologica, genetica o ancora giuridica. Può anche non esserci (perché ci sono due padri) oppure può raddoppiarsi (due madri o la "co-madre"). La maternità è ritenuta surrogabile. Noi donne stiamo cedendo, in cambio di nulla, un tratto essenziale della nostra differenza femminile e il mondo ci spinge in questa direzione. La neutralità dei generi, nel miraggio di un'uguaglianza inesistente, dilaga. Rischiamo il buio. Cosa fare? È il momento di andare oltre e riprendere un bene prezioso che ci appartiene: il femminile e la maternità che ne è tratto essenziale. Un'invito a riscoprire e far fiorire il nostro femminile con tre possibili e preziosi alleati: innanzitutto noi stesse, poi l'uomo e la Chiesa.
Il concetto di dialogo è il perno della sfida teorica da cui l'autore prende le mosse per definire una pratica di cura psicoterapeutica. L'idea che lo guida si identifica con la sua risposta alla fondamentale domanda dell'antropologia filosofica: che cosa significa essere umani? Idealmente, essere umani significa essere in dialogo con l'alterità, ovvero con se stessi e con gli altri. In questa luce, la patologia mentale si delinea come l'esito di una crisi del proprio dialogo con l'alterità e la cura come il dialogo con un metodo finalizzato a ristabilire il proprio incontro con l'alterità. L'incontro con l'alterità è costitutivo dell'esistenza umana ed è essenziale per la costruzione dell'identità. Il suo fallimento innesca la patologia mentale. Il dialogo che cura questo scacco non mira alla negoziazione di un senso condiviso; piuttosto, è un movimento, un esercizio di cooperazione orientato alla reciproca comprensione e, in ultima analisi, alla coesistenza.
La canzone napoletana studiata e raccontata non nei suoi aspetti folcloristici più standardizzati, ma come mito che affonda negli archetipi musicali più antichi, come sonorità rimosse dalla memoria e affioranti dove meno te l'aspetti: in un mercatino domenicale dove si vendono dischi di prima della guerra o nel negozio di un barbiere cantante che conserva tradizioni perse nei secoli. Roberto De Simone ci conduce in una ricerca che diventa inventario di testi e musiche, ma anche racconto di personaggi, di luoghi, di rappresentazioni popolari devote e profane. Sempre nei libri di De Simone alto e basso, popolare e colto si intrecciano indissolubilmente; così avviene anche in questo libro, che insieme al saggio sul Presepe napoletano è forse il suo capolavoro, la summa delle sue ricerche e della sua antropologia culturale. Dunque nelle pagine della Canzone napolitana l'arte canterina di un anonimo venditore ambulante e la raffinata poesia di Salvatore Di Giacomo vanno a braccetto fra loro, come i melodrammi di Rossini e Donizetti e la performance di tre femminelli in processione a un santuario. L'alternanza fra capitoli di rigorosa musicologia e altri di spericolata narrazione è più apparente che reale, perché nei capitoli storico-musicali si insinua la fiction (come in un bellissimo colloquio immaginario fra Torquato Tasso e Monteverdi) e nelle narrazioni c'è molta filologia (peraltro le partiture delle canzoni sono raccolte in fondo al volume). Attraverso la trattazione storica e il racconto, De Simone delinea un genere musicale ma tratteggia anche il ritratto della sua città: una Napoli cangiante nei secoli eppure sempre se stessa. Un collage di sovrapposizioni (splendidamente rappresentate in un parallelo visivo dalle illustrazioni di Gennaro Vallifuoco, antico sodale di De Simone) legato da un filo rosso che arriva fino alla seconda guerra mondiale e, attraverso le testimonianze più resistenti ai cambiamenti della modernità, a saperle trovare e ascoltare, fino ai giorni nostri.