La democrazia imperiale ateniese mirava al dominio commerciale nel Mediterraneo: donde la catena di conflitti in cui si impegnò contro i 'barbari', contro i Greci, contro i suoi stessi alleati. L'oligarchia spartana non accettava di vedere scosso il proprio tradizionale predominio. Gli Ateniesi pretendevano di esportare la democrazia imponendola con la forza innanzi tutto ai propri alleati. Gli Spartani proclamavano di portare la libertà ai Greci oppressi da Atene. La guerra - scrisse Tucidide - era inevitabile. Tutto era incominciato con la sfida ateniese a sostegno della rivolta antipersiana dei Greci d'Asia e con la risposta, vent'anni dopo e in grande stile, da parte del Gran Re volta a sottomettere, oltre ai Balcani, la penisola greca. E tutto sembrerà concludersi circa un secolo dopo con la «pace del Re». Una pace imposta ai Greci dalla Persia per il tramite della potenza militare spartana, cui l'aiuto del Gran Re aveva consentito di sconfiggere Atene. Il Gran Re lasciava intendere che solo il suo predominio avrebbe portato la pace ai Greci. E i Greci, finché non affiorò alla storia il regno macedone, la accettarono. Non a torto Arnold Toynbee definì la guerra tra Sparta e Atene «suicidio della Grecia classica». Una vicenda esemplare.
Nel 1848 la rivoluzione cominciò a Palermo e si diffuse subito in tutta Europa. Folle enormi si radunarono in nome della democrazia e dell'indipendenza nazionale in un flusso inarrestabile che cancellò, in pochi mesi, l'ordine politico che reggeva il continente dalla sconfitta di Napoleone. Alcuni governanti si arresero subito, altri combatterono aspramente, ma ovunque si fecero strada nuovi politici, nuove convinzioni e nuove speranze, portando a cambiamenti significativi e duraturi che continuano a plasmare il nostro mondo: il ruolo delle donne nella società, la fine della schiavitù, il diritto al lavoro, l'indipendenza nazionale e l'emancipazione degli ebrei. Christopher Clark, il grande storico autore del bestseller mondiale "I sonnambuli", descrive il 1848 come la «camera di collisione al centro del XIX secolo». Frutto di una ricerca meticolosa, elegantemente scritto e ricco di descrizioni di figure carismatiche, questo libro offre una nuova interpretazione del 1848. Clark, infatti, evoca questo incredibile fermento di idee nuove, ma anche la serie sempre più spietata ed efficace di contrattacchi lanciati dagli antichi regimi. Nonostante la sconfitta, gli esuli diffusero le idee del 1848 in tutto il mondo e dalle macerie emerse un'Europa nuova e molto diversa.
In molti scritti sulla Resistenza sono indicati come autori di attacchi ai tedeschi o vittime dei loro rastrellamenti 'i partigiani', senza altra specificazione. Ma in gran parte dei casi si trattò di partigiani comunisti, la cui connotazione politica in seguito è rimasta spesso sotto traccia. Nel dopoguerra fu il loro stesso partito a inglobarli nella sua visione della guerra di Liberazione come 'guerra di popolo' combattuta da un ampio fronte antifascista quasi indifferenziato. E questo è accaduto ancora di più dopo il crollo dell'URSS, quando la forte impronta comunista sulla lotta armata antitedesca apparve una macchia capace di cancellarne i meriti. Questo non è un libro di semplice rivendicazione di quei meriti. Ne illustra alcuni, tra cui soprattutto la creazione dal nulla del nucleo essenziale dell'?esercito partigiano', le Brigate Garibaldi, opera di pochi militanti, capaci però di attrarre tanti volontari disposti a battersi contro i nazifascisti. Accanto alle loro imprese ne vanno però considerati anche i limiti, riconducibili agli obiettivi politici del loro gruppo dirigente, deciso ad attribuirgli, nonostante il loro carattere guerrigliero, compiti di un vero esercito regolare capace di presidiare vaste 'zone libere'. Ma dopo le dure prove dell'ultimo inverno di guerra, le formazioni comuniste diedero il principale contributo alla liberazione delle città del Nord prima dell'arrivo degli Alleati, importante obiettivo simbolico condiviso da tutte le forze della Resistenza. Un libro né encomiastico, né denigratorio, dove predominano i chiaroscuri, quanto mai presenti nella storia della transizione italiana verso la democrazia.
Le drammatiche vicende del potere imperiale ci parlano di uomini e donne senza nome ma anche di coloro che vivevano nei centri del potere, i senatori, i cavalieri, i rappresentanti delle élites locali. E naturalmente dei grandi protagonisti che di rado morivano nel loro letto, gli imperatori: in questo libro restano indimenticabili i ritratti di Augusto, che da ragazzo giocò da maestro la partita dell'ultima guerra civile e morì chiedendo ai presenti se aveva recitato bene la commedia della vita; di Nerone, il despota amato dal popolo per la sua politica monetaria 'democratica'; di Callisto, lo schiavo banchiere che divenne vescovo della comunità cristiana di Roma; di Massimino il Trace, il semibarbaro sfortunato difensore della patria romana; di Diocleziano, il sovrano utopista che inventò affascinanti e imponenti ingegnerie per il futuro di Roma; di Costantino, il rivoluzionario che fece trionfare la Chiesa cattolica e costruì una società 'piramidale'; di Giuliano, che volle ripristinare la gloria degli antichi dèi e morì combattendo contro i Persiani. I collanti di tante storie plurali e singolari sono alcune linee generali che intessono il racconto, in primo luogo la documentazione monetaria come chiave per intendere gli orientamenti sociali dei sovrani e la storia del cristianesimo come trama stabile della storia generale. Una leggenda molto vera vuole che Mazzarino 'sapesse tutto', perché non gli sfuggiva nessun documento, nessuna testimonianza antica, nessun angolo della storiografia moderna. Spesso la vasta erudizione produce studiosi chiusi nelle loro biblioteche, incapaci di trasferire nella vita le pagine dei libri. Per Mazzarino valeva il contrario: la sua straripante cultura era la chiave per far vibrare le anime morte.
Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, le forze conservatrici dominavano tutta l'Europa e reprimevano ogni tentativo di mutare il corso dell'esistente, in Italia come in Francia, in Spagna come in Ungheria. Ma la speranza si riaccese all'improvviso e inaspettatamente proprio in uno dei luoghi simbolo del nostro continente: la Grecia, allora dominio dell'Impero turco. Contro ogni ragionevole speranza di successo, la gente dei villaggi, delle valli e delle isole della Grecia si sollevò contro il sultano Mahmud II e affrontò l'enorme potenza dell'esercito ottomano, la sua celebre cavalleria turca, i crudeli fanti albanesi e i temibili egiziani. Mark Mazower ci fa conoscere i cospiratori rivoluzionari e il terrore delle città assediate, le incredibili storie di sacerdoti, di marinai e schiavi, di eroi ambigui e di donne e bambini indifesi in un conflitto di straordinaria brutalità. La causa greca trovò sostenitori accesissimi, da Foscolo a Byron, e ha avuto un ruolo centrale nella nascita del Romanticismo. Anzi, si può dire che proprio allora nacque un nuovo tipo di politica capace di far accorrere volontari da tutta Europa. Allora, per la prima volta nella storia, i leader europei hanno dovuto fare i conti con la volontà dei popoli di conquistare, a un costo spesso terribile, un futuro diverso da quello stabilito dall'alto.
Per vent'anni Benedetto Croce fu l'unica voce libera del nostro Paese. L'unico intellettuale a cui il regime fascista, per il suo prestigio e il suo carisma, concedeva una certa libertà di espressione. Da solo, attraverso i suoi libri, la sua rivista e le sue relazioni, riuscì a tenere accesa la fiamma della speranza in tanti giovani. Un racconto che ripropone l'eterna battaglia tra libertà e asservimento della cultura. Benedetto Croce non è stato soltanto uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento ma ha svolto una funzione fondamentale durante il Ventennio fascista, impedendo al regime di ottenere una egemonia assoluta sulla cultura del nostro Paese. Con un taglio originale, questo libro, oltre a seguire l'atteggiamento di Croce dinanzi al fascismo - accolto con simpatia, poi combattuto con tenacia e inventiva -, ricostruisce non soltanto la biografia del filosofo nel ventennio più tormentato del Novecento, ma ricollega lo studioso liberale ai protagonisti della cultura italiana ed europea, da Thomas Mann a Stefan Zweig. Con una ricca documentazione inedita, Franzinelli illustra l'offensiva degli squadristi e la 'macchina del fango' scatenata contro il filosofo dissidente, la sua rete di corrispondenti e le schedature poliziesche di chiunque lo frequentasse o gli scrivesse. Emerge il ruolo di Croce nella formazione di giovani che - da Giorgio Amendola a Vittorio Foa, da Leone Ginzburg a Piero Gobetti - lo presero quale riferimento in momenti decisivi della loro esistenza. Una particolare attenzione è dedicata alla battaglia di Croce contro il razzismo: era nota la sua contrarietà alla persecuzione degli ebrei, ma ora emergono la continuità e la profondità del suo impegno, che non trova pari in nessun altro intellettuale italiano.
La vicenda di Roma, lungo tutto il suo percorso millenario, è accompagnata da un concetto particolarissimo e originale: quello espresso nel termine imperium. Questo vocabolo traduce il rapporto tra il potere nella sua accezione più alta e la sua responsabilità. Nel gestire questa gravosa incombenza il potere deve confrontarsi con una serie di doveri. Ab origine, la responsabilità verso il popolo romano è subordinata a una serie di valori addirittura anteriori alla nascita stessa dell'Urbe, come quello di fides, il rispetto delle regole. A questo concetto sono costretti a rapportarsi tutti i grandi di Roma. Camillo, cui viene attribuita una prima definizione del diritto naturale, che vieta ogni atto in contrasto con la natura dell'uomo; Scipione, il primo imperator, che proclama la superiorità di un singolo sulle strutture. Muove all'azione Silla, l'idealista in cerca di impossibili ritorni al passato; accende Cicerone nella sua teoresi; lo reclama per sé Cesare senza poter conservare né il potere né la vita; lo struttura mirabilmente Augusto, nel nuovo patto con gli dei (la pax Augusta) da cui nascerà la monarchia. L'intero corso della storia imperiale assiste poi a un costante dibattito, che impegna tanto gli stoici quanto la propaganda di corte, gli imperatori-soldati come il pensiero cristiano. Da quest'ultimo ambito uscirà, infine, la struttura tetragona e proiettata nei secoli a venire dell'impero cristiano.
«La causa degli oppressi può difenderla soltanto uno che sia anche lui un oppresso». Pare che Lucio Sergio Catilina, di nascita nobile e dalla carriera torbida, temprato nella ferocia delle guerre civili, sia approdato a questa convinzione, proclamata in una riunione segreta di suoi seguaci, quando ormai si accingeva, nell'anno 63 a.C., all'ultima, celebre, perdente battaglia contro l'oligarchia. Infiltrati vi erano anche nella sua cerchia. Così, il servizio di spionaggio agli ordini del console a lui più avverso, Marco Tullio Cicerone, prontamente divulgò quel proclama, subito giudicato come una minaccia. Fu instaurato lo 'stato d'assedio' e in tale clima si svolsero le elezioni. E Catilina fu battuto nelle urne: intreccio perfetto di strategia della tensione e gestione dei pentiti. Cicerone era giunto al vertice del potere mettendosi agli ordini dell'oligarchia. Fu perciò, come spesso i transfughi, il più implacabile avversario della 'rivoluzione'. Al culmine dello scontro non esitò a varcare i confini della legalità, illudendosi, per un tempo non breve, di poter rimanere, grazie a tale 'benemerenza', al vertice della Repubblica. Non aveva capito di essere soltanto una pedina, non un capo: gli mancava un esercito. Era suonata l'ora dei capi carismatici e delle loro legioni.
Senza dubbio, la Costituzione repubblicana ha contribuito a costruire l'Italia e a darle la sua forma attuale. Al tempo stesso, però, il nostro paese l'ha utilizzata e interpretata secondo le proprie necessità, mutate nel tempo, e le proprie identità. Nella matrice originale della Carta operano 'più valori che norme': i valori sociali delle maggiori forze in campo, cattoliche e social-comuniste, dettano l'agenda, sovrastando le culture liberaldemocratiche delle varie 'terze forze'. Negli anni si susseguono e puntualmente falliscono i tentativi di riformare la Costituzione, mentre si compie il ciclo della nascita e morte dei partiti, attraverso il terremoto di fine Novecento e l'affermazione di nuovi movimenti. Al sistema elettorale proporzionale subentra allora il fascino del maggioritario e, con esso, anche l'eterna paura del tiranno, dell'uomo solo al comando. Intanto l'arretramento dello Stato e la fine dei partiti hanno fatto emergere nella società civile e nella politica nuove costellazioni di interessi e di poteri, economici, territoriali, sociali, rafforzando antichi e nuovi 'corporativismi'. Sempre più incisivo, si afferma il ruolo esercitato nell'indirizzare le sorti del paese dal diritto, dai diritti, dalla magistratura e dalla Corte costituzionale.
«Il problema dei 'silenzi' non è solo una questione del mondo ebraico, ma riguarda tutti, anche i cattolici». Pio XII è una figura controversa. Da un lato protagonista di azioni riconosciute a tutela delle vittime del nazifascismo, in particolare nei mesi drammatici dell'occupazione di Roma; dall'altro accusato per i troppi 'silenzi' a fronte delle notizie drammatiche che arrivavano in Vaticano, già dal 1939, dai territori occupati da Hitler, a partire dalla Polonia. Andrea Riccardi ricostruisce la storia e le ragioni di quei silenzi, avvalendosi di una ricca documentazione consultabile per la prima volta. Solo nel 2020 l'Archivio Apostolico Vaticano ha, infatti, reso accessibili agli studiosi i documenti del pontificato di Pio XII. Frutto di questa straordinaria opportunità di ricerca e a firma di uno degli storici più accreditati sulla materia, l'analisi e l'interpretazione di un nodo rilevantissimo della storia del Novecento.
La storia degli ebrei in Italia è antichissima: nessuna comunità in Occidente ha una presenza così costante, dalla Roma antica fino a oggi. Soprattutto, la storia degli ebrei in Italia è una storia fortemente specifica e in parte diversa rispetto a quella dei centri della diaspora europea. Distinta da una netta continuità attraverso oltre venti secoli; prima culla, all'inizio dell'era volgare, dell'ebraismo diasporico. Caratterizzata da una forte integrazione nella società cristiana, sia nel Medioevo che nei secoli successivi, nonostante le mura dei ghetti; poco toccata, nei secoli, dai fenomeni più estremi di antisemitismo; segnata da una forte partecipazione degli ebrei, nel XIX secolo, alla costruzione risorgimentale; e infine colpita durante l'occupazione nazista da arresti e deportazioni a cui partecipano attivamente i fascisti della Repubblica di Salò. E ancora, almeno fino al secondo dopoguerra, poco impegnata nel progetto sionista e anche successivamente poco coinvolta in una concreta emigrazione in Israele, anche se molto condizionata e segnata dalla presenza dello Stato ebraico. Una storia che, a essere compendiata in una sola frase, potrebbe esser definita come 'una storia italiana'.
Nei secoli racchiusi tra l'invenzione della stampa e la nascita del diritto d'autore anche gli uomini e le donne più illuminati credevano nella necessità di sorvegliare la circolazione libraria e reprimere le idee considerate dannose per la società. Cosa distinse il sistema di censura romano dai meccanismi di controllo vigenti in altre parti d'Europa? E, soprattutto, in che modo la censura ecclesiastica influì sugli sviluppi della cultura italiana nel corso dell'età moderna? Tenendo insieme in un unico grande affresco dotti e 'senza lettere', letteratura e arte, scienza e filosofia, politica e teologia, questo libro restituisce la voce ai tanti attori che animarono la scena culturale della penisola italiana. Ricostruisce gli strumenti con cui Roma cercò di impedire la diffusione dei libri ritenuti pericolosi e allo stesso tempo gli stratagemmi con cui autori, stampatori e lettori cercarono di aggirare tali controlli. La censura fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura. Il successo della politica religiosa e culturale della Controriforma passò anche per la capacità di restituire ai fedeli una serie di testi atti a sostituire i libri non più disponibili. Il libro scomparve e poi ricomparve sotto forme diverse, lontane ma non del tutto nuove rispetto al loro aspetto originario.
Teodosio il Grande (379-395 d.C.) fu l'imperatore che mise fuori legge l'antica religione romana. Nel periodo a lui successivo, per buona parte della critica storica il paganesimo è solo un fenomeno irrilevante: non intercettato dai radar della grande storia, meritevole di studio solo in funzione del processo della cristianizzazione e per di più ormai mal distinguibile dalle superstizioni dei fedeli cristiani e dal folklore. La sfida di questo libro è di interpretare le specificità di un paganesimo religioso 'in transizione'. Tra drammatiche vicende di guerre e violenze, movimenti di uomini, insediamenti di collettività, costituzione di nuovi regni, come si trasformarono i rapporti tra religione e società? Incisero le credenze e le pratiche religiose 'importate' dalle diverse gentes barbariche, i tempi e i modi delle loro conversioni al cristianesimo o le loro persistenze nell'idolatria? Come interagirono con le realtà romane preesistenti? Riscopriamo così un paganesimo minoritario ma non residuale, né privo di suggestiva vitalità, con espressioni di politeismo tradizionale, cerimoniali legati ai cicli della fertilità, culti degli elementi naturali, manifestazioni religiose più violente e macabre come i sacrifici umani dei prigionieri di guerra o l'uso di feticci sacri a scopi espiatori.
Nell'inverno del 1933, in soli sei mesi il mondo cambiò improvvisamente rotta e si avviò sui sentieri che avrebbero portato alla Seconda guerra mondiale. Le tappe di questa escalation sono drammatiche: Hitler al potere in Germania, il Giappone all'invasione della Cina, Mussolini e l'Italia alla conquista dell'impero. Ovunque, la triade demoniaca di nazionalismo, autoritarismo e malcontento sociale travolge la democrazia. Un racconto appassionante che è anche un ammonimento per i nostri tempi.
Le terre dell'Adriatico orientale sono state uno dei laboratori della violenza politica del ?900: scontri di piazza, incendi, ribellioni militari come quella di D'Annunzio, squadrismo, conati rivoluzionari, stato di polizia, persecuzione delle minoranze, terrorismo, condanne del tribunale speciale fascista, pogrom antiebraici, lotta partigiana, guerra ai civili, stragi, deportazioni, fabbriche della morte come la Risiera di San Sabba, foibe, sradicamento di intere comunità nazionali. Queste esplosioni di violenza sono state spesso studiate con un'ottica parziale, e quasi sempre all'interno di una storia nazionale ben definita - prevalentemente quella italiana o quella jugoslava (slovena e croata) -, scelta questa che non può che originare incomprensioni e deformazioni interpretative. Infatti, è solo applicando contemporaneamente punti di vista diversi che si può sperare di comprendere le dinamiche di un territorio plurale come quello dell'Adriatico orientale, che nel corso del ?900 oscillò fra diverse appartenenze statuali. Inoltre, le versioni offerte dalle singole storiografie nazionali non fanno che rafforzare le memorie già a suo tempo divise e rimaste tali generazione dopo generazione. Sono maturi i tempi per tentare di ricostruire una panoramica complessiva delle logiche della violenza che hanno avvelenato - non solo al confine orientale - l'intero Novecento.
Una leggenda ebbe grande diffusione in tutta Europa tra la metà del Seicento e i primi del Novecento. Nascosta tra le righe di un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 1647, questa mitologia attribuiva agli ebrei l'invenzione delle lettere di cambio - strumento in apparenza simile al moderno assegno, che consentiva il movimento di grandi somme di denaro senza alcuno spostamento di monete o lingotti e che, in mano a banchieri esperti, agevolava forme di speculazione del tutto avulse dallo scambio delle merci. Storicamente infondata, questa leggenda ebbe tuttavia un successo enorme. Se ne trova menzione in una miriade di testi oggi poco noti, nonché in grandi autori come Montesquieu, Marx e Sombart. Perché? Come le lettere di cambio attraversavano mari e monti senza lasciare traccia, così gli ebrei apparivano indistinguibili dai mercanti cristiani. In questa 'invisibilità' non era facile riconoscere il mercante onesto dall'ebreo usuraio. Ben prima della mano invisibile di Adam Smith, l'invisibilità degli ebrei fu dunque una tra le metafore predilette dei pensatori europei e diede voce a timori profondi legati ai lati più oscuri e ingovernabili del nascente capitalismo finanziario.
Cento anni fa, per tutto il 1921 e poi nel 1922, l'Italia fu investita da una guerra civile scatenata dal fascismo, autoproclamatosi 'milizia della nazione', contro tutti i partiti avversari. Da cento anni gli osservatori coevi e poi gli storici hanno cercato di spiegare un fenomeno così sorprendente, proponendo le più varie interpretazioni. In questo libro Emilio Gentile, avvalendosi di una vasta documentazione di archivi pubblici e privati, ricostruisce le vicende che provocarono il crollo della democrazia italiana e posero le fondamenta di un regime totalitario. Come ebbe inizio la marcia del fascismo? Chi erano i fascisti? Chi erano i finanziatori dello squadrismo? Chi si oppose e chi favorì la conquista fascista del potere? Fu Mussolini il duce che guidò il fascismo al potere o fu il fascismo che spinse Mussolini al potere, trasformandolo in duce? A queste domande Emilio Gentile ha cercato di dare risposte realistiche, documentate e argomentate. E con le sue risposte racconta una storia del fascismo che va oltre le interpretazioni tradizionali o convenzionali, perché i suoi protagonisti sono persone in carne e ossa e non astratte entità collettive.
Questo libro racconta come finì, in antico, l'indipendenza dello Stato ebraico. Ciò avvenne, nel più generale contesto della conquista del Medio Oriente e in particolare dell'area siro-palestinese, ad opera delle legioni romane (63 a.C.). La figura dominante dell'aggressione e della spoliazione del 'tesoro di Stato' degli Ebrei fu Gneo Pompeo Magno, in quell'anno (l'anno terribile della congiura di Catilina) potente personaggio pubblico della repubblica imperiale romana. Una fonte ebraica coeva dei fatti, i cosiddetti Salmi di Salomone, fornisce un quadro veridico della vicenda. E svela il ruolo decisivo della voracità dell'aggressore. Voracità che si appagò finalmente, dopo oltre un secolo di violenze e apparente riconciliazione, nell'anno 70 d.C. Allora l'imperatore Tito, «delizia del genere umano» secondo la vulgata adulatrice, distrusse il Tempio di Gerusalemme e lasciò depredare il tesoro lì conservato, frutto del contributo corale di tutte le comunità ebraiche. Il movente economico e l'odio per un popolo atavicamente considerato con avversione furono, allora, alla base del primo genocidio degli Ebrei. È una storia che ci riguarda ancora. Il revisionismo storiografico riuscì a prevalere e la tradizione si prestò a fare da sponda alla menzogna di Stato, voluta dai vincitori e avallata dai loro clienti.
La maggior parte degli italiani non è abituata a pensare alla lunga storia del proprio Paese (tra Medioevo e Rinascimento, Controriforma e Risorgimento) anche come storia degli ebrei che pure, fin dall'epoca romana, lo abitarono ininterrottamente. Né, al contrario, la vitalissima storia ebraica nella nostra penisola è di solito concepita come parte integrante della storia italiana: la si pensa piuttosto come la parabola speciale di una minoranza emarginata, isolata, perseguitata; passiva di fronte agli eventi della 'Grande storia' o colpita in negativo da essi in ondate ininterrotte di antisemitismo. Germano Maifreda rovescia questo paradigma, sostenendo che conoscere la storia degli ebrei è indispensabile per capire la storia d'Italia nel suo complesso. Ripercorrendo, anche tramite documenti inediti, tante vicende piccole e grandi nell'arco di diversi secoli, l'autore dimostra che il passato italiano nei diversi ambiti (politico, economico, sociale, culturale, religioso) può essere visto con occhi nuovi se si tiene conto dell'azione costruttiva di donne e uomini ebrei; nonché delle influenze reciproche e delle tante forme di interazione avvenute tra loro e tutti gli altri abitanti della penisola.
Tra Oriente e Occidente sembra che sia sempre esistito un vero e proprio scontro di civiltà. Nel nostro immaginario, le guerre persiane per secoli hanno simboleggiato proprio questo: la lotta perenne tra il dispotismo orientale e la libertà dell'Occidente. Basti pensare ai 300 delle Termopili che resistono eroicamente all'invasione delle sterminate masse del Gran Re. Al contrario, per lunghi millenni a partire dalle antichissime civiltà mesopotamiche, il nostro Occidente (europeo) è stato una sorta di appendice al grande complesso orientale (asiatico). Ancora al tempo delle guerre persiane il grande impero vedeva la Grecia come un problema marginale. Furono proprio quei conflitti a trasformare i pesi sulla bilancia: il loro esito diede alla Grecia la forza non solo di resistere, ma anzi di reagire e infine prevalere. Viste le enormi differenze di potenza militare, di bacino demografico, di tradizione dominatrice, tra il grande impero e la piccola Grecia, è stato ovvio per il mondo occidentale costruire la propria immagine come qualitativamente superiore, facendo emergere i valori della democrazia contro il dispotismo orientale, delle libertà contro l'asservimento generalizzato, delle individualità contro la sottomissione etnica.
Fin dal 1859, la storia d'Italia è costellata da un susseguirsi di episodi di violenza politica che hanno segnato nel tempo l'identità stessa del nostro paese. La ferocia di questi atti assume sempre una valenza comunicativa: a volte il mandante ha alle spalle una legittimazione statale, come il comandante militare in guerra o durante uno stato di assedio; altre volte opera senza una copertura istituzionale o in aperto conflitto con l'autorità costituita, come lo squadrista, il mafioso o il terrorista. In alcuni casi la violenza è entrata nella coscienza pubblica e si è radicata nella memoria collettiva attraverso le notizie sui media, le fotografie e i filmati o la raccolta di informazioni per le indagini e per i processi giudiziari. In altri casi, invece - come nelle fucilazioni 'disciplinari', nei massacri di civili ma anche negli stupri di guerra - la violenza è stata in gran parte nascosta finché un lavoro di ricostruzione storica e documentaria non l'ha riportata alla luce. David Forgacs, uno dei più originali e innovativi studiosi dell'Italia contemporanea, esamina dodici casi di violenza che si sono consumati nel nostro paese e nelle sue colonie tra il 1859 e il 2018. Il risultato è un libro che cambierà il modo di pensare non solo alla violenza ma anche alla storia italiana dell'ultimo secolo e mezzo.
È passato un secolo dalla fondazione del Partito comunista italiano a Livorno, nel gennaio 1921. Nasce allora un piccolo partito, destinato però a diventare uno dei pilastri della Repubblica italiana. Nasce insieme alla vittoria di Lenin e della rivoluzione bolscevica in Russia. E morirà nel 1991, ancora insieme all'Unione Sovietica. Milioni di italiani lo hanno votato, altre decine di migliaia sono stati suoi militanti dedicandogli il loro tempo libero. Eppure all'inizio è una piccola «falange d'acciaio», come la chiama uno dei suoi fondatori, Antonio Gramsci: pochi uomini e qualche donna, uniti dal sogno di «fare come in Russia». Sono destinati a essere sconfitti sanguinosamente dal fascismo di Mussolini. Ma resisteranno, tra mille difficoltà, continuando a inseguire quel sogno. Il libro ripercorre non solo le vicende organizzative e la storia politica del partito, ma anche gli itinerari personali di vita di alcuni dei suoi dirigenti: Bordiga, Gramsci, Togliatti, Tasca, Bombacci. Cerca così di rispondere alla domanda più attuale: come ha fatto quella piccola falange a trasformarsi in un grande partito di massa? Quali bisogni degli italiani è stato capace di interpretare e rappresentare? Che ruolo ha avuto nella politica italiana? Perché è nato? E perché è morto?
Dopo gli orrori della prima metà del XX secolo, gli anni compresi tra il 1950 e il 2017 sono stati un periodo di pace e di relativa prosperità per gran parte dell'Europa. Una seconda rivoluzione industriale ha trasformato il continente grazie a un incredibile miglioramento tecnico e produttivo. La catastrofica era della 'guerra civile europea' e dei due conflitti mondiali è sembrata così svanire in un passato lontano e ormai dimenticato. Eppure stiamo parlando di un continente nel vortice perché diviso in due dalla Cortina di Ferro, sempre sotto la minaccia di una distruttiva guerra nucleare. Gli europei, padroni del mondo da diversi secoli, hanno sperimentato cosa significhi non essere più signori del proprio destino e dipendere da due potenze esterne che da capitali lontane migliaia di chilometri potevano cambiarne il futuro nelle pieghe della Guerra Fredda. L'alternarsi di momenti di ansia e paura con altri di euforia ed entusiasmo è stata la caratteristica più significativa di questo tempo. La fine del blocco sovietico, l'estinzione delle dittature che affliggevano l'Europa e la riunificazione tedesca sono state, senza ombra di dubbio, successi straordinari. Ma le fragilità prodotte dai processi di globalizzazione e l'impatto delle crisi economiche e finanziarie dopo il 2008 sono segnali che, come europei, non possiamo ignorare: non esiste nessuna garanzia di pace e stabilità senza il nostro impegno civile.
La Repubblica Sociale Italiana ha avuto una storia breve: venti mesi convulsi che vanno dal settembre del 1943 all'aprile del 1945. Un periodo che rappresenta la pagina più buia del nostro Paese, in cui gli italiani sperimentarono la fine dello Stato, la fine della monarchia sabauda, la fine del fascismo e la sua rinascita, l'occupazione tedesca e la guerra civile al Nord. Un dramma di grande complessità, destinato a lasciare un segno duraturo nelle esperienze individuali e in quelle collettive. Questo libro, avvalendosi delle più recenti ricerche e di fonti poco conosciute, restituisce al lettore l'immagine complessiva delle sue varie (e contraddittorie) componenti: l'azione di governo, il dispiegamento repressivo, il collaborazionismo, lo scarto tra i progetti e le concrete realizzazioni. Un'attenzione particolare viene rivolta al ritorno di Mussolini, all'apporto fornito allo sforzo bellico germanico, alle formazioni armate (Brigate nere, X Mas, SS italiane, 'ausiliarie', polizie semiautonome), alla 'guerra sporca' ai partigiani e ai civili, alla caccia agli ebrei, fino alla transizione al dopoguerra tra giustizia sommaria e amnistie. Il risultato è un lavoro che ancora mancava nella pur vasta storiografia sull'argomento, capace di catturare il lettore raccontando un'epoca di eroismi e viltà, opportunismi e solidarietà.
L’Ottocento è il secolo dell’Europa. Il secolo in cui il Vecchio continente ha dominato il resto del mondo come mai prima e mai dopo. Il secolo di rivoluzioni e repressioni, ma anche di appassionate lotte per l’uguaglianza e per i diritti, della nascita dell’industria, di uno straordinario fermento scientifico e culturale. Il secolo che ci ha reso ciò che siamo.
Maestoso. Il diario di un secolo turbolento e confuso scritto con chiarezza e passo narrativo. I temi sociali, politici e culturali si intrecciano in un grande dipinto di straordinario fascino e dettaglio. Siamo di fronte a un esempio eccelso di storia di un continente attraverso i suoi paesi.
“The Times”
Il secolo che va dalla battaglia di Waterloo allo scoppio della Prima guerra mondiale è stato una fase decisiva per la storia del mondo. In questi cento anni l’Europa ha allargato il proprio dominio a tutto il pianeta e ha tracciato un solco al cui interno ancora ci muoviamo: dalla nascita della civiltà industriale alla volontà di controllo sulla natura, dalle lotte dei lavoratori a quelle delle donne, dalle sfide degli artisti alle accademie sino alle rivolte dei servi contro i padroni. Questo affresco affascinante ci raccontal’Europa del XIX secolo, intrecciando storia politica, economica e culturale, a partire dai rapporti di forza interni ed esterni al continente. Particolare attenzione è dedicata alla ricostruzione della dimensione umana di questa storia, per cui ogni capitolo si apre con la vita di una persona, ognuna di un paese europeo diverso.
«Verso l’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento, lo scalpellino Jakob Walter si mise a scrivere le sue memorie. Era stato un soldato semplice nella Grande Armée dell’imperatore Napoleone Bonaparte, arrivando fino a Mosca. Dell’unica occasione in cui vide Napoleone scrive: “Osservava passare il suo esercito, che era in condizioni disastrose. Impossibile immaginare cosa provasse. Il suo aspetto esteriore sembrava indifferente riguardo al miserabile stato dei suoi soldati; solo l’ambizione poteva fare effetto sul suo cuore.”».
La Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la 'zona grigia'. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l'ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese. I due anni che vanno dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 rappresentano un momento cruciale della storia d'Italia. Sono gli anni della guerra mondiale, con le truppe straniere che occupano la penisola. Sono gli anni della guerra civile, con lo scontro tra italiani di diverso orientamento. Sono gli anni della guerra di liberazione, in cui si combatte contro il nazifascismo per far nascere un paese democratico e libero. È il 'tempo delle scelte' per una società italiana schiacciata sotto il tallone nazista e fascista. Una nazione divisa politicamente, militarmente e moralmente all'interno di un'Europa in fiamme. Per fare i conti con la storia della Resistenza italiana, il libro ripercorre le varie fasi delle diverse Resistenze: dalle specificità della guerriglia urbana all'attestamento nelle regioni di montagna. Affianca alla lotta armata le varie forme di supporto fornito ai 'banditi' dalle popolazioni e la conflittualità interpartigiana, si addentra nella cosiddetta 'zona grigia', evidenzia la peculiarità delle deportazioni politiche e razziali. Una ricostruzione nuova, originale, vivida, in cui lo sguardo d'insieme si alterna costantemente con l'attenzione a vicende personali e collettive poco conosciute o inedite. Un libro necessario oggi, quando il venir meno degli ultimi testimoni diretti di queste vicende lascia sempre più spazio a un uso politico della Resistenza che deforma e rimuove i fatti, le fonti e la storia.
Tra il 1934 e il 1944, Hitler e Mussolini si incontrarono diverse volte in Germania e in Italia. Questi eventi vennero celebrati dalla propaganda di entrambi i regimi come tappe nodali mentre la stampa internazionale li osservò con enorme attenzione, contribuendo a diffonderne il sinistro fascino in tutto il mondo. Nonostante il loro clamore e il loro enorme peso, in genere gli storici hanno dedicato poca attenzione alla relazione diretta tra i due dittatori, concentrandosi spesso su aspetti più specifici e legati alla dimensione nazionale. In realtà, questa relazione fu tesa, complessa ed esercitò un fortissimo peso nella diplomazia internazionale, nella preparazione della guerra e nelle decisioni strategiche dei due paesi. Spesso anche ben al di là delle reali intenzioni del Duce e del Führer. Fu, dunque, la relazione tra due uomini, due dittatori, a cambiare il corso della storia europea del XX secolo. Le pagine di questo libro la raccontano nei suoi aspetti più intimi e finora trascurati e lo fa in un momento in cui i timori e le preoccupazioni sulla gestione dei rapporti tra paesi tornano prepotentemente sulla scena pubblica.
Con questa biografia Luciano Canfora si libera da ogni operazione agiografica e indaga quel complesso personaggio che fu Concetto Marchesi, un grande intellettuale italiano, libertario e socialista. L’agiografia su Marchesi ha voluto fare di lui una sorta di sito geologico attraverso la cui stratigrafia ripercorrere l’intera vicenda del movimento socialistico italiano: dai fasci siciliani al PCI resistenziale e poi togliattiano. Marchesi, in altre parole, ha avuto due vite: quella vera di uomo di genio, con la sua grandezza, le sue debolezze, le sue zone d’ombra, il suo fiuto politico talora lungimirante, il suo caratteriale individualismo; e quella del mito postumo – alla cui costruzione, per certi versi, egli stesso non fu estraneo – creato dal ‘Partito’. Uomo complesso, nella sua lunga militanza in tempi di ferro e fuoco, si convinse della necessità di un forte potere personale come unica soluzione del problema politico. L’esperienza che segnò tutta la sua vita fu la resa e poi l’adesione della maggioranza degli Italiani al fascismo. Unico esponente dell’alta cultura italiana legato notoriamente al disciolto, ma mai domato, Partito comunista, Marchesi convisse infatti col fascismo nella difficile posizione dell’oppositore ‘dormiente’ e probabilmente entrista – e cioè, infiltrato nel partito fascista con l’obiettivo di modificarlo dall’interno. Intanto maturava in lui – antifascista comunista – l’opzione, verso cui si orientò anche Antonio Gramsci, per il «cesarismo progressivo», incarnato ai suoi occhi dal potere staliniano. Il continuo rifacimento della sua Letteratura latina è lo specchio di questo suo cammino politico. A sciogliere ogni suo dubbio valse la vicenda della riscossa della Russia contro l’invasione hitleriana. Con la caduta di Mussolini, ogni entrismo sembrava ormai da archiviare, ma così non fu. Per lui, Rettore a Padova sotto il tallone tedesco, ben presto ci furono la fuga e l’esilio. Dalla Svizzera, crocevia dei servizi segreti delle potenze in guerra, egli costituì il perno della rete che aiutava militarmente la lotta partigiana. Fu la sua stagione più esaltante, la «poesia della sua vita», come egli stesso scrisse. Alla prospettiva espressa nel suo celebre scritto Stalin liberatore, rimase ancorato fino al 1956, allorché, nella crisi generale del movimento comunista, si schierò con durezza contro gli apostati e i fuggiaschi. Ma intuì la crisi del sistema. E si decise a optare per il ritiro dalla vita politica: non poté praticarlo perché improvvisamente morì.
Il brigantaggio fu l'eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo o la sfida allo Stato di bande criminali? La guerra per il Mezzogiorno concluse la crisi del Regno delle Due Sicilie, determinò il successo dell'unificazione italiana e marcò la complicata partecipazione del Mezzogiorno alla nazione risorgimentale. Iniziò nel settembre del 1860, dopo il successo della rivoluzione unitaria e garibaldina, e si protrasse per un decennio, mobilitando re e generali, politici e vescovi, soldati e briganti, intellettuali e artisti. Non fu uno scontro locale, perché coinvolse attori politici e militari di tutta la penisola e d'Europa, ma non fu neppure una guerra tradizionale: i briganti, le truppe regolari italiane, i volontari meridionali si sfidarono nelle valli e nelle montagne in una guerriglia sanguinosa, del tutto priva dei fasti risorgimentali. Si mescolarono la competizione politico-ideologica tra il movimento nazionale italiano e l'autonomismo borbonico; l'antico conflitto civile tra liberalismo costituzionale e assolutismo; la lotta intestina tra gruppi di potere, fazioni locali, interessi sociali che avevano frammentato le città e le campagne meridionali. Questo libro, per la novità di materiali e documenti usati e per la vastità delle ricerche compiute, offre una prospettiva sulla guerra di brigantaggio che innova interpretazioni fino a oggi date per acquisite.
In principio c'era solo la natura, con le sue leggi severe e ineluttabili. C'era solo la lotta per la sopravvivenza destinata a premiare i più forti e i più spietati. Per questo gli uomini hanno onorato e ossequiato alberi e torrenti, si sono nutriti e hanno combattuto come ogni altro animale. La cultura non era altro che la semplice trascrizione della natura, la difesa del suo unico ordine e del suo codice. Lo snaturamento dell'uomo avviene, secondo l'ideologia nazista, con 1'insediamento dei semiti in Grecia, quando l'evangelizzazione introduce in Occidente il giudeo-cristianesimo. Un traviamento completato dalla Rivoluzione francese con le sue costruzioni ideologiche umanistiche e anti-naturali (uguaglianza, compassione, astrazione della legge). Per salvare la razza nordico-germanica, nell'ottica nazista, era dunque necessario operare una vera e propria `rivoluzione culturale' che ristabilisse il modo di essere degli antichi e facesse di nuovo coincidere cultura e natura. Una battaglia che imponeva all'uomo germanico di rifondare la legge e la morale per rendere lecito e addirittura un diritto sopraffare e uccidere. Con questo libro Johann Chapoutot, uno dei maggiori storici francesi, porta alla luce le forme attraverso le quali i nazisti hanno progettato una completa riscrittura della storia dell'Occidente e il modo in cui queste idee sono state attuate dai criminali nazisti.
Sebbene Alleati e Resistenza romana avessero gli stessi nemici, combatterono due guerre quasi parallele con scarsi punti di contatto. La loro distanza è ben rappresentata dai modi diversi con cui designarono il fine immediato che volevano conseguire: la 'caduta della prima capitale dell'Asse' per gli Alleati, la 'liberazione di Roma' per le forze resistenziali. La presa della città per gli angloamericani fu solo un momento saliente del loro sforzo per impedire, a prezzo di altissime perdite, che si avverasse l'orrendo disegno hitleriano di un'Europa nazista, ed è in questa cornice che si può valutare il tentativo della Resistenza romana di enfatizzare, attraverso la lotta armata in città, l'esistenza di un'Italia antifascista pronta a battersi per concorrere alla propria liberazione. Un tentativo quasi eroico a fronte di una popolazione che per la maggior parte odiava quasi in egual misura tedeschi e fascisti, Alleati e partigiani, come portatori di una guerra di cui non si sentiva responsabile. Questo libro, sulla base di un'ampia documentazione di fonti archivistiche, ripercorre in una visione d' insieme, con le vicende belliche, i fatti - e gli episodi controversi - relativi alla storia di Roma nei nove mesi dell'occupazione tedesca.
Quando l’Europa iniziò la sua esplorazione del Vicino Oriente, le notizie riguardanti quest’area erano sommarie e spesso facevano riferimento a un passato leggendario e mitico. In particolare, due miti ne avevano simboleggiato il paesaggio: la ‘Torre di Babele’ come metafora per la città e il ‘Giardino dell’Eden’ come metafora per la campagna. Entrambi erano caratterizzati da un elemento di crisi e di collasso: la torre di Babele era rimasta incompiuta e abbandonata, il giardino dell’Eden era stato chiuso all’uomo, costretto a migrare verso ambienti meno ospitali. Invece di città, i primi viaggiatori nel Vicino Oriente trovarono rovine, e invece di giardini trovarono il deserto. Col progredire dell’indagine storica e archeologica, le informazioni sulle antiche città (da Ninive a Babilonia) crebbero, mentre le informazioni sulle campagne rimasero scarse e quasi nulle. La storia orientale antica divenne una questione di re e dinastie, di città e palazzi, di scribi e artigiani e mercanti. Si sapeva che la stragrande maggioranza della popolazione antica era costituita da contadini e pastori, ma la ricostruzione della loro vita e del loro ambiente venne a lungo esclusa dal quadro. Oggi le condizioni sono cambiate. Possiamo provare, per la prima volta, a dare un volto al ‘giardino dell’Eden’, a quel paesaggio in cui è germinata alcuni millenni fa la nostra civiltà.
«Città di passione»: con queste parole Gabriele D'Annunzio battezza Fiume nel primo dopoguerra, imponendola all'attenzione internazionale assieme al mito della 'vittoria mutilata'. Altre e più tragiche passioni si scatenano nel secondo dopoguerra. Questa volta nel silenzio e nella distrazione della patria ferita, molti dei fiumani devono prendere la via dell'esilio. Il guscio della città però rimane in piedi e Fiume condivide il suo destino con le altre 'città cambiate', Salonicco, Smirne, Königsberg: le città poste lungo quei confini attorno ai quali si sono accesi i maggiori conflitti europei del XX secolo. Parlare di Fiume vuol dire tuffarsi nel vortice della 'grande semplificazione' che ha travolto l'Europa centro-orientale. Vuol dire anche parlare delle storie accadute tra le pieghe di quelle più appariscenti: accanto alla vicenda di un fiero municipalismo che cerca di resistere al trionfo degli stati-nazione, c'è la storia di una grande illusione. Quella di un piccolo nucleo di operai e intellettuali italiani che, in epoca di guerra fredda, lasciano la madrepatria per edificare il socialismo in una Fiume diventata jugoslava. Ma non vi è lieto fine. Raoul Pupo, raccontandoci la storia di una città-simbolo del '900, ci accompagna attraverso le inquiete transizioni europee del secolo scorso.
Un'epoca di sconvolgimento spirituale e culturale che travolse tutti, principi e contadini. Cinquecento anni fa la sfida di Martin Lutero all'autorità della Chiesa costrinse i cristiani a riesaminare i propri convincimenti e scosse i fondamenti della loro religione. Lo scisma successivo, incoraggiato da rivalità dinastiche e cambiamenti nell'arte della guerra, trasformò in modo radicale la relazione tra governante e governato. Le scoperte geografiche e scientifiche misero alla prova l'unità della cristianità come comunità di pensiero. L'Europa, con tutte le sue divisioni, emerse allora piuttosto come una proiezione geografica. Una proiezione riflessa nello specchio dell'America e rifratta dalla scomparsa delle Crociate e dalle ambigue relazioni con il mondo islamico e gli ottomani. Raccontando questi mutamenti drammatici, Tommaso Moro, Ludovico Ariosto, William Shakespeare, Michel de Montaigne e Miguel de Cervantes crearono opere che ancora oggi riescono a restituirci i turbamenti del loro tempo e che continuano a influenzarci. Un affresco che indaga le radici dell'eredità europea.
Da cent'anni la disfatta di Caporetto suscita le stesse domande: fu colpa di Cadorna, di Capello, di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l'esercito italiano si rivelò all'improvviso così fragile? L'Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell'esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti - contadini o operai - che avevano imparato il mestiere sul campo. Era un esercito in cui nessuno voleva prendersi delle responsabilità, e in cui si aveva paura dell'iniziativa individuale, tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza ordini. Un paese retto da una classe dirigente di parolai aveva prodotto generali capaci di emanare circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto così tutti i problemi. In questo libro Alessandro Barbero ci offre una nuova ricostruzione della battaglia e il racconto appassionante di un fatto storico che ancora ci interroga sul nostro essere una nazione.
Nel 1933 viene lanciato nei cinema USA I tre porcellini di Walt Disney. Questo piccolo avvenimento segna l'inizio della parabola della cultura mainstream promossa dai film delle majors hollywoodiane, raccolta e amplificata dalla radio e dalla tv. Questo tipo di cultura, basata su un'idea consolatoria dell'intrattenimento, fondata su una visione manichea del bene contro il male e sul must del lieto fine, prende forma allora e mette radici nell'immaginario collettivo dell'Occidente. Basti pensare a film come Via col vento, Il mago di Oz e Gli uomini preferiscono le bionde, o a fumetti come Tarzan, Dick Tracy o i supereroi. Dopo la seconda guerra mondiale si assiste invece alla nascita e al successo di una controcultura di massa, animata - sin dai primi anni Sessanta - soprattutto dalla formazione e dal successo della musica rock. Bob Dylan, Beatles, Pink Floyd intrecciano i loro rapporti con il coevo 'nuovo cinema' di Hollywood, da Easy Rider a II laureato, fino alla nuova produzione teatrale di Broadway e alle nuove forme della programmazione televisiva. Una cultura alternativa, con al centro gli afroamericani, i ragazzi e le ragazze delle subculture giovanili, i militanti per i diritti civili. Questa costellazione potente si dissolve a partire dalla metà degli anni Settanta permettendo alla cultura di massa mainstream di rinnovare la sua egemonia, ancora oggi evidente.
L'11 novembre del 1918 segna un momento decisivo della storia d'Europa: la fine di una guerra che aveva distrutto un'intera generazione e l'estinzione di grandi imperi secolari. Ma quale è stata l'eredità che ci ha lasciato la Prima guerra mondiale? Per molti aspetti il futuro dell'Europa non è stato condizionato tanto dai combattimenti sul fronte occidentale quanto dalla devastante scia di eventi che seguirono la fine del conflitto mondiale quando paesi di entrambi gli schieramenti vennero travolti da rivoluzioni, pogrom, deportazioni di massa e nuovi cruenti scontri militari. Se nella maggior parte dei casi la Grande guerra era stata una lotta fra truppe regolari che combattevano sotto la bandiera dei rispettivi Stati, i protagonisti di questi nuovi conflitti furono soprattutto civili e membri di formazioni paramilitari. La nuova esplosione di violenza provocò la morte di milioni di persone in tutta l'Europa centrale, meridionale e sud-orientale, e questo ancor prima che nascessero l'Unione Sovietica e una serie di nuovi e instabili staterelli. Ovunque c'erano persone animate da un desiderio di rivalsa, disposte a uccidere per placare un tormentoso senso di ingiustizia, e in cerca dell'opportunità di vendicarsi contro nemici reali o immaginari. Un decennio più tardi, l'avvento del Terzo Reich in Germania e l'affermazione di altri Stati totalitari fornirono loro l'occasione che tanto avevano atteso.
Un impero è una formazione politico-territoriale che si assegna lo scopo di allargare incessantemente la propria frontiera, di assoggettare (per conquista diretta o per controllo indiretto) il resto del mondo, fino a far coincidere la propria estensione con quella dell'ecumene tutto. La sua 'missione' è un progetto ideale che si fonda su una teoria politica (quando non teologica) e si articola in principi ideali. Questi variano nel tempo, oscillando soprattutto tra il fondamento religioso e quello civile. Mario Liverani, uno dei maggiori studiosi del Vicino Oriente antico, rivoluziona la storia dell'antica Assiria, mostrando come qui siano emersi per la prima volta alcuni dei tratti caratteristici comuni a tutti gli imperi comparsi nella storia del mondo. Da Roma a Bisanzio, dall'impero britannico all'egemonia USA: il dominio con ogni mezzo disponibile per ricavarne vantaggi, la colpevolizzazione del nemico, l'attribuzione di una valenza universale alla propria missione hanno sempre accompagnato la vita di ogni impero.
Siamo nel pieno della guerra del Peloponneso. Atene rischia la sconfitta. La tensione è altissima: il partito aristocratico vuole accordarsi a qualunque prezzo con Sparta e adottare il modello politico dei vincitori. I democratici vogliono resistere fino alla fine e salvare la costituzione. Cleofonte è il leader della parte democratica ed è l'uomo da abbattere. In questo tumultuoso quadro politico, un ruolo fondamentale lo giocano i drammaturghi. Alcuni di loro intrattengono un rapporto stretto con i gruppi di pressione decisi a scalzare il regime democratico. La commedia si fa, cosi, interprete della 'maggioranza silenziosa', quella che non va all'assemblea popolare, e la sobilla contro i suoi capi presentandoli come mostruosi demagoghi. Aristofane, il commediografo, si fa agitatore politico. La sua grande abilità consiste nel presentarsi come il difensore del popolo agendo, in realtà, per conto di chi intende distruggere il potere popolare. Nella commedia intitolata "Rane" getta la maschera, chiede e auspica la condanna di Cleofonte, accanito oppositore del potere oligarchico; rompendo la finzione scenica fa un vero e proprio comizio, e parla, questa volta apertamente, della bruciante attualità politica.
L'omicidio di un operaio comunista avvenuto nella notte tra il 9 e il 10 agosto 1932 a Potempa, in Slesia, significa l'assassinio di Weimar? Non esageriamo: non fu certo l'unico delitto di quegli anni. La storia della Repubblica di Weimar è segnata da centinaia e centinaia di omicidi. Forse per assassinio di Weimar s'intende quello di una repubblica? Ci verrà ribattuto che vi sono molte altre date possibili per identificarne la fine: prima fra tutte il 30 gennaio 1933, il giorno in cui Hitler assunse la funzione di capo del governo. Che cosa avrebbe, allora, l'omicidio di un modesto operaio comunista avvenuto nella provincia più profonda e periferica, per poter competere con l'evento per eccellenza, con i suoi flash, le edizioni straordinarie e le sfilate alla luce delle fiaccole, vale a dire l'ascesa di Adolf Hitler alla cancelleria? Di fatto questo assassinio alimentò la cronaca giudiziaria e il dibattito politico: se ne parlò, molto, e non immotivatamente. Questo semplice atto di violenza fu percepito come un evento e lo storico può leggervi, sotto la superficie, le correnti profonde di molte storie.