"C'è un'aria tesa, di rischio. La poesia qui non è dopo, non è al riparo. È nel vivo della questione. È nell'oscurità chiara del vivente e del senso che non si spiega ma si presenta. Ci sono poeti che puoi sforzarti di seguire, e altri che devi seguire quasi come un cieco. Accettando la cecità che dapprima ti impongono. Chiuchiù è di questa seconda razza. Il suo nome stesso è un misterioso richiamo, come Pascoli volle fermare in suoi versi. Un visionario come lui sospeso tra il sempre morire e il lampo della verità. Questo libro non è addomesticabile. Non finirete dicendo: 'interessante'. Perché prende alla gola, e avvicina una fiaccola alle pupille. E vede se siete ancora vivi". (Davide Rondoni)
"Segnalatami da un narratore conterraneo, Vincenzo Gambardella, la voce di Antonio Trucillo è arrivata con la sua densità e visione a rendere giustizia alla poesia. Ovvero a farla precipitare tra scantinati, abissi, tra presenze vitali incise nella memoria e nella luce, e altri fantasmi.[...] Poesia dunque tirata giù da ogni scaffale letterario e da ogni scansia del lirismo a basso costo, e data in pasto o meglio fatta diventare respiro e frammento luminoso estratti dal rovinoso procedere delle cose, dei corpi, delle menti verso una gloria strana, inafferrabile ma tenace. Un poeta capace di scarto e di visione. Una voce che si incide nella vita che, come direbbe il lontano e vicinissimo Rebora, "urge" intorno". (Davide Rondoni)
Margherita Guidacci è uno dei tesori della poesia italiana. Poche voci come la sua hanno viaggiato così in vastità e profondità. poetessa fine e vigorosa, traduttrice e lettrice di grande ascolto, non riceve di solito dagli estensori di schedari e antologie il rilievo che merita. Non ha dalla sua nemmeno l'aura di esotismo o di follia che è servita ad altre poetesse per essere notate, e spesso fraintese. Eppure Margherita - libera da ogni schema e classifica - ritorna sempre, si presenta puntuale all'appuntamento con gli amanti veri della poesia, e a che cerca il senso del proprio viaggio nelle parole dei poeti. La sua opera è attenta ad ascoltare i movimenti del profondo della persona e dell'epoca, affiancandosi a quelle dei maggiori del nostro tempo, tra cui i suoi amati Emily Dickinson e T.S.Eliot.
Qui se ne offre una significativa antologia. Il lettore potrà ricavare i lampi e le ombre di una coscienza attenta, inquieta e interessata a cogliere le tracce della speranza. E troverà la durevole bellezza di una scrittrice di pregio che, una volta incontrata, non abbandona.
Davide Rondoni
Margherita Guidacci (Firenze, 1921 - Roma, 1992) è stata una grande voce poetica mai allineata alle mode del tempo, intensamente religiosa e libera, di intrepida sincerità, rigorosa e appartata presenza del Novecento italiano ed europeo. Agli inizi vicina soprattutto ai metafisici barocchi inglesi, a Eliot e alla Dickinson, di cui fu appassionata traduttrice e studiosa, come poi di molti altri autori. Le sue principali raccolte sono La sabbia e l'Angelo (1946), Neurosuite (1970), Inno alla gioia (1983) e Il buio e lo splendore.
La poesia di Federico Italiano tenta le vie di una possibile epica per il nuovo millennio. Senza ridursi alle scarne e spesso vanitose registrazioni dell'esistente, e senza restare arrampicata ai modelli poetici centrali del Novecento anche italiano, la voce di questo poeta alterna, con misteriosa grazia e libertà, fraseggi narrativi a fendenti lirici. Il che costruisce, in virtù di un buonissimo orecchio interiore e mosaico, allenato sul battere di lingue diversissime e pur a molti livelli intrecciate, come la nostra e la tedesca, un corpo di poesia capace di sostenere racconti dal respiro minimo o di ere. Reagiscono, dunque, e fan scintille (dolorose scintille, a volte) il tempo grande e il tempo spicciolo. Ci viene incontro il racconto di qualcosa, dell'evento segreto o manifesto che riguarda tutti e che il poeta per tutti prova a fissare; o che riguarda solo lui, e però nello sguardo del poeta, nel suo fissarlo, si manifesta "per tutti". Nessuna divisione possibile, nessuna cucitura entro schemi tranquilli. La poesia di Italiano si muove seguendo un richiamo, incomprensibile a orecchi che non siano come i suoi allenati all'ultrasuono, è la fuga dalla rovina, la possibile letizia. (Davide Rondoni)
Un libro di spudorata bellezza, fatto di poesie "timide e scalze", che non seguono la critica alla moda e non sono pagate dai dollari del Nobel. Twardowski è riconosciuto nome di punta se pur meno noto (poichè la notorietà non era nei suoi interessi) della migliore poesia polacca, e quindi tra le migliori del mondo se consideriamo la fila che di là viene di poeti altissimi, da Herbert a Milosz, dalla Hartwig alla Szymborska. Le sue poesie hanno una forza prodigiosa e chiara. Sia che presentino un colloquio con le creature della natura, sia che sottointendano i tanti drammi normali di tutti noi a riguardo dell'amore, della morte, e delle domande che agitano i cuori umani, queste poesie vivono di una grazia violentissima e gentile. Esatte nelle loro illuminazioni straordinarie, a cui l'ironia da a tratti i bagliori di uno splendore feriale, le poesie di Twardowski si sono affermate come punto di riferimento per tanti lettori e gente comune. La sua fede bambina e potente, semplice e sensibilissima alle sfumature della vita, non è innanzitutto un tema, ma l'aria in cui vibra una voce carica di umanità e simpatia per la condizione di tutti noi. Così che questo libretto diviene quel che la poesia rivela d'essere quando è veramente grande: un dono inaspettato e preziono
Canzoniere di luce e di dolore, questo libro di Serricchio è il dono di una voce di acclarato calore nel campo della poesia italiana. Voce piena di pudore e forza, che accoglie l'esperienza della luce - quella abbagliante del sud e quella che è per l'anima - e l'esperienza del dolore e le ridona a noi che leggiamo in modo che dove c'è l'una non manca l'altro, e viceversa. Perché il miracolo della voce di un poeta è la presenza contemporanea di luce e pena, di carcere e di sole, nel segreto delle parole e della visione da cui nascono. La parola con due lingue di Serricchio in queste pagine, specialmente in quelle dedicate alla donna amata, trovano una misura che si può definire classica ma mai inerte, anzi tutta viva di emozione e di capacità di scoperta. Voce e andamento antichi e sempre nuovi della poesia. La personalità di questo poeta e il dono della sua voce sono tra le conferme del legame che sempre corre tra stoffa della vita e destino d'arte. In questo libro ricco e bellissimo, Serricchio ci fa sentire la unicità della sua terra, dei volti, dei suoni, delle visioni tra cielo e mare, e di una lunga storia d'amore. E anche l'universale parola della solitudine di un uomo che, commosso, apre le braccia al mistero dell'esistenza.
Non è di certo un esercizio quello di Giardinazzo. E se pur non mancano i momenti di grande virtuosismo e di spericolata orchestrazione di temi e riferimenti, mai viene meno in questo saggio la partecipazione accorata dello studioso. Insomma, per dirla in un niente: qui l'autore si sta giocando l'anima. Sta ricapitolando alcuni dei motivi che gli hanno fatto muovere i primi passi nella poesia. E sta mettendo a verifica tutta intera la sua percezione di quel che si chiama letteratura. Infatti, nello studiare i confini o quelli che tali si presumono tra i fenomeni accade di ricomprendere, di riconoscerli diversamente. E qui, il calabor-etiope corridore sta guardando e sta aiutandoci a guardare con occhi rinnovati l'esistenza stessa della poesia e del narrare, e del loro deposito storico-critico che chiamiamo letteratura. Sono occhi pieni di un vento antico. Nulla è meno rispettoso del fenomeno della canzone che il circoscriverne le radici in una provincialissima modernità, senza avere il coraggio (e l'erudizione) di guardarlo entro il grandioso affresco della storia del fenomeno poetico-lirico e nella prospettiva fatta di ombre e di splendori remoti di ciò che precede sempre la storia.
Dalla prefazione di Davide Rondoni
GLI AUTORI
Francesco Giardinazzo è docente di “Teoria e analisi del testo letterario” presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, Università di Bologna; inoltre insegna presso il Centro Internazionale della Canzone di Bologna.
Tra le pubblicazioni, si rammentano: Lirici greci. Traduzioni. (Firenze, 1992); D’Annunzio 1895. Un viaggio in Grecia (Firenze 1996; Firenze 2005); Cercare il volume. Saggi danteschi (Rimini, 1998); La voce e il vento. Variazioni su L’infinito di Leopardi (Firenze, 2001); La trama e l’arazzo. Maestri della cultura europea fra presente e passato (Ferrara, 2003); Il gesto di Hermes. L’ermeneutica, i classici, la modernità letteraria (Bologna, 2007).
Oltre a occuparsi di letteratura, filosofia, analisi stilistica e traduzione, ermeneutica testuale, storia del teatro, i suoi interessi si muovono in direzione dello studio dell’esperienza musicale nel suo rapporto con le altre forme di espressione artistica.
Alberto Cappi è da sempre legato ad una laboriosa esperienza della poesia come "scrittura". Come gesto, insomma, in cui il silenzio e le infinite possibilità della lingua danno vita a qualcosa di misterioso. Aprendo spazi di incontro e di conversazione profonda. La poesia come affioramento delle parole e contemporaneo inabissamento nelle avventure del significato. Pochi come lui in Italia hanno tanto viaggiato nell'esperienza dello scrivere, anche attraverso i territori del lavoro sui testi altrui, con traduzioni, scelte antologiche ed esercizio critico. In questa raccolta, dove a mio avviso spira un'aria più estrema, e se possibile brucia una concentrazione al tempo stesso più furiosa e però più abbandonata delle precedenti, troviamo il poeta impegnato nel suo decisivo corpo a corpo: con il tempo. E troviamo le figure, le presenze familiari o lontane, le icone e i fantasmi che si accalcano a un tale appassionato, suo e nostro apertissimo ring.
Poesie che nascono da una dolce ossessione, da un dialogo, da una specie di follia. Claudio Damiani è uno dei più importanti poeti italiani e qui compie un gesto rischioso e forte. E compie, al tempo stesso, il gesto alto e umile della grande poesia: metter la propria voce a disposizione di altre voci, di altri uomini. Affascinato fin da ragazzo dalla poesia cinese incontrata sulla traduzione del sinologo Martin Benedikter, il poeta romano ha sentito crescere in questi decenni la forza di quella letteratura così remota e pur consona a certi classici della nostra latinità. Così queste pagine, che colgono in testi stupefatti e profondi gli elementi minimi e vitali dell'esistenza, ci giungono come frutto speciale di un dialogo naturale tra ere e uomini, tra cuori antichi e contemporanei. Una prova d'autore, nel senso più duraturo del termine, meno legata all'enfasi individualistica della firma e ricca invece della personale scoperta delle dimensioni del tempo.
Davide Rondoni
«Ho amato la poesia cinese come qualcosa che mi spingeva oltre il mio tempo, in un futuro antico che m’appariva come un sogno, che m’avvicinava i giganti della poesia cinese (Po chu-i, Li Po, Tu Fu) ai calmi, sereni giganti dell’elegia latina ( Properzio, Catullo, Tibullo). Ho visto nella poesia cinese una poesia della terra, perfettamente oggettiva, senza il bisogno di nessuna metafora. Grande poesia della terra, della sua calma, della sua gloria».
Dalla premessa dell’autore
GLI AUTORI
CLAUDIO DAMIANI è nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo da padre toscano dell'isola d'Elba e da madre romana. Vive a Roma dall'infanzia. Ha pubblicato le raccolte poetiche Fraturno (1987), La mia casa (Firenze, 1994, Premio Dario Bellezza), La miniera (Roma 1997, Premio Metauro), Eroi (Roma, 2000, Premio Aleramo, Premio Montale, Premio Frascati), e Attorno al fuoco (Roma, 2006, finalista Premio Viareggio, Premio Mario Luzi, Premio Violani Landi, Premio Unione Scrittori). Sue poesie sono apparse su varie antologie italiane e straniere. Ha curato i volumi: Almanacco di Primavera. Arte e poesia (1992); Orazio, Arte poetica, con interventi di autori contemporanei (Roma, 1995); Le più belle poesie di Trilussa (Milano, 2000). È stato tra i fondatori della rivista letteraria “Braci” (1980-84). Collabora con vari giornali tra cui la cronaca di Roma di "Repubblica".
Un libro che parla di cartoni animati e di miti antichi, di amore e di Dio, di esaltanti minuzie e di grandiosi segreti. Insomma di poesia. In questo libro il colloquio procede gentile, e sprofondando. Oppure mostrando improvvisamente rupi e vaste mareggiate. Provocato, e a volte sapientemente braccato da Marco Dell'Oro, Roberto Mussapi attinge alle cavità e agli incanti da cui nasce la sua poesia per trarre materia di riflessione e di acquisizione. Tessendo con fili a volte sorprendenti i legami tra millenario lavoro dei poeti e le questioni attualissime del vivere e della cultura. Legando, con percorsi mai scontati, le grandi domande sul sacro e le scoperte e le inquietudini dell'uomo contemporaneo. Così entriamo in un colloquio che qui si realizza tra il poeta e l'osservatore, i cui frammenti però vivono e urgono intorno a noi. Ancora una volta i poeti parlano autenticamente di quanto nella nostra vita vorrebbe aver più voce, meno dispersa. A ciò che segretamente splende. Davide Rondoni
La poesia è sempre e comunque interrogante. Il poeta, cioè, non è l’uomo dalla risposta pronta, che allunga il braccio e indica la via, ma un delirante ricercatore. Qualcosa tra Lancillotto e Falstaff, tra Giobbe e Lord Jim. Il libro di Davide Brullo fa così, ci mette nel mezzo di un cerchio rimandandoci, quasi biblicamente, le stesse ossessive domande dacché l’uomo è uomo. Chi siamo? Dove andiamo? Da dove siamo venuti? Qual è il nostro compito su questa terra, in questo vento di vita? Dove sono posti i confini tra il bene e il male? E lo fa con una lingua che attinge dal Testo Sacro, per tratti scabra, presuntuosa e percotente, in perpetuo scavo. In cui si parla di un mondo arcaico ma anche postatomico, come se in un palmo di mano si radunassero millenni. Leopardiano in questo senso, Brullo. Ma soprattutto, inciso, sì, un libro che è come un colpo di scalpello su una roccia destinata a conservare ciò che è stato del mondo.
GLI AUTORI
Davide Brullo (1979) legge il Vecchio Testamento, di cui ha tradotto Il libro della Sapienza (Medusa, 2006) e alcuni profeti minori in Scanni (Raffelli, 2003). Ha pubblicato due consecutivi libri in versi, Annali (Edizioni Atelier, 2004) e Annali. Lustro (Mimesis, 2006), e un’antologia di poeti moderni “fuori dai canoni”, Maledetti italiani (Il Saggiatore, 2007).
La voce del poeta si riconosce, tra l’altro, perché crea uno spazio speciale. Ogni voce autentica ci rende presente il mondo in una luce particolare, sotto le volte di un’architettura nuova. Non si confonda l’esiguità del dettato di Roberta Castoldi con una delle tante forme di gioco al ribasso, di esercizietto che oggi vengono spesso scambiate per poesia. No, qui siamo di fronte a un’asciuttezza architettonica, a un misuratissimo, e perciò concentrato e dispendioso lavoro di disposizione dello spazio, come di sé nel destino. Una radicale riscoperta del mondo. Non è minimalismo la gentile e a volte tagliente attenzione della Castoldi ai particolari del vivere, ai fotogrammi di esistenza o ai movimenti segretissimi. Piuttosto, secondo la lezione di alcuni autori – come l’amato Ponge, ma senza la sua disincarnata beatitudine – l’avventura di scoprire quali orizzonti interi, quali visioni o quali improvvise epifanie si aprano nella percezione drammatica dei dettagli dei giorni. Sospesi come sono, in lotta come sono tra il prevalere del bianco di assenze immedicabili o di conversazioni che accedono alla sorpresa dell’amore e la custodiscono. Una poesia di trauma e pazienza, che ci dona una sfida anche stilistica tra le più originali del momento, tra le più concentrate e libere. (Davide Rondoni)
«C'è uno spaesamento. Voglio dire: c'è da restare un poco esterrefatti davanti a questa prova di Paolo Valesio. Una febbrile intelligenza, una acerba religiosità, insomma una strana giovinezza percorre questi testi che pur sono, a tratti, anche l'impietoso e implorante resoconto di una esistenza già di molte cose esperta. La poesia di Valesio, lasciate le molte forme di riflessione che in precedenza la animavano e talvolta la chiudevano, qui accetta una sfida. Nel farsi dardo, giaculatoria laica e però sfrontata nel dialogo con Dio, la poesia trova una quasi violenta libertà. Non intende né persuadere, né vellicare intelletti, né esibirsi in manfrine sentimentali. No, c'è una tensione, una fame, un dire ben sapendo che si può perdere tutto. E non solo perdere la considerazione dei letterati di professione o dei moralisti barbosi. Soprattutto perdere l'idea che si aveva finora di se stesso. La poesia così, nel farsi sonda delle dimensioni del mondo, vasto e quotidiano, è anche rivelatrice delle doglie in cui nasce una nuova personalità. Spettacolo inusuale, appunto, sommovente». (Davide Rondoni) Nota introduttiva di Alberto Bertoni
La fuga, il desiderio, un paesaggio instabile nel continuo voltarsi. L’universo che attraversa il tempo breve, la voce duplice che dice il buio della nascita, che cerca il respiro di una solitudine generosa: nella poesia di Mariarita Stefanini c’è l’attesa e c’è la speranza che ancora nasce dal dolore, l’urlo del vento che sfascia le case di carte da gioco. E c’è una parola che disegna partiture, che cerca la nota di un canto come continuo presente, un canto con gli occhi spalancati, senza ripari, di chi chiede l’estremo e l’istante.
Qui lampeggiano, nella foschia veneta e nel ricordo di molti viaggi, i frammenti di una vicenda personalissima. E però il mondo, le città, i tasselli luminescenti di una società tra deriva e desiderio, entrano, eccome, nella trama di pena individuale. Così il libro di Broggiato, fedele alle note lanciate dalle migliori voci della poesia novecentesca italiana e non solo, ci consegna da un lato il ritratto di un uomo che non ha pudore a dire “io” e a mettere in scena i suoi strappi, i pentimenti e le ferite, dall’altro una mappa del presente colto in alcune città emblematiche nei diversi angoli del mondo, e nel viaggio che le unisce. Non aspettatevi cose strane da Broggiato, ma seguite questa voce che azzarda con la sola nuda poesia a ricomprendere se stessi e le strade del mondo. C’è una volontà narrativa. Le favole antiche a cui ogni tanto ricorre Broggiato confermano che qui siamo via da una idea breve di lirica. Ma il verso misurato, le sapienti fratture del testo, il corpo slogato confermano che c’è della musica, la ricerca di una canzone, di una voce a cui consegnare i giorni, nelle foschie e nei silenzi in cui si vela il mondo, e si rivela. (Davide Rondoni)
Il libro si compone di una quarantina di testi, di media lunghezza o brevi, che si suppongono scritti da Vivien Leigh (1913-1967), celeberrima attrice teatrale e cinematografica (vinse due premi Oscar per le interpretazioni di Rossella O’Hara in "Via col vento" e di Blanche DuBois in "Un tram che si chiama desiderio"), nota altresì per essere stata la seconda moglie di Laurence Olivier.La cornice finzionale situa la composizione di questo diario poetico all’altezza dei primi anni ’60, tempo nel quale la Leigh, affetta da ricorrenti crisi maniaco-depressive nonché da una grave forma di tubercolosi, fu costretta a sottrarsi per lunghi periodi dalle scene, per ritirarsi nel buen retiro di Tickerage Mill, un’ampia tenuta nella campagna del Sussex.I tre tempi della raccolta scandiscono le tappe principali di un itinerario autoriflessivo che, una volta delineato il paesaggio esteriore - Tickerage Mill, appunto, e le sue propaggini - ed interiore che funge da scenario al dramma dell’attrice, affronta di petto i nuclei oscuri dell’amour fou, riletto nella prospettiva dolorosa dell’avvenuto distacco, e dell’incedere della follia, per sfociare in accenti di accorata meditazione sulla morte incombente e sul destino tragico.Il ricorso all’artificio dell’apocrifo, consente, fra l’altro, di accentuare l’orizzonte peculiare di interrogazione della voce poetante che in modi talvolta nascostamente iper, talvolta evidentemente anti-letterari, mette sempre di nuovo in dubbio la propria identità polimorfica e cangiante.
Libro intenso e inquieto, la raccolta di poesie un tempo disseminate, il canzoniere di al-Hallaj offre al lettore l’occasione per entrare nel difficle mondo della mistica sufi. L’autore fu un mistico martire, una personalità affascinante e strana. I tratti del suo rapporto con la Divinità richiamano in molti punti il Mistero che si era compiuto in Cristo. I versi sono una tensione estrema al vero, indicibile e nominato in Allah. Sono versi di una preghiera che si fa viaggio di conoscenza, offerta amorosa, chiamata al finale disegno della Unità. La forza poetica del testo, analogamente a quanto avviene per l’altro grande poeta mistico dell’Isalm, Jalal ad-din Rumi, sta nella ripetizione che è avvolgimento, nella durezza che è decisione, e nella documentazione scabra e alta di un rapporto personale con l’Altissimo. Un autore, dunque, la cui “autorevolezza” non consiste nella letteratura e nei suoi percorsi, ma nella forza esistenzale di una esperienza, accesa di una religiosità estrema e con una particolare e straziante dolcezza.
«Ecco un poeta "spudorato". Lauretano viene da quella terra di Romagna che sta tra Forlì e Santarcangelo, tra le chiarità di Melozzo e la passione di Cagnacci, tra la corsa delle colline e la vastità del mare. È un poeta che non ha pudore a toccare temi e modi che sembravano banditi, o almeno sconsigliati, in quello che lui stesso ha definito il regno del "poetically correct". Nella sua lingua piana e pur densa, dove la lezione dei dialettali romagnoli e dei grandi poeti russi del primo novecento si fondono, appaiono la figlia Agnese, la moglie ragazza Sabina, l'indignazione, l'eredità di fede, il lavorare quotidiano, i panorami non eccezionali. Ma appaiono - ed è qui la vera radice del coraggio spudorato -senza chiedere permesso alla letteratura, e vengono affidati alla poesia come a un gesto semplice e vitale perché essi hanno un valore positivo e infinito. È un gesto di memoria, di custodia. Questa poesia, a differenza di molta parte della letteratura che ci circonda, tiene a memoria l'inizio delle cose, della presenza delle persone in quanto segno del loro valore smisurato. L'inizio di una presenza, di una parola, di una persona, infatti, è il punto in cui sulla trama della storia preme l'eterno generante. Anche quando sono colte nella loro "fine" o nella loro "crisi", le cose della vita sono sempre inizi memorabili. Inserendosi dunque nel non vasto coro dei poeti che si sono concentrati sul mistero degli "inizi", da Rilke a Betocchi, da un certo Pascoli a Luzi, finalmente Lauretano aggiunge il suo timbro e il suo stile, e la sua potente umiltà». (Davide Rondoni)
Un ricco e struggente poemetto con il tema dell'innocenza e della storia. La storia di due bambini e del loro comune destino, le vicende di un Paese che muta la propria identità, offrono la materia di una voce poetica esposta sui drammi e sulle sorprese dell'esistenza personale e collettiva. Una voce personalissima e corale, un modo intenso e partecipe per entrare con la poesia nella viva vicenda dell'epoca.
GLI AUTORI
Alba Donati vive a Firenze. Oltre al libro di poesie che l'ha subito resa nota e riconosciuta dalla critica e da un gran numero di lettori (La repubblica contadina, City Lights 1998), ha pubblicato su diverse riviste e sulle migliori antologie di poesia italiana contemporanea. Ha al suo attivo numerosi saggi e interventi sulla poesia e sull'arte. Impegnata come professionista nell'ambito della comunicazione culturale e della promozione di attività artistiche, cura una rubrica di poesia sui quotidiani del Gruppo Il Carlino - La Nazione ed è stata di recente editor, insieme a Paolo Jacuzzi, di un "Dizionario della libertà", composto da ventinove grandi scrittori italiani e stranieri.
Nato a Navacchio [Pisa] nel 1914. Professore di letteratura moderna e contemporanea nell'Università di Firenze, ha pubblicato numerosi saggi critici, tra cui: Il senso della lirica italiana (1952), Leopardi (1962), Poesia italiana del Novecento (1965), La poesia come funzione simbolica del linguaggio (1972). E' stato un poeta, maturato nel clima dell'ermetismo fiorentino: La figlia di Babilonia (1942), Il corvo bianco (1955), Torre di Arnolfo (1964), Stato di cose (1968), Antimateria (1972).
Poeta di Trieste, Claudio Grisancich (1939), sulla scia di Virgilio Giotti e di Umberto Saba ci dà la sua voce di poesia onesta e sorprendente.Autore di numerosi volumi di poesia in dialetto triestino e inlingua, che ha da tempo meritato un ruolo di rilievo nella poesia italiana e che ha già ottenuto diverse traduzioni e riconoscimenti della migliorecritica. Scrittore di teatro e di sceneggiature, accolto nelle migliori antologie di poesia italiana e dialettale, e studioso della storia di Trieste. Grisancich ha pubblicato il suo primo libro nel 1966, Vegnaremo. Da allora non ha mai cessato la sua vena fino ai recenti Assedio (2001) e Sul ponte de la Rosa (2002). E' presente nelle antologie della poesia dialettale curata da Franco Brevini per Mondadori e in quella sulla poesia contemporanea italiana edita da Franco Loi e da Davide Rondoni. Autore di teatro, ha ricevuto lo scorso anno l'onoreficenza triestina del "sigillo d'oro". Collabora ai programmi culturali della Rai.
Più famoso come romanziere, fin dal fortunato esordio con “Cercando l’Imperatore” - uscito da Marietti nel 1985 e poi ripubblicato da Garzanti e nella Tea - Roberto Pazzi è anche poeta, avendo iniziato la sua carriera letteraria con la prefazione di Vittorio Sereni alle sue prime poesie, nel 1970. Lo scrittore ferrarese - tradotto in venti lingue, vincitore di alcuni dei più prestigiosi premi, come il Grinzane Cavour con Vangelo di Giuda, il SuperFlaiano e il Comisso con Conclave, due volte premio Selezione Campiello con Cercando l’Imperatore e Incerti di viaggio e due volte finalista allo Strega con La principessa e il drago e La città volante - non ha mai abbandonato la poesia e, nel 1987, ha vinto il premio E. Montale, con un volume uscito da Garzanti, Calma di vento.