Sta per arrivare il nuovo secolo e in Georgia, come nelle altre repubbliche sovietiche, si levano rabbiose le voci che invocano l'indipendenza. In un periodo di grandi disordini, che per il piccolo stato culmina nel caos assoluto, quattro ragazze crescono in uno dei tanti cortili del quartiere più vivace di Tbilisi. L'universo della loro infanzia è fatto di bucato svolazzante, altalene arrugginite, un albero di melograno. Vivono in case dalle pareti umide con i balconi di legno intagliato, mangiano gelato alla crema e respirano l'aroma del grano saraceno, delle caramelle alle bacche di crespino e della gassosa al dragoncello. Le loro famiglie appartengono a ceti diversi, ma niente sembra scalfire la loro amicizia: né il primo amore tenuto segreto, né gli scontri sanguinosi per le strade o la guerra al confine, né la corruzione e la violenza che divorano il paese, e neppure il razionamento del cibo o la continua mancanza di corrente. Qeto, Dina, Nene e Ira sono sulla soglia della vita, all'inizio di un legame che - ancora non lo sanno - da loro pretenderà tantissimo. Sono e resteranno inseparabili, fino a quando un tradimento non le avvolgerà in un'ombra cupa. Vent'anni dopo, ormai adulte, in tre si ritrovano a Bruxelles in occasione della retrospettiva fotografica di una di loro. Immagine dopo immagine, in quel mondo in bianco e nero le tre sopravvissute ripercorrono un tempo che non c'è più, una storia privata che è anche la storia della rivoluzione seguita al crollo dell'Unione Sovietica. E allora, all'improvviso, un raggio di luce squarcerà il velo steso sui ricordi, e il perdono sembrerà di nuovo possibile.
Il bosco è il bosco, la montagna è la montagna, il paese è il paese e la maestra Silvia è la maestra Silvia, ma è scomparsa. In una piccola comunità agitata dal vento della Storia che investe tutta l'Italia all'inizio degli anni Settanta, Silvia, la maestra, esce di casa una mattina e invece di andare a scuola entra nel bosco. Il motivo, o forse il movente, è la morte di una sua alunna. Non la morte: il suicidio. La comunità la cerca, ma teme che sia troppo tardi, per trovarla o per salvarla, e in qualche modo che queste due morti siano una maledizione. Il paese è di montagna e le paure e i sentimenti, che pure non possono essere negati, non possono nemmeno essere nominati. Teme il paese il contagio di una violenza tutta umana e mai sopita, una violenza che dopo due guerre mondiali si è trasfusa in una guerra civile, politica. La maestra però non si trova e il paese, per continuare a vivere e convivere con il lutto e l'incertezza, si distoglie. In questa distrazione, Martino, il bambino che non è nato nel paese e nemmeno è stato accolto, tagliando per il bosco incrocia un capanno abbandonato, e nel capanno, color della muffa e dorata come il cappello di un fungo, sta la maestra. Il bambino non dice di averla trovata, e la maestra non parla. Ma il bambino torna e la maestra, in fondo, lo aspetta. A partire da fatti reali e racconti di famiglia, articoli di giornali, dicerie e mitologie, Maddalena Vaglio Tanet racconta una storia di possibilità e di fantasmi, di esseri viventi che inciampano in vicende più grandi di loro, e di bambini dei quali - come scriveva Simona Vinci, al suo esordio - non si sa niente, se non che sono gli unici a conoscere quanta realtà ci sia nelle fiabe, quanto amore stia nella paura, e quante sorprese restino acquattate nel bosco.
Siamo all'inizio degli anni Settanta, a Castroianni, un piccolo paese della Sicilia che, per mancanza di litio nell'acqua corrente, registra il più alto tasso di pazzi di tutta la provincia. Dal momento che la locale sezione della Democrazia Cristiana (ma il litio non c'entra) è sospettata di reggersi su un tesseramento fasullo, viene mandato da Roma il funzionario torinese Graziano Bobbio per indagare sui brogli. Presa dallo sconforto Rosalia Calì - la ricca e avida "Sindachessa", che fino a quel momento ha gestito indisturbata una redditi- zia attività di mazzettara - per salvare la poltrona del segretario politico e con quella anche la sua di sindaco, forzando la sua natura intrinsecamente frigida, si costringe a sedurre il polentone. Il piano funziona. L'imbroglio sul tesseramento viene coperto. E in meno di tre mesi i due convolano addirittura a nozze - complice anche la dote di novanta ettari di terreno, grazie alla quale "il polentone" conta di dimenticare il misero stipendio da funzionario. Ma le cose si complicano quando il novello "signor Calì", per sfuggire alla insoddisfacente vita matrimoniale, si trasferisce in campagna, dove trascorre il tempo con Tatano, suo ex commilitone, e con Celestina, bella ventenne nota per le sue esagerate prodezze sessuali. E mentre tutti in paese cominciano a spettegolare sui loro rapporti, arriva il colpo di scena: "il polentone" è stato rapito e per pagare il riscatto la moglie dovrà scucire tutte le mazzette faticosamente conquistate a suon di appalti.
La periferia romana dove sorge la scuola che è al centro di questo romanzo è la Rebibbia raccontata da Zerocalcare. Nel liceo si parla romano, e le aule sono abitate da strani esseri viventi: alcuni disegnati sui muri, alcuni umani ma dalle cui bocche escono suoni incomprensibili alla professoressa, che non ha mai pensato di avere la vocazione all'insegnamento e invece ce l'ha, solo che non è una vocazione, è un mestiere. La professoressa, infatti, non ama la vocazione, ama l'inglese. La professoressa è un'intellettuale. La professoressa ha studiato in Italia e all'estero. La professoressa cammina, cammina, cammina perché Roma è grande e perché camminando pensa. Gli studenti e le studentesse, invece, non camminano, vanno in motorino o in macchina, e non studiano. Gli studenti e le studentesse - e tutti lo siamo stati - sanno valutare, pesare le persone che siedono dietro la cattedra e, nonostante non abbiano voglia di aprire i libri, sentono, piano piano, il desiderio di capire la professoressa, e di esserne capiti. Danilo Dolci ha scritto che si cresce solo se sognati, e l'autrice di questo romanzo chiosa che si può crescere anche se sei l'incubo di qualcuno. Tra i professori di Frank McCourt e Domenico Starnone, passando per gli studenti in piedi sul banco nell'Attimo fuggente, sta la professoressa di Gaja Cenciarelli, convinta sì che la cultura sia qualcosa di quotidiano, convinta sì che certe parole dialettali o certe squadre di calcio, certe sigarette fumate insieme agli studenti prima che la lezione cominci facciano parte del lavoro di chi insegna e di quello di chi impara, ma disillusa che l'istruzione possa - come si sente dire spesso - salvare il mondo. Ciò nonostante, in questo romanzo di Shakespeare e spaccio, la professoressa il mondo lo salva. Perché il mondo è le persone che incontriamo. Specialmente a scuola.
Milano, 1969. Università occupate, cortei, tensioni nelle fabbriche. Il 12 dicembre la strage di piazza Fontana. Alberto Boscolo ha vent'anni, viene da una famiglia normale, né ricca né povera, è iscritto alla Statale ma vuole di più. Vuole realizzare un proprio progetto politico. Deluso dall'inconcludenza del Movimento Studentesco, si avvicina a quello che di lì a poco sarà il nucleo delle Brigate Rosse. I mesi passano, Alberto partecipa alle azioni dimostrative, alle rapine di autofinanziamento e al primo attentato incendiario, ma il suo senso di insoddisfazione non si placa. Vuole agire sul serio. Il gruppo organizza il sequestro lampo di Idalgo Macchiarini, un dirigente della Sit-Siemens, e lo sottopone al primo processo proletario. «Mordi e fuggi », scrivono i brigatisti. La stampa batte la notizia; nei bar degli operai non si parla d'altro, le Brigate Rosse sono pronte ad alzare il livello dello scontro. In una metropoli nebbiosa, violenta e indimenticabile, Alessandro Bertante dà vita a una vicenda umana tumultuosa e vibrante, nella quale, intrecciando fiction e cronaca, vediamo scorrere i fatti cruciali che innescheranno la tragica stagione degli anni di piombo. Un romanzo che non cerca facili risposte ma che apre nuove domande su uno dei periodi più drammatici della recente storia italiana.
"Scandalosamente felice" è la storia di Joséphine Baker (1906-1975), che nel racconto esatto e confidente di Gaia de Beaumont diventa il romanzo di una vita che in sé è già un romanzo, e di avventura. Nata poverissima ma con una grande passione per la danza riesce, con peripezie degne dei bambini di Dickens, a fuggire dal mancato amore della madre e a raggiungere prima New York, poi Parigi, e soprattutto riesce a ballare. A Parigi, in quel periodo sfavillante e foriero di terribili eventi che sono stati gli anni Venti, Joséphine diventa la musa, la compagna e il sogno selvaggio di ogni uomo di cui incrocia i passi o i desideri, e per tutti, anche per noi, si cristallizza nell'icona di un mondo meraviglioso e perduto, sensuale e inavvicinabile, allegro e con un gonnellino di banane e una collana di perle. E basterebbe quello per consegnarla all'immortalità se Joséphine non avesse vissuto circondata da animali di ogni specie in ville bellissime, non fosse stata membro del controspionaggio, non avesse adottato, dopo la guerra, bambini provenienti da ogni parte del mondo - dodici bambini - e non avesse partecipato alla marcia per la libertà di Martin Luther King. Gaia de Beaumont, con una lingua vicinissima e distante come quella di un biografo inglese, ironica e dolente, srotola, come un nastro dorato, la vita di Joséphine Baker, restituendo amori ed errori a un'icona che non è mai stata ferma nel tempo.
L'avventura spirituale di Fiore, figura leggendaria, dalla nascita all'adolescenza, tra la natura e le scoperte dell'anima; poi la fuga da casa, i primi incontri e i primi pensieri; le tracce della religione d'infanzia rimaste anche d'adulto (come baciare il pane avanzato e sgranare il rosario). Il suo viaggio senza ritorno, dall'Isola delle donne al lungo cammino in Oriente, verso la Luce - la tigre cavalcata, gli incontri straordinari, tra cui un ex papa ritiratosi nella foresta - la visione del Fiore d'oro. La svolta della sua vita è segnata da un contagio che lo porta sul punto di morire: restituito alla vita, in un convento, Fiore decide di dedicarla a un compito e a una ricerca. Nomen omen, Fiore risale a Gioacchino da Fiore, l'eremita dei sette sigilli che annunciò l'avvento dell'età dello Spirito Santo: ebbe in custodia il suo libro segreto che si riteneva perduto. Comincia allora la sua vita nuova, tra digiuni di cibo e di parole, preghiera e alchimia; veste una tunica, un cappello a forma di cono, si ritira in un trullo. Viaggia nel futuro, con un caleidoscopio che è la sua sfera di cristallo, e nel passato, tramite un album di ricordi. Suona il salterio e naviga su un tappeto magico. Lungo il suo cammino dispensa versi, pensieri e precetti, trova seguaci ma se ne libera. Gli amori fugaci e la scoperta tardiva della paternità. Un romanzo spirituale, tra Zarathustra e Siddhartha, in tempi e luoghi indefiniti, dedicato alla vita e al pensiero di un asceta gioioso.
Mario è un uomo che inventa storie, modifica la realtà, non è interessato alla verità, né sulle cose né sulle persone. Mario sfugge, per indolenza, all'obbligo di capire che tutto ci lega e tutto ci frustra. Vuole sposare Viola ignorandone la doppia, forse tripla vita. Anni prima è stato lasciato da Bianca, subito prima che nascesse Agnese, che forse è sua figlia o forse no. Tuttavia, se Bianca, spuntando dal nulla dopo anni, chiede aiuto, Mario subito accorre, disponibile ad accollarsi la paternità. È succube di Santiago, un ragazzo dedito a pratiche sessuali estreme, e affida alle fotografie la coerenza e consistenza della propria vita. Se dei giorni della vita di Mario possiamo dire - quasi sempre è il 17 giugno -, degli spazi in cui Mario si muove non siamo certi. La ripetizione è l'unica realtà di Mario. Con una scrittura che procede per variazioni capitolo dopo capitolo, pur conservando un incalzare ipnotico, Giulio Mozzi in questo suo romanzo guida il protagonista, e chi legge, attraverso avventure in parte reali e in parte - ma la cosa è sempre indecidibile - del tutto immaginarie, portandoli a sfiorare le vite strane e misteriose di personaggi senza nome - il Grande Artista Sconosciuto, il Terrorista Internazionale, il Martellatore di Monaci, il Capufficio - che Mario contempla come enigmi incomprensibili e rivelatori. Arrivando, nell'ultima pagina, alla più orribile delle conclusioni.
Elisa ha trentasette anni, niente figli, un fidanzato, Giacomo, con il quale sta bene ma tanto tutto prima o poi finisce, un nuovo corteggiatore conosciuto durante una lezione di yoga, Luca, alto e del Nord, con il quale si incontra la mattina alle cinque, una sorella, Bianca, molto diversa da lei, come si addice alle sorelle, e due genitori che, un anno prima che questa storia inizi, decidono di sposarsi in chiesa. Elisa ha anche un cane, Stella, con cui Giacomo dorme abbracciato. Elisa e Giacomo hanno molte cose in comune, ma non un grande senso della realtà. Quando Elisa riceve da Luca un'inaspettata proposta di matrimonio, realizza di non essere battezzata e improvvisamente qualcosa in lei cambia, e inizia a vedere ovunque il disegno di Dio. Ma come ci si battezza da adulti? Si comincia, pare, trovando una chiesa e un prete e, in fondo, un'appartenenza. In un romanzo scandito come l'anno liturgico, Elisa Fuksas, accompagnata da Elia, il giovane padre spirituale, compie un viaggio che da se stessa la porta a se stessa, senza lasciare indietro nessuno dei suoi - numerosi, ironici, teneri, fastidiosi - difetti. Ma la differenza tra le due Elisa è "il Mistero". Proprio quel mistero che, nella letteratura italiana contemporanea, pare relegato al genere giallo, qui - in questo romanzesco memoir - è ciò che «prende il volto delle cose che possono parlarci». E le cose che possono parlarci, spesso, sono persone, talvolta animali, talvolta strutture architettoniche, talvolta il vento che fruscia tra gli alberi. Tra squarci di Roma, chiese sperdute nella provincia toscana, intransigenze di carattere che si rivelano proteste infantili, amori cominciati e rotti, amori finiti e ricuciti, preti illuminati e intellettuali senza curiosità, i comandamenti e una cerimonia la notte di Pasqua nel Duomo di Firenze, Elisa Fuksas, con una scrittura esatta e intelligente, dolente e ironica, porta chi legge a pronunciare nuovamente o per la prima volta i voti battesimali che diffondono salvezza.
"Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari " - bestseller amato e letto in tutto il mondo - termina nel 2008, quando Enaiat parla al telefono con la madre per la prima volta dopo il lungo e avventuroso viaggio che dall'Afghanistan l'ha condotto in Italia, a Torino. Ma cosa è successo alla sua famiglia prima di quella telefonata? In quali modi è rimasta coinvolta dalla "guerra al terrore" iniziata nel 2001? E com'è cambiata la loro vita e quella di Enaiat da quando si sono ritrovati fino a oggi, al 2020? Ora che non è più un bambino, ma con la stessa voce calda che abbiamo imparato ad amare, Enaiat ci accompagna attraverso la vita sua e non solo, lungo un pezzo di storia che riguarda tutti. Il rapporto a distanza con la madre; la violenza del fondamentalismo; l'amore e le amicizie italiane; il ritorno in Pakistan; un secondo ritorno in Italia; una nuova casa; un dolore lancinante, e la gioia enorme, inattesa dell'incontro con Fazila. Con leggerezza Fabio Geda torna a raccontare una storia pura, delicata e più che mai necessaria, in cui il dolore della perdita si mescola all'ingenua commozione di chi sopravvive. Una storia vera, che ci ricorda come su tutto vinca la solidità degli affetti, la persistenza della nostalgia e del desiderio, capace di superare le distanze.
«Di guerra e di noi» è la storia di due fratelli e copre l'arco di due guerre mondiali, correndo a perdifiato dal 1917 al 1945; comincia nelle campagne intorno a Bologna, e da lì non si sposta. Quando il marito non torna dalla Prima guerra mondiale, la madre dei due, ormai sola, è costretta a separarli. Il più grande, di nome Ricciotti, va a studiare in collegio a Bologna. Il più piccolo, Candido, rimane al mulino. Il collegio di Ricciotti è una scuola da ricchi, e la vita di Candido al mulino è una vita da poveri. Finiti gli anni avventurosi e duri del collegio, Ricciotti sarà segnalato per andare a lavorare nella neonata sede del Fascio di combattimento bolognese, dove incontrerà Leandro Arpinati, che diventerà suo mentore e amico. Candido resterà invece a lavorare nelle campagne frequentando sempre più quegli uomini e quelle donne che, col passare degli anni, andranno a formare le bande partigiane. Ricciotti però non è fascista, e Candido, d'altra parte, non è più di tanto interessato alla politica. Pensano entrambi a mandare avanti la famiglia, a proteggere la madre e i braccianti, pensano a correre dietro alle ragazze – donne avvolte di colori, nonostante partecipino e soffrano la guerra quanto gli uomini –, pensano a innamorarsi e poi sposarsi, e soprattutto a comportarsi bene quando molti intorno a loro, a causa della guerra, si comportano male. Come per Oskar Schindler, tuttavia, la grande occasione per trasformare la loro azienda agricola in un progetto onesto ma più ambizioso sarà proprio la guerra. Raccontando gli anni del fascismo con un'epopea dove le storie dei personaggi – mai del tutto innocenti, mai del tutto colpevoli – dialogano magistralmente con la grande Storia, Marcello Dòmini segue le peripezie dei due fratelli Chiusoli lungo ventotto anni, e segue, senza mai perderle di vista, le vite di tutti coloro che gli si muovono intorno – compagni di scuola, segretarie, squadristi, mogli, crocerossine, staffette partigiane... –, e lo fa rovesciando situazioni, svelando fondi segreti (dei muri e dei personaggi), collegando incontro a incontro, fatto a fatto, con una voce profonda, potente e in fondo scanzonata, perché è sempre la giovinezza a partire per la guerra. Il grande romanzo popolare di uno scrittore al suo esordio.
Tra osservare il futuro e scandagliare il passato, alcuni scelgono di percorrere il secondo sentiero. Così fa all'inizio degli anni Duemila Matteo, figlio giovane e inquieto di una solida famiglia romana, tra i cui avi di rilievo storico c'è padre Tacchi Venturi, il confessore del duce, lo «strumento normale per i messaggi fra il papa e Mussolini». Matteo, per appurare se il vecchio gesuita - zio di suo nonno, il Capitano - sia stato o meno antisemita, intraprende una ricerca condotta tra carte, testimonianze, lettere e diari, affiancato dalla cugina Giulia, più comprensiva e meno radicale di lui. Indagando su parenti lontani che sono chiaroscuri di luci e ombre - Tacchi Venturi ma anche il Capitano, impegnato sul fronte russo all'inizio degli anni Quaranta -, Matteo vuole sapere, perché essere limpidi è sempre meglio di non esserlo, e perché essere parte della Storia - quella grande, quella di tutti - certe volte impone di tentare di capirla. E capendo, forse, si può anche perdonare, soprattutto se l'opera di scavo riguarda la propria famiglia, dove colpe e connivenze si mescolano agli affetti, agli aneddoti dei pranzi della domenica e ai ricordi tramandati di padre in figlio. A cavallo tra realtà e finzione, tra ossessioni private e accurate ricostruzioni storiche, rievocando una genealogia che in più di un secolo da Tacchi Venturi conduce al Capitano e poi a Giulia e Matteo, "Sotto il radioso dominio di Dio" mette in scena l'indagine su un passato scomodo e ingombrante. Per i due cugini, il peso dei propri antenati è sempre lì: un'eredità di potere, fede e devozione che, cogliendoli in una Roma abbagliante, li spinge a interrogare, tra amori, lutti e aspettative disattese, una storia familiare sfuggente, dove non mancano false piste e buchi neri.
"Adorare" è sempre sembrata una parola forte a Lyle Hovde, ma è quella che più rappresenta il suo sentimento verso certe giornate di primavera, in cui prende il pick-up e guida lungo il Mississippi per raggiungere il frutteto dove lavora, il nipotino Isaac di cinque anni a fargli compagnia e la natura del Wisconsin a guarire i mali dell'anima. Isaac è il bimbo di Shiloh, la figlia adottiva di Lyle e della moglie Peg, appena tornata a vivere a casa dei genitori dopo un lungo periodo di lontananza e ribellione. Era stato difficile separarsi da Shiloh, ed essere di nuovo riuniti sotto lo stesso tetto è una gioia per Lyle e Peg. Per questo, appena lui viene a sapere che la ragazza è diventata seguace di una Chiesa radicale e intende trasferirsi con il piccolo Isaac a vivere assieme al pastore che la guida, vorrebbe fare il possibile per impedirglielo. Tanto più che i due sembrano avere strane convinzioni legate ai poteri sovrannaturali del bambino... Quando il fanatismo religioso minaccerà da vicino la salute del nipote, Lyle si troverà costretto a compiere un atto estremo di resistenza per evitare che una nuova tragedia si abbatta sulla sua famiglia. Dopo "Shotgun Lovesongs" e "Il cuore degli uomini", Nickolas Butler si ispira a una storia della sua terra per dare vita a un romanzo colmo di umanità. Lo scrittore del Midwest coglie temi universali - le contraddizioni del credere, il dolore del lutto, il peso dell'affetto - e li trasforma in sensazioni concrete, come l'odore della polvere e della benzina, la vista a perdita d'occhio sui campi e i solchi profondi che l'amore scava dentro ognuno di noi.
Lorena, agosto 1992. Anthony ha quattordici anni, le spalle larghe e una palpebra semichiusa che gli dà sempre un'aria imbronciata. Stéphanie è la più bella della scuola, ma nella valle dimenticata da Dio in cui è cresciuta l'avvenenza non serve a molto. Hacine è un po' più grande, ama le moto (soprattutto quelle prese agli altri) ed è ormai rassegnato all'idea di deludere il padre, arrivato in Francia dal Marocco sognando l'integrazione. L'estate in cui i tre ragazzi si incontrano è quella del primo bacio, delle prime canne, dei Nirvana nelle orecchie e delle corse in Bmx intorno al lago, della noia che si mescola alla rabbia e al desiderio di fuggire. Ma è anche un'estate torrida, in cui il vento caldo della globalizzazione ha già spazzato via buona parte dei posti di lavoro della regione lasciando le famiglie sul lastrico, impreparate ad affrontare la chiusura delle fabbriche e a immaginare un futuro diverso per sé e i propri figli. Di questo piccolo mondo periferico Nicolas Mathieu racconta speranze e miserie, luci e ombre, dando forma a un affresco sociale tenero e spietato. L'adolescenza di Anthony, Stéphanie e Hacine diventa per lui una lente straordinaria con cui guardare a un'Europa di provincia, alle sue illusioni di benessere bruciate nei falò estivi, alla sua innocenza perduta. Un'Europa che è anche la nostra.
29 agosto 2018. Venezia splende. È la Serata di Gala della Mostra del Cinema. Red Carpet, Star, limousine, champagne, fotografi. E Vivi Wilson. La protagonista incantevole del Film di Apertura. Ma nell'aria vibra una nota di inquietudine. Un'ansia che cresce a ogni pagina. Verità inaccessibili aspettano nell'ombra. Vivi brilla per una sera soltanto. Il giorno dopo è un mucchietto di stracci, sulla spiaggia elegante del Lido. La sua morte è un mistero. Alfio, il bel commissario siciliano sciupafemmine, viene chiamato a indagare. E il suo cuore perde un colpo. Emma è tornata. L'inglesina che gli è entrata, suo malgrado, dentro la pelle, è l'avvocato di Netflix, che coproduce il film. È ospite di una Contessa affascinante e misteriosa, in una magnifica Villa. Emma e Alfio sono due anime che si cercano. Due vite sospese. Il Destino gioca con loro e con la sporcizia nascosta nelle vite dei ricchi. Insieme, entrano nel buio. Tre indiziati, tre confessioni da spavento. Ma alla verità manca una riga. Quella sepolta dentro un Passato che urla.
Dopo una lunga serie di vagabondaggi in giro per il mondo, a quasi settant'anni Signe fa ritorno ai luoghi dell'infanzia, sulla costa occidentale della Norvegia, là dove il fiume incontra il fiordo e l'acqua della montagna diventa tutt'uno con quella del mare. È arrivata sulla sua Bla, la barca a vela che porta il nome del colore del ghiacciaio, ma si fermerà per poco, giusto il tempo di constatare quanto tutto sia cambiato e camminare per l'ultima volta sopra il "suo" ghiaccio. Presto salperà di nuovo l'ancora con un singolare carico a bordo. Vuole attraversare parte dell'Atlantico e raggiungere il litorale francese, dove spera di trovare l'uomo che amava. Ventiquattro anni dopo, la violenta siccità che flagella il Sud dell'Europa costringe la gente a migrare verso nord: le case sono vuote, i campi inariditi e non c'è più acqua per tutti. Ma per David, troppo giovane per sentirsi un buon padre, e la sua piccola Lou la speranza si riaccende quando, in un giardino bruciato dal sole, scoprono una vecchissima barca a vela. Una barca che ha custodito un carico singolare, molto prezioso. Nel suo romanzo, seconda parte di una tetralogia letteraria sul clima, Maja Lunde ci racconta dell'amore per i figli e della difficoltà di conciliare gli ideali con l'esperienza quotidiana, mettendo a nudo i disastrosi effetti che le nostre azioni possono avere sul pianeta. Ogni sua frase, solida e insieme emozionante, diventa un inno all'acqua, e di conseguenza alla vita.
È la storia di un vecchio pescatore che a Scano Boa "in cima" al Delta del Po, vive l'ultima disperata avventura: la pesca dello storione. È ancora una sconfitta e decide di morire. Sulla chiatta che trasporta la sua bara, una donna, raccolta lungo il tragitto, partorisce il suo bimbo. La vita e la morte, a Scano Boa, si accordano.
«Aspetta Monsieur Bellivier?». A questa domanda, Helena Folasadu, giornalista freelance seduta in un caffè della capitale a fare ricerche per il suo prossimo articolo, dovrebbe naturalmente rispondere di no. Helena non conosce l'uomo che le ha rivolto la domanda e non conosce nessun Monsieur Bellivier, e tantomeno lo sta aspettando. Eppure - forse è semplicemente annoiata, o forse è abbagliata da quel signore gentile che le si è avvicinato - assecondando l'istinto dice invece di sì, ritrovandosi così a dover assolvere un incarico piuttosto criptico, grazie al quale spera però di poter realizzare uno scoop. Intanto Mancebo, che sulla strada che porta al Sacré-C?ur gestisce un piccolo negozio di alimentari da cui affiorano tutti i profumi delle spezie della sua terra nordafricana, viene avvicinato da una donna che abita in un appartamento al di là della strada. Madame Cat, questo il suo nome, gli chiede se in cambio di un compenso è disposto a spiare per lei il marito. Sorpreso della sua stessa decisione, Mancebo accetta. Da quel momento la sua vita, fatta di una tranquilla routine tra negozio e famiglia al piano di sopra, cambia radicalmente. Mancebo comincia a osservare quello che accade fuori dalla porta del suo negozio. Diventa attento e curioso e, forse per la prima volta, comincia a interrogarsi sulle persone a lui più vicine, rendendosi conto che non tutto quello che dava per scontato lo è poi davvero. Quando le loro missioni finiranno per incrociarsi, Helena e Mancebo scopriranno che la città delle luci nasconde nelle sue strade e nei suoi cortili molti più segreti di quanti i turisti e i suoi stessi abitanti possano sospettare.
Lidia, a cinquant'anni, non ha un marito, non ha figli, non ha cani, non ha parenti, non ha un diploma, non ha nessuna esperienza sessuale, non si commuove e non dà segni di commozione. Scrive poesie bruttissime di cui si vanta molto e premedita già dall'adolescenza l'"omicidio" virtuale di suo padre, un ottuso maestro elementare, già gravato dalla disgrazia d'una moglie molto pigra che tuttavia muore di morte naturale. Ma si sa, le migliori aspirazioni restano solo tali e così a Lidia sfugge l'unico magnifico progetto di tutta la sua vita: il parricidio! L'incontro con Facebook, le sue applicazioni, le sue chat, i suoi hashtag, dà l'avvio alla sua vera nascita, quella nel mondo virtuale, in cui Lidia diventa subito una brillante stella, con esiti esilaranti, surreali e una comicità irresistibile. Dopo infinite peripezie, con vicende e personaggi tra follia magia nostalgia, anche per lei "l'amore accade": è il tenero Paolino, mezzo cieco, basso, grasso, maestro elementare precario, l'opposto del suo tipo ideale, un tenebroso alla Heathcliff. Ma ci si arrende quando #lamoreaccade.
Spiegelgrund non esiste più. Le mura che circondavano l’ospedale viennese sono state abbattute e tutto quello che il personale aveva giurato di non rivelare mai a nessuno non è più un segreto. Tra il 1940 e il 1945, in quel diabolico istituto il cui obiettivo ufficiale era di raddrizzare i bambini più ribelli e di assistere quelli affetti da malattie psichiche, la realtà era tragicamente diversa. Adrian Ziegler vi arriva nel gennaio del 1941, in una fredda e limpida mattina d’inverno scintillante di brina. Quegli edifici pallidi all’ombra della collina, con le facciate di mattoni scrostate e le inferriate alle finestre, diventeranno la sua casa negli anni a venire. La sua, come quella degli altri bambini rinchiusi a Spiegelgrund – orfani, ritardati, disabili, piccoli delinquenti, «degenerati razziali» –, è una vita indegna di essere vissuta. Non ci sono cure ad attenderli, solo medici pronti ad attuare il programma nazista di eutanasia infantile voluto da Berlino. Persone convinte che contrastare la malattia, fisica o morale, sia necessario per rafforzare la razza, o forse, banalmente, solo attirate dall’opportunità di tormentare qualcuno. E ancora, ligi esecutori degli ordini, perché a seguire le leggi in vigore non c’è ragione di sentirsi in colpa. Come l’infermiera Anna Katschenka, che pur amando i bambini ubbidisce per lealtà e senso del dovere e, quasi senza rendersene conto, finisce per scivolare dalla parte dei mostri. Dopo "Gli spodestati", attraverso i destini di Adrian e Anna, e del coro di personaggi che popolano il microcosmo di Spiegelgrund nel cuore dell’Europa nazista, Steve Sem-Sandberg torna a intrecciare magistralmente storia e finzione in un potente romanzo polifonico che, come ha dichiarato la giuria dell’August Prize, «bisogna leggere e mai dimenticare». Un libro che, con la sua scrittura intensa e profonda, racchiude una riflessione memorabile sull’umana capacità di fare il male, e di resistere.
Lui è Luigi, un quarantenne equilibrato, sentimentale, sereno e innamorato della moglie incinta. La casualità di un banale esame medico lo pone di fronte a una tremenda rivelazione: ha un tumore al rene e bisogna intervenire con urgenza. Così, con il ricovero, la vita di Luigi cambia drasticamente e si riduce a un’unica semplice realtà: l’ospedale, il reparto, i compagni di stanza, infermiere e caposala, i medici e, fra questi, su tutti, la mitica presenza del professor Zamagna, genio della chirurgia urologica, che vive solo per operare e che a Luigi appare un salvatore. Quella che scopre giorno per giorno Luigi è una verità a lento rilascio in cui tutto viene rimesso in discussione: l’aleatorietà del sapere medico, che cambia in base alle persone, la saldezza della fede, che può perdere anche un prete malato, la passione per la medicina, che possono perdere anche i medici, e la resilienza di chi, giovane o anziano, vuole solo sopravvivere. Compagni di avventura di Luigi sono soprattutto i pazienti: un somalo assolutista, un ristoratore che sa tutto di medicina, un prete in crisi, un intellettuale taciturno e uno stuolo di anziani cattivi perché in cattività. Nato assieme alla realizzazione della serie omonima, in uscita sulla Rai con protagonista Valerio Mastandrea, La linea verticale riesce a dosare con straordinario equilibrio comicità e dramma, emozione e distacco, per diventare una riflessione molto umana sulla malattia come occasione per rinascere.
Chi sono il re e la regina della feste? Babbo Natale e la Befana, ma certo! Lui sulla sua slitta trainata da renne, lei con il sacco a cavallo della sua scopa distribuiscono regali a grandi e piccini. Un rapporto idilliaco? Una collaborazione fortunata? Non proprio. Anzi, l’avreste mai detto che tra i due non corre buon sangue? Pensateci bene: li avete mai visti insieme? E quando la sera dell’antivigilia, nel pieno dello stress prenatalizio di una grande città il nostro Babbo un po’ misantropo e pieno di acciacchi si scontra con la Signora della Notte, avvolta nel suo classico scialle, succede il patatrac. I due saranno costretti a parlarsi, a raccontarsi, e anche a passare un po’ di tempo sotto lo stesso tetto… Sarebbe davvero un peccato sprecare energie a litigare, quando il mondo là fuori aspetta solo gioia e serenità. Non sarebbe più opportuno seppellire l’ascia di guerra e collaborare? Da soli si sta bene ma in due è tutta un’altra storia!
Mentre tutti fuggono alla ricerca di un improbabile luogo dove potersi salvare da una imminente esplosione solare, una donna decide di restare nel paese dov'è nata, e di guardarsi dentro. Racconta a se stessa e al mondo che scompare ciò che ha visto e chi ha incontrato, le cose che ha vissuto e quelle che ha sognato. E canta per esorcizzare il buio. O per accogliere quel buio con straziante dolcezza. Giorgio Faletti si congeda, assieme alla sua protagonista, nel segno di una commovente tenerezza per le cose umane.
In Nemesis si intrecciano quattro storie. La storia di Antonio Francisco Bonfim Lopes, giovane brasiliano onesto, gran lavoratore e padre premuroso, che, per pagare le cure della sua bambina affetta da una rara malattia, non riesce a trovare altra via se non quella del mondo della droga, dove diventa Nem, boss dei boss di Rocinha, e infine l'uomo più ricercato di tutto il Brasile. La storia di Rocinha, in cui come in tutte le altre favelas di Rio de Janeiro, lo Stato è sempre stato assente - a parte la Polizia perlopiù violenta e corrotta - e che, invece, grazie a Nem conosce un periodo di pace e di stabilità. La storia del Brasile nel suo lento e faticoso cammino dal colonialismo alla democrazia passando attraverso la dittatura militare, e della sua lotta contro la povertà, la violenza e la corruzione. E infine, ma non meno importante, la storia di come due uomini, il protagonista e l'autore, così diversi per cultura, ruolo ed età, durante i loro incontri nel carcere di massima sicurezza di Campo Grande, riescano a costruire un rapporto di rispetto e fiducia reciproci.
In "'Nzularchia" si racconta di una notte spaventosa, in un derelitto palazzo dentro il quale arrivano i tuoni e i lampi di una tempesta incombente. Gaetano deve fare i conti, testimone il giovanissimo Picceri', con il sopruso, l'orrore, la violenza subita da un padre camorrista e assassino che si aggira dentro una vestaglia consumata nelle stanze di quel palazzo. Siamo alla fine degli anni Novanta del Novecento, ma il tempo sembra contrarsi e aprirsi come in una tragedia antica. L'inconscio di Gaetano emerge a scatti, a conati dal buio e il padre Spennacore si erge torvo e torbido a testimoniare un dominio decaduto e al contempo intriso di colpa e di mostruosità. «Io sono la fame che ti fa diventare infame, io sono un infame, traditor, morto di fame.» 'Nzularchia è l'itterizia, la piaga, il segno che marchia una umanità condannata, senza identità, che sfida il labirinto per cercare un dolore originario e una colpa, o meglio ancora, un colpevole. Nessuno nel teatro italiano ha saputo, come Borrelli, toccare il confine, il limite e cercare dentro l'abisso del nulla per cavarne un'oratoria grande, barocca, da teatro fiammeggiante. Questa edizione dispiega insieme al testo in dialetto flegreo una traduzione dell'autore che non solo non tradisce la furia dell'originale ma talora crea una lingua nuova, un italiano non formale, pieno di falle e di neologismi, trasparente come il sogno di un demone.
Roma, primavera 1501. Salaì, apprendista pittore, scapestrato e sciupafemmine, scrive a un ignoto destinatario lo sgrammaticato resoconto del suo viaggio nell'Urbe. Il giovane è arrivato da Firenze al seguito del patrigno, un vecchio frustrato e squattrinato dalla testa zeppa di strane invenzioni che non funzionano mai: Leonardo da Vinci. Ufficialmente Leonardo è venuto nella Città Santa per studiare dal vivo l'antica architettura romana. In realtà è stato chiamato per un'indagine delicatissima: dovrà scoprire chi sta spargendo voci calunniose e infamanti sul pontefice, Alessandro VI Borgia. Il bel Salaì, rozzo ma dal cervello fino, a sua volta ha ricevuto dalle autorità fiorentine l'incarico di spiare il patrigno: Da Vinci, che è anche ingegnere militare, è sospettato dai suoi concittadini di cospirare con potenze straniere. Durante la caccia ai calunniatori di Papa Borgia, Leonardo e Salaì s'imbattono in un brutale assassinio: uno scrivano pontificio è stato massacrato a colpi d'ascia nel suo letto. L'omicidio conduce a una lobby di tedeschi residenti a Roma: finanzieri, artisti, prelati e letterati, tra cui i potenti banchieri Fugger e il capo del cerimoniale vaticano, Giovanni Burcardo. Con una serie di peripezie esilaranti e inquietanti, dove delitti e suspense si mescolano a roventi avventure amorose e fughe rocambolesche, Leonardo e Salaì risaliranno dalla morte dell'anonimo scrivano fino a una colossale frode, destinata a cambiare il mondo. Perché anche dietro ai piccoli misteri c'è una grande bugia, e per salvare la pelle, come insegna Salaì, bisogna sempre chiamare le cose con il loro nome. Gli autori Monaldi & Sorti ci conducono per mano nei meandri della Storia, costruendo sulle fonti storiche originali un giallo storico-satirico che ci parla del nostro presente.
Il villaggio di Halimunda, nel cuore dell'isola di Giava, incanta da sempre abitanti e forestieri con le sue storie. Dalla principessa Rengganis, che sposò un cane perché nessun uomo era degno di lei, a Ma lyang, che volò via da una rupe anziché rassegnarsi a un'esistenza infelice, una moltitudine di anime bizzarre e tormentate ha popolato la comunità di pescatori nel corso dei secoli. L'ultima erede di questa genia di figure prodigiose è Dewi Ayu, la prostituta più richiesta del bordello di Marna Kalong, madre di quattro irresistibili figlie. Le loro vicende di passione e dolore, lusinghe e violenza, si intrecciano alla storia dell'Indonesia del Novecento: all'avidità del colonialismo europeo e alla ferocia dell'occupazione giapponese, al sangue della rivoluzione comunista e alla brutalità della dittatura. Eka Kurniawan dà forma a una saga caleidoscopica, ricca di magia, che è al tempo stesso il ritratto di un paese affascinante e una lucida e accorata lezione d'amore.
Nel momento in cui la Romania ancora socialista, in base a un accordo internazionale poco pubblicizzato, lo "vende" alla Germania Federale in quanto cittadino di supposte origini sassoni (ad onta delle varie versioni del suo cognome, che sembrano rimandare piuttosto all'area mediterranea), il nobile spiantato e ingegnere Ponzio Capodoglio, allampanatissimo, viene preso da un'insana mania: vuole conoscere, a tutti i costi, le proprie origini. Comincia così - in compagnia dell'enorme moglie Sieglinde e del gatto Fiocchetto di Neve, e inseguito (e talvolta preceduto) dall'ambiguo spione-letterato Negrescu -una quantità di viaggi ed esplorazioni che lo portano ai quattro angoli del mondo: rimedierà delusioni, arresti, sguaiate derisioni, espulsioni, bastonate, denunce. E alla fine concluderà che quello dell'origine altro non è che un mito maligno, foriero solo di guai. Appoggiandosi parodisticamente al "Don Chisciotte" cervantino (ma anche a Rabelais, a Sterne, a tutta la gloriosa tradizione del romanzo parossistico), Giorgio Pressburger dà vita a un romanzo turbinoso, folle e divertentissimo, nel quale sono allegramente spedite gambe all'aria tutte le convenzioni romanzesche.
Nelson dorme da solo, nella tenda che lo ospita per la quinta estate consecutiva al campo Chippewa. Le sue medaglie da giovane scout, la bravura nell'accendere il fuoco, la straordinaria abilità con cui all'alba suona la sveglia con la tromba non sono il massimo per farsi degli amici, a tredici anni. Solo Jonathan, il ragazzo più popolare della scuola, sembra concedergli stima e attenzione; è l'unico a ricordarsi del suo compleanno, l'unico ad aiutarlo quando i bulli del campo vorrebbero vederlo annegare nella latrina. Nelson e Jonathan non possono ancora saperlo, sul finire di quell'estate del 1962, ma la loro amicizia sopravvivrà al tempo. Ai problemi in famiglia, alla durezza dell'Accademia militare, agli orrori del Vietnam. E più di trent'anni dopo, i due ragazzini del Wisconsin diventati ormai adulti si ritroveranno a discutere di lealtà e ipocrisia, di generosità ed egoismo, delle crepe del matrimonio e dell'abisso della guerra, davanti al figlio di Jonathan, Trevor, e a un numero di bicchieri di whisky di cui non è facile tenere il conto. Di padre in figlio, tre generazioni di uomini dovranno confrontarsi con gli equivoci del proprio coraggio e della propria vigliaccheria. E dinanzi alle sfide della vita, con le sue ambigue domande sul bene e sul male e i suoi falsi eroismi, nell'abbraccio di una natura primitiva e magnifica, sarà una lezione d'amore a illuminare il cammino, come quella lanterna che era l'ultima a spegnersi nella notte del campo Chippewa.
Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra, e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi, qualcuno reclami la tua vita. Tuo padre è morto lavorando per un ricco signore, il carico del camion che guidava è andato perduto e tu dovresti esserne il risarcimento. Ecco perché quando bussano alla porta corri a nasconderti. Ma ora stai diventando troppo grande per la buca che tua madre ha scavato vicino alle patate. Così, un giorno, lei ti dice che dovete fare un viaggio. Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo per bene e ti lascia solo. Da questo tragico atto di amore hanno inizio la prematura vita adulta di Enaiatollah Akbari e l'incredibile viaggio che lo porterà in Italia passando per l'Iran, la Turchia e la Grecia. Un'odissea che lo ha messo in contatto con la miseria e la nobiltà degli uomini, e che, nonostante tutto, non è riuscita a fargli perdere l'ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile sorriso. Enaiatollah ha infine trovato un posto dove fermarsi e avere la sua età. Questa è la sua storia.
Le stagioni che danno il titolo a quest'opera di Paolo Barbaro non sono solo quelle del tempo, ma anche - e soprattutto - quelle dell'anima, del corpo, della vita. Nella prima parte del dittico, Dario, assicuratore quarantenne con moglie e figli, insegue il desiderio e l'ardore perduti lasciandosi rapire da Bruna, che due pomeriggi a settimana, dopo il lavoro, lo aspetta nella casa di Sant'Elena, a Venezia. Nel susseguirsi della dolce monotonia amorosa, basterà però un piccolo cambiamento a spezzare l'incantesimo dell'idillio. Nella seconda parte, il protagonista ormai anziano, che la malattia costringe a un'immobilità sempre più definitiva, osserva il mondo dal suo ultimo riparo nella città lagunare: la casa. È una cronaca della fine, un consapevole e sereno accomiatarsi dalla realtà che lo circonda, mentre la sua realtà si riduce sempre più a una stanza, alla voce della moglie, al saluto di un amico, ai vividi ricordi che tornano a fargli visita da un passato lontano. Nel dipanarsi di queste ondate di racconti e memorie, Venezia si manifesta ancora una volta come vera, vitale protagonista. Con ponti, canali, campielli, giardini segreti e terrazze sul mare, ordisce trame e incrocia destini, favorendo incontri, spaesamenti, addii. L'acqua alta si fa allegoria della fine che incombe, anche se pagina dopo pagina è un'altra metafora - di speranza - a imporsi. Nel suo invecchiare, l'uomo somiglia infatti a quella Sant'Elena tra le cui calli Dario rincorre una passione che credeva perduta.
In una notte d'autunno, mentre un vento freddo soffia da nord, Fredrik Welin si sveglia colpito da un bagliore improvviso. La sua casa, ereditata dai nonni materni in una sperduta isola del Mar Baltico, sta bruciando. Prima di fuggire e lasciarsi alle spalle un cumulo di cenere, Welin riesce a infilarsi un paio di stivali di gomma. Calzano entrambi il piede sinistro. A settant'anni, oltre a quegli stivali spaiati, una roulotte e una piccola barca, non gli è rimasto più nulla. Anche le poche persone intorno a lui sono sfuggenti: la figlia Louise che non ha mai veramente conosciuto, l'ex postino in pensione Ture Jansson dalle mille malattie immaginarie e Lisa Modin, la giornalista della stampa locale di cui inaspettatamente si innamora. Tormentato da dubbi e rimorsi, ora che ha perso tutti gli oggetti che costituivano la sua stessa esistenza, Welin sente di trovarsi sulla soglia di un confine umano, parte del gruppo di persone che si stanno allontanando dalla vita. Mentre l'inverno avvolge l'arcipelago al largo di Stoccolma, si continua a indagare sulle cause di un disastro che non rimarrà isolato. E il fuoco che torna a divampare sembra quasi voler illuminare un buio per qualcuno insostenibile. L'ultimo romanzo di Henning Mankell, percorso dalla straziante bellezza di un paesaggio crepuscolare, è un'elegia alla vecchiaia e un inno alla vita che continua. Se i misteri delle isole troveranno una spiegazione, continuano a essere incomprensibili le relazioni tra le persone, con i loro segreti e silenzi.
Nulla sembra muoversi nell'assolata Minervino, patria della medium Eusapia Palladino, famosa invece una volta per l'arte di far muovere oggetti e persone nel tempo e nello spazio. Ed è proprio questo che inizia ad accadere all'indomani dell'arrivo in paese del romanziere Guido Galliano. Lo scrittore viene ingaggiato dal barone e agronomo Ferdinando Canosa perché aiuti la volitiva moglie Finizia a finire il romanzo cui invano lavora da mesi, proprio sulla vita della Palladino. La cosa dovrà però accadere nel più assoluto segreto. Soprattutto, senza che nulla ne sappia Maddalena Videtti. È infatti per contendere il primato a costei - sua rivale da quando le soffiò lo sposo sull'altare e ora, grazie alle sue pubblicazioni a diffusione locale, figura di spicco in quel vero covo di vipere che è il Circolo culturale La Scesciola - che la doviziosa bovary murgiana coltiva il sogno di diventare scrittrice senza averne il benché minimo talento. Così, quando Galliano e Finizia cominciano a lavorare nella tenuta vinicola di Bocca di Lupo, lo scrittore si accorge che del libro esistono solo poche confuse pagine. Ma, appena prima di gettare la spugna, torna sui propri passi un po' per l'aumento del compenso propostogli dal barone, un po' per l'estro che, tra strani schiocchi e ancor più misteriosi fruscii, ritrova magicamente dopo anni. E questi non sono che i primi attori in scena...
Una signora borghese, Flaminia, con un passato rimosso e mai raccontato a nessuno che si è fatta una vita nuova e irreprensibile. Due figli: Carlo e Caterina. Un equivoco in una feroce domenica di calcio a Roma Nord, zona stadio. Una telefonata: Carlo è morto, ucciso dalla polizia durante una giornata di scontri con gli ultras. Solo che Carlo non è un ultras, ed è morto per niente o quasi niente. Un desiderio di vendetta che prende forma con rapidità, diventa folle ossessione e poi progetto condiviso con l'amica del cuore di tempi molto bui. Un giro di vecchie amicizie che si mette in moto all'improvviso, in odio all'ingiustizia. Un poliziotto. Una soffiata. Una pistola. Due cinquantenni che tornano ragazze per cancellare l'ultimo e più insopportabile torto della vita.
Siamo negli anni Novanta, tra i monti al confine con la Svizzera. Franco Morelli detto il Moro ha ereditato dal padre la Trattoria dell'Angelo, e la fa fruttare come si deve: ma i soldi, quelli veri, li guadagna trafficando con prostitute e spalloni - e forse grazie ad altri affari ancora più oscuri e pericolosi. È un uomo chiuso, determinato: del tutto amorale. Ha un figlio in realtà un trovatello, ma nessuno lo sa - che lo adora come un dio; e una moglie timida e servile - la cuoca - che gli serve solo per giustificare al mondo l' esistenza del piccolo Angelo. Ma Angelo, crescendo, scopre che cos'è in realtà suo padre; e anziché ripudiarlo decide di voler essere come lui, più di lui. Si lega d'amicizia con Salvo, rampollo spendaccione - ma non sciocco di una famiglia del Sud in soggiorno obbligato. Ben presto però anche questa amicizia diventa competizione, e Angelo commette l'errore fatale: vuole essere come il suo amico Salvo, di più del suo amico Salvo. La punizione dello "spregio" sarà terribile; e terribili le conseguenze. In questa narrazione breve, spedita e secca come il racconto del peccato originale, Alessandro Zaccuri torna al tema del suo primo romanzo: il legame, la competizione, la lotta tra figli e padri.
Gabriel è un uomo ricco, un architetto famoso: una archistar. Il suo vagare per l'Europa sembra improvvisato, casuale, addirittura involontario; o forse è guidato da un destino, da un'antica sapienza, da una volontà divina - o da un amore perduto. Il mondo nel quale vaga, il Vecchio Mondo, è irrimediabilmente vecchio, stantio, prossimo alla Fine. Gabriel è uno dei pochi che vedono, intravedono, sanno la prossimità della Fine: e così lui cerca, dentro al tempo che sfugge, in città e paesaggi che già svaniscono, di salvare qualcuno. Fanciulle ignare, artisti maledetti, grandi boia di stato: senza sapere bene perché, l'uomo - che a volte appare potentissimo e altre volte fragilissimo salva, salva, salva. Soprattutto chi non vuol essere salvato. E noi, col cuore in gola, seguendo le avventure di quest'uomo, impariamo a domandarci cosa sia il mondo che stiamo attraversando: un mucchio di cose reali e opache, oppure una fantasia nella mente di un dio che ormai pensa ad altro, il trucco di un prestigiatore, l'illusione prodotta da una matrice o da un tumore che cresce nel cranio di un uomo innamorato della vita. Come sempre nei romanzi di Tullio Avoledo, anche in "Chiedi alla luce" tutti i mondi inventati sono terribilmente reali.
"Nel 2013, all'età di cinquant'anni, Szilárd Borbély pubblica un romanzo dal titolo 'Nincstelenek', qualcosa come i derelitti, coloro che non hanno nulla, che sono stati spogliati di tutto. Da chi? Dagli occupanti nazisti prima, dagli occupanti comunisti poi. La vicenda si svolge tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso, in un misero villaggio abitato da zingari, ungheresi, romeni di varie religioni ed etnie. Il narratore è un bambino che vive con la famiglia (un neonato, una sorella, padre e madre) in un tugurio di fango, argilla e letame. Gli strati infimi dell'esistenza nei quali si svolge la vicenda sono descritti con un linguaggio diretto, semplice, mai finto, senza evitare né forzare crudezze, ma senza nascondere nemmeno nulla. Persino il lettore che cerchi solo puro intrattenimento rimane avvinto da questa narrazione di un'onestà, di una dirittura e di una profondità oggi irreperibili nella letteratura mondiale. Non a caso infatti 'I senza terra' è stato considerato dalla stampa internazionale un romanzo che 'appartiene alla più vera, più grande letteratura contemporanea'. Da tanta tensione, l'autore purtroppo è morto suicida nel 2014, l'anno successivo alla pubblicazione di quest'opera ormai tradotta in varie lingue e diffusa in numerosi paesi." (Giorgio Pressburger)
"Tessa aprì la porta sul buio del bosco": così comincia "La ragazza selvaggia", e davvero il quinto romanzo di Laura Pugno è tutto uno spalancarsi di porte sul buio: sul buio del bosco; sul buio del dramma della famiglia Held - la madre alienata dopo la sparizione della figlia adottiva Dasha e l'incidente in seguito al quale Nina, la gemella, vive in stato vegetativo; sul buio di Nicola Varriale, il cui padre generoso ed entusiasta - socio di Held in affari con la riserva naturale sperimentale di Stellaria - si è gettato ubriaco dal balcone; sul buio, finalmente, della protagonista Tessa, biologa, che vive in un container ai margini della riserva conducendo osservazioni e studi: una donna che ormai "abita la solitudine come un altro corpo". A lei toccherà la sorte di ritrovare casualmente Dasha, vissuta anni nel bosco e ormai del tutto selvaggia. Ci interroga, questo romanzo che può essere descritto come una storia di revenant, o il racconto d'un groviglio di vite umane osservato con una compassione senza lacrime. Ci interroga su che cosa è - attorno a noi, in noi - ciò che chiamiamo "natura"; sui confini tra l'umano e l'animale; sul senso di legami familiari frutto di scelte, o del caso, e non della carne.
La prima volta che Annalisa legge un romanzo di Vittorio Ferretti, è ancora adolescente. Anni dopo, trasferitasi a Roma per inseguire il desiderio di scrivere, lo incontra di persona. Fra i misteri taciuti di Vittorio e l'estensione dei suoi silenzi, nasce un amore. Fino a che lui non la raggiunge a L'Aquila per rivendicare il suo bisogno di solitudine. La notte del sei aprile del duemilanove, Annalisa è a casa dei suoi. Fugge per strada, tra le macerie che piovono tagliando in due il futuro della sua città. Il terremoto è come un rombo che viene dal cielo e dalla terra insieme. La stessa notte, Annalisa e la sua famiglia sfollano in un paesino sulla costa abruzzese. Nel loro minuscolo appartamento corre la storia di una giovane donna che fino al terremoto ha vissuto a Roma, sognando un futuro da scrittrice, il riscatto da una realtà di provincia e quello da un padre che non condivide le sue scelte di vita. Fra l'angoscia dell'abbandono e una convivenza che si fa prigione, Annalisa troverà il modo di fuggire dal travestimento dell'amore e dalla paura che si affaccia improvvisa. Un romanzo sentimentale e crudo, doloroso e attento, la storia di una donna sulla linea d'ombra della vita.
Alcune raccolte di racconti, pur parlando apparentemente di storie individuali, nel loro insieme mirano a rappresentare un luogo, una città. Così per esempio Gente di Dublino di James Joyce, o le Cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani. Questi luoghi a loro volta sono una metafora dell’umanità, se non dell’Universo intero. Il racconto non è un genere minore, anzi. Alcuni dei libri più belli della storia della letteratura sono cresciuti proprio sul terreno del racconto. Soltanto la moda e l’editoria degli ultimi decenni hanno respinto questo genere nel reclusorio delle opere minori, se non proprio di poco valore, anche se nella nostra tradizione ci sono esempi altissimi, tra quelli di maggior rilievo della Storia della letteratura.
Che cosa desidera fare Pressburger con questi suoi racconti? La città di Trieste in sé è già stata consacrata da tempo come luogo letterario, è nota per questo - si può dire - in tutto il mondo. Quindi, con il suo inserirsi nella tradizione letteraria di Trieste, probabilmente l’autore intende dichiarare una tendenza e l’accettazione di una regola che rifiuta il ruolo di intrattenimento a costo zero. Rivendica invece quello che fino a non molto tempo fa pareva un requisito necessario: un valore diverso da quello del puro divertimento, che oggi invece pare essere l’unico elemento indispensabile. Il mondo qui rappresentato vuole scuotere il lettore dal suo torpore di indifferenza verso gli altri, mostrare quello per cui Trieste rimane ancora un posto dalla cui sofferenza e disposizione alla conciliazione con l’esistenza c’è ancora da imparare.