Atelier Dante propone il testo di una conferenza, tenuta nell'ambito del festival Dante 09 (Ravenna, settembre 2008) in cui l'autrice ha raccontato i pittori e le figure del vedere dantesco, da Giotto a Cimabue, dagli affreschi ravennati ai chiostri bolognesi, fino alle immagini che il poema ispirò nei secoli successivi: Michelangelo, Rodin, Previati.
"Mi si rimprovera di presentare nei miei quadri oggetti situati in posizioni in cui non li vediamo mai. Si tratta nondimeno della realizzazione di un desiderio reale, se non propriamente cosciente, per la maggior parte degli uomini. In effetti già il pittore banale cerca, nei limiti prefissati, di modificare l'ordine in cui vede gli oggetti. Si permetterà timide audacie, vaghe allusioni. In considerazione della mia volontà di far urlare il più possibile gli oggetti più familiari, l'ordine nel quale gli oggetti solitamente si collocano doveva essere evidentemente sconvolto; le crepe che noi vediamo nelle nostre case e sul nostro volto, mi sembravano più eloquenti in cielo; le gambe di un tavolo in legno tornito perdevano l'innocente esistenza che si attribuisce loro se apparivano dominare d'improvviso una foresta; un corpo di donna librantesi al di sopra di una città sostituiva gli angeli che non mi apparvero mai; trovavo molto utile vedere il di sotto della Vergine Maria e la mostrai in questa nuova luce; i sonagli di ferro appesi al collo dei nostri mirabili cavalli preferivo credere che spuntassero come piante pericolose al bordo di abissi... Quanto al mistero, all'enigma rappresentato dai miei quadri, dirò che era questa la prova più convincente della mia rottura con l'insieme delle assurde abitudini mentali che generalmente sostituiscono il sentimento autentico dell'esistenza". (René Magritte)
Dante pose tra i dannati dell'Inferno il padre di Enrico Scrovegni, Rainaldo, bollandolo come usuraio. Per molto tempo questa condanna ha portato ritenere che il figlio avesse fatto erigere la cappella padovana per espiare i propri peccati di usura, e quelli del genitore.
Il libro di Chiara Frugoni capovolge questa tenace interpretazione, accolta ancora di recente. Enrico, banchiere, imprenditore e uomo politico, attraverso Giotto volle proclamare il buon uso delle ricchezze, se impiegate in opere caritative, e presentarsi con il volto del mecenate. A questa tesi l'autrice giunge esaminando da una parte numerosissimi documenti d'archivio e il lungo e appassionato testamento del committente - rimasto fino ad oggi inedito, e qui pubblicato, tradotto e puntualmente commentato da Attilio Bartoli Langeli -, dall'altra analizzando scena per scena gli affreschi, riprodotti nel ricco apparato illustrativo. Un'attenzione particolare è riservata da Chiara Frugoni alla fascia dei Vizi e delle Virtú alternati a finti marmi (questi ultimi indagati nel loro significato da Riccardo Luisi), letta come la parte piú personale di Enrico.
Il saggio, intrecciando con grande finezza fonti testuali e iconografiche, disegna una biografia nuova e sorprendente di Enrico Scrovegni, desideroso di catturare attraverso il programma pittorico il consenso e la gratitudine dei concittadini.
«A cosa mirava Enrico, quando, all'incirca sulla trentina, cominciò a costruire la "parva ecclesia"? Che cosa avrebbe voluto diventare? Probabilmente in questa fase della vita l'ambizioso Scrovegni vedeva per il suo futuro più profili possibili: grande banchiere, influente uomo politico, uomo di potere e forse addirittura al potere; per questo cercava di tenere aperta ogni eventualità. [...] Attraverso gli splendidi affreschi Enrico Scrovegni volle istituire un colloquio continuo con la sua città e presentarsi ancora con un altro profilo, quello del mecenate. Facendo un uso caritatevole delle ricchezze accumulate le rimetteva in circolo, beneficando i padovani di doni spirituali. Inoltre, chi si ricorderebbe oggi di Enrico se non ci fosse stato Giotto? In definitiva quelle pitture furono il migliore affare del grande finanziere».
il libro raccoglie un testo di Giovanni Reale ed Elisabetta Sgarbi sui "compianti" in terracotta di Niccolò dell'Arca, Guido Mazzoni e Antonio Begarelli. In questi gruppi scultorei, capolavori dell'arte umanistica e rinascimentale, si racchiude una lezione di straordinaria intensità sull'esperienza del dolore e della separazione, alla luce di una fede. A esprimere la disperazione dei personaggi rappresentati nei "compianti" anche i testi inediti di cineasti internazionali, come Michael Cimino e George Remerò, e di scrittori di diversa provenienza, come Antonio Scurati, Diego Marani, Pino Roveredo, Lucrezia Lerro e Vittorio Sgarbi, interpretati dalle voci intense di Anna Bonaiuto e Toni Servillo.
Picasso non si chiamava semplicemente Pablo. Quando era nato, nel 1881, era stato battezzato, secondo le usanze ridondanti della Spagna dell'epoca, con nove nomi, una carovana di appellativi che rappresenta quasi un presagio, perché non c'è stato un solo Picasso: ce ne sono stati una decina. Nella prima metà del Novecento l'artista spagnolo è stato realista, simbolista, espressionista, primitivista, è stato (con Braque) il padre del cubismo, ha ripensato il classicismo, ha interpretato il surrealismo. Questo atteggiamento proteiforme si ritrova anche nelle sue lettere, di cui il presente volume propone un'emblematica antologia. Sembra quasi che Picasso si comporti coi suoi amori sentimentali come coi suoi amori intellettuali e che, ad esempio, quel suo fuggire a Céret con Èva senza chiarirsi con Fernande, o quelle sue profferte a Marie-Thérèse mentre è in vacanza con Dora Maar, nascano dalla stessa spregiudicata libertà che lo porta a dipingere alla Ingres e alla cubista in uno stesso periodo, in uno stesso momento, in uno stesso quadro. Picasso, però, è un maestro di pittura, non di vita. E la pittura, che preferisce chiamare col nome più dimesso ma più concreto di " lavoro ", non solo è la sua più grande passione, ma è anche l'unica cui sa rimanere sempre fedele. In questo senso le sue lettere ci offrono una cronaca non dei suoi amori, ma del suo amore: per l'arte.
Il fascino che ancora oggi le prime avanguardie suscitano nel mondo degli studiosi d'arte - e che si ripercuote tanto sul mercato quanto sull'influenza nella produzione di tanti giovani artisti - nasce in gran parte dal loro impeto rivoluzionario sospeso, come tutti gli atteggiamenti utopici, tra passato e futuro. Il loro carattere "militante", di guida e di rottura con un passato nemico da superare, da cui nasce il concetto stesso di avanguardia, non impedisce tuttavia il continuo confronto con il secolo precedente. D'altra parte, se si percorre tutta l'arte del Novecento successiva alla Prima guerra mondiale, si ha facilmente la sensazione che, proprio negli anni delle prime avanguardie, tutto fosse già stato detto: persino lo spaesamento di de Chirico e la negazione dada di Duchamp.
Una lettura filosofica ed emotiva di questo "genere" del Novecento. Il monocromo è un'immagine senza rappresentazione che ha subito, in Frank Stella e Ad Reinhardt, per esempio, un processo estremo di negazione: senza contenuto che l'oggetto stesso, senza disegno né composizione o relazioni interne, senza profondità né rapporto drammatico tra figura e sfondo, senza plasticità né decorazione. Un viaggio nel grado zero della pittura, colore e materia in sé e per sé, di estrema densità fisica e concettuale, tra simbolo, spiritualismo e utopia.
Ne corso dell'Ottocento una nuova consapevolezza del proprio ruolo porta gli artisti a condividere le loro ricerche con altri formando dei gruppi: si riconoscono in un medesimo indirizzo estetico, adottano una tecnica specifica, elaborano un manifesto teorico, si riuniscono in un luogo o intorno a una rivista, sono rappresentati da un gallerista o un mercante; talvolta è la critica a identificare tendenze comuni a diversi artisti. Questo volume indaga la relazione tra linguaggio artistico, intento e azione collettiva attraverso i movimenti, i gruppi e le più recenti tendenze dell'arte dall'Impressionismo a oggi.
Henri Cartier-Bresson (1908-2004) viene unanimemente considerato uno dei più grandi fotografi del Novecento. Negli ultimi dieci anni della sua lunga vita smise di fotografare, dedicandosi al disegno e alla pittura: "Ho così ritrovato" scrisse "la mia vocazione originaria e chiuso definitivamente la "parentesi" della fotografia". Una parentesi che è durata cinquant'anni e i cui risultati, nel campo del reportage e della ritrattistica, gli hanno valso una straordinaria fama mondiale. Il patrimonio delle sue immagini rappresenta ormai una pietra miliare: dopo Cartier-Bresson non si può essere fotografi senza rapportarsi - per imitazione o contrapposizione - alla sua opera. Questi tre saggi del critico Jean Clair, suo amico e ammiratore, sono un omaggio all'uomo e all'artista. Nel secondo di essi, Clair approfondisce il rapporto tra la grande opera fotografica di Cartier-Bresson e la sua produzione di disegni a cui consacrò gli ultimi anni della propria vita, e in tal modo affronta e illumina il grande e controverso problema del rapporto tra fotografia e pittura. Il libro è corredato dalle riproduzioni delle fotografie di Cartier-Bresson - alcuni dei suoi capolavori -, che Jean Clair analizza.
Il mondo dell'arte è circondato da esperienze artistiche non ufficiali, popolari, religiose, marginali di cui raramente la critica e la storia dell'arte si interessano. In questo libro si analizzano opere ed esperienze creative che potrebbero tranquillamente essere collocate in quel mondo. Tre sono i casi studiati: l'arte votiva, l'outsider art e la street art, a ognuno dei quali è dedicato un capitolo. L'arte votiva è ignorata negli aspetti più contemporanei, ma visitando un qualsiasi santuario in Italia ci si può imbattere anche in linguaggi diversi dalla pittura figurativa: fotografia, installazioni, ready made, opere concettuali. All'arte degli outsider è sempre negata la consapevolezza del loro lavoro, e questo li separa definitivamente dai colleghi cosiddetti sani e liberi. La street art è spesso compromessa con la dimensione dell'arte ufficiale quando smette di essere tale ed è trasferita sulle pareti di una galleria d'arte. Il volume riconosce e discute le potenzialità di questi tre campi limitrofi, al fine di rendere più ricca la discussione del rapporto tra arte ed espressione umana.
Difendere i paesaggi reali dipinti da Piero della Francesca è importante quanto difendere le sue tele; educare i giovani a intendere l'uno e l'altro è assicurare che quel paesaggio e quel dipinto costituiscano un'eredità di bellezza da trasmettere alle future generazioni. L'Italia ha un'invidiabile tradizione artistica che da secoli ne fa una meta abbligata per i viaggiatori, letterati, uomini di cultura da ogni parte del mondo che vengono a scoprire bellezze antiche e moderne. Consaevole di questo primato Giovanni Gentile nel 1923 inserì l'insegnamento della storia dell'arte nei licei classici: provvedimento negli anni eroso e annacquato, malgrado dall'arte l'Italia tragga un fiume di turisti e moneta pregiata. L'autore ripercorre queste vicende fino ai giorni nostri e propone nuove linee di metodo per il rinnovo della disciplina. non una storia di capolavori e di maestri nozionistica, ma una conscenza di grado in grado più approfondita che sappia avvicinare i giovani a questo immenso patrimoniodi oggetti d'arte, musei, città e paesaggi. Una disciplina che sappia dialogare con storia e letteratura.
Cosa rappresenta un affresco di Leonardo piuttosto che un olio di Mondrian? Cosa ha voluto dire l'artista e quali sono le tecniche con cui è stato prodotto? Per leggere e apprezzare un dipinto è importante distinguere gli stili e i linguaggi, riconoscere i temi, cogliere il significato voluto dall'artista e l'espressione della cultura del suo tempo. Questo manuale suggerisce come avvicinarsi ad un'opera pittorica con il piacere di capirne e saperne di più.