La filosofia pone domande, ma porre domande non è la cosa più importante, bisogna porre quelle giuste al momento giusto per avere risposte significative e corrette. La filosofia è un'impresa costruttiva in cui l'analisi delle domande aperte è il terreno preparatorio per il design di risposte soddisfacenti. La filosofia è necessaria per ripensare ciò che si può definire progetto umano. E la filosofia evolve come evolve l'umanità. Oggi l'indagine filosofica non può prescindere dalle tecnologie digitali che influenzano e formattano la nostra comprensione del mondo e la nostra relazione con esso. È in corso una rivoluzione, ma il discorso filosofico potrebbe non prendervi parte a meno di riavviare il sistema, proprio come si fa con un computer. Nell'era "onlife" la filosofia è necessaria per dare senso ai cambiamenti radicali prodotti dalla rivoluzione dell'infosfera, ma occorre che sia davvero buona filosofia per affrontare le grandi difficoltà che abbiamo davanti.
Vivere insieme nella città non è una scelta ma un destino, che da qualche tempo coinvolge la maggior parte degli abitanti del pianeta. Legato agli sviluppi della globalizzazione economica e tecnologica, questo fatto pone problemi nuovi agli urbanisti e a tutti noi. Come vivere insieme nella attuale città plurale, nelle grandi città-mondo che mescolano il sublime e il kitsch, la bellezza e l'orrore? Come fronteggiare la crescita inarrestabile delle disuguaglianze tra la città dei ricchi e la città dei poveri? Come favorire aggregazioni compossibili e risolvere questioni ambientali ed ecologiche di proporzioni mai conosciute? Domande ineludibili e problemi urgenti: la questione urbanistica è oggi la questione stessa del sapere.
Durante la stretta collaborazione che condusse alla stesura del Mulino di Amleto, Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend raccontarono in varie conferenze le scoperte sensazionali che andavano via via facendo. Sepolti in sedi editoriali difficilmente accessibili, i testi di alcuni di quegli interventi sono ora qui raccolti, e consentono al lettore di gettare uno sguardo nell’incomparabile fucina di idee da cui uscirà la loro opera capitale: «l’importanza unica» di Sirio – la più luminosa delle stelle fisse, che per più di 3000 anni sembrò non essere affetta dalla Precessione degli Equinozi – nelle antiche civiltà di tutto il mondo, da Babilonia alla Grecia, dal Medio Oriente iranico all’India, dalla Cina alla Polinesia; il «sistema di misure normate» posto a fondamento della cultura superiore arcaica, dove lunghezza, capacità e peso, strettamente collegati, sono derivati dalle uniche misure «assolute» esistenti in natura: lo scorrere del tempo e gli intervalli armonici; infine, il «mutare delle mode in storiografia», a partire dal caso esemplare del soggiorno di Eudosso in Egitto. In un percorso dalle mille ramificazioni, queste pagine ci offrono una porta d’accesso a quel pensiero arcaico in cui il rigore della Scienza, fondato su numerus, pondus et mensura, parlava ancora il linguaggio tecnico quanto immaginifico del Mito – e contribuiscono a farci rivalutare « quei nostri remotissimi antenati che crearono proprio le civiltà superiori».
La pubblicazione, nel 1963, del libro di Hannah Arendt "La banalità del male" suscitò un dibattito incandescente, che turbò profondamente Arendt, anzitutto perché quel libro incrinò i suoi rapporti con gli amici e i sodali ebrei di un tempo, tra i quali Gershom Scholem. Ma quel dibattito dai toni accesissimi, che dagli ambienti accademici tracimò sui giornali e sui media del tempo, era destinato a lasciare un segno indelebile sul pensiero e sulla vita stessa di Arendt. Esso inaugurò un lungo e travagliato percorso speculativo che l'avrebbe condotta al capolavoro incompiuto "La vita della mente". La "questione ebraica", così come viene messa a fuoco attraverso il dibattito provocato da "La banalità del male", segna così una svolta radicale nel cammino di pensiero di Arendt e lascia affiorare una concezione assolutamente peculiare dell'ebraismo, distante anni luce dalle versioni allora dominanti, compresa quella difesa dallo Stato di Israele, una concezione che negli scritti arendtiani, fino ad allora, era rimasta sottotraccia.
Saggio breve. L'autore si interroga sulla necessità di riformulare tematiche filosofiche riguardanti l'identità, la forma, lo spazio interiore, la centralità, il diritto alla città.
La Settima lettera è l’unico testo in nostro possesso in cui Platone parla in prima persona, raccontando della propria formazione giovanile, della delusione verso la politica di Atene, la sua città, e del tentativo – grandioso ma fallimentare – di educare il giovane tiranno di Siracusa Dionisio II, nella speranza di convincerlo a mettere in atto un governo filosofico. La lettera è, prima di tutto, un testo problematico: Platone ne è davvero l’autore? A chi si rivolge e con quali scopi? La sezione filosofica del testo è coerente con il pensiero platonico? Questa nuova traduzione commentata, oltre a restituire la bellezza della lettera e la sua attenzione ai dettagli storici e filosofici, tenta di rispondere a tali domande, mostrando che ci sono ottime ragioni per affermare che il suo autore è proprio il grande filosofo ateniese. Se è così, abbiamo la fortuna di poter leggere il testamento umano e filosofico di Platone.
Le "Meditazioni Cartesiane" riprendono il corso di quelle "Meditationes de Prima Philosophia" con cui René Descartes ha di fatto inaugurato la moderna filosofia della soggettività. Edmund Husserl adotta però il suo metodo fenomenologico, andando alla datità stessa delle cose per trovare un fondamento assoluto: la datità dell'io che medita e fa esperienza. Da qui si sviluppa il corso della quinta Meditazione Cartesiana, a ragione considerata uno dei vertici della produzione filosofica di ogni tempo: il tentativo di rendere conto dell'estraneo a partire da noi stessi, e del corpo dell'altro a partire dal nostro.
Che cosa hanno in comune La notte di Elie Wiesel, le fotografi e dell’Album Auschwitz, Notte e nebbia di Alain Resnais? La tragedia della Shoah, naturalmente.
Ma per quanto scandaloso possa sembrare, non solo. Ognuna di queste opere porta all’estremo i limiti del nostro vedere e ci spiega che certe immagini funzionano solo in virtù di ciò che non si vede, del loro fuoricampo e del vuoto che riescono a rendere percepibile. Il confronto con l’estremo continua a interrogare il nostro modo di relazionarci alle immagini che provano a raccontarlo e sfida il nostro sguardo a esercitarsi oltre i suoi limiti. Tocca alla teoria dell’immagine ricostruire il terreno per un ritorno alla morale e alla politica delle immagini, in grado di difendere la “causa dell’invisibile” e ripensarne la radice attraverso ciò che ci è dato vedere.
Le due conferenze inedite riunite in questo libro danno testimonianza della parola pubblica del più celebre antropologo francese e ci consentono di valutare il posto che il pensiero di Montaigne occupa nel percorso intellettuale di Lévi-Strauss, offrendo una visione nuova dell’opera dell’antropologo.
Nel 1937 Lévi-Strauss è a Parigi e dà una conferenza stupefacente: collocandosi sotto l’egida di Montaigne, proclama il carattere rivoluzionario dell’antropologia. Ma questa conferenza è importante anche per un altro motivo: attesta l’esistenza, finora sconosciuta, di un momento diffusionista nella riflessione del grande antropologo.
Nel 1992, in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, Lévi-Strauss torna a parlare della sua ammirazione per Montaigne e ci lascia intravvedere l’aspetto che, ai suoi occhi, connette Montaigne a Rousseau.
Le considerazioni di Nietzsche sono dette "inattuali" perché si pongono in contrasto con i valori dominanti dell'epoca e si presentano propedeutiche alla costruzione di un nuovo futuro. Questo volume, pubblicato nel 1876, è infatti una raccolta di quattro saggi che si occupano delle condizioni della cultura europea, con particolare attenzione a quella tedesca. Le due Inattuali più significative sono la seconda, Dell'utilità e dello svantaggio della storia per la vita, in cui viene definita la storia non come fatto in sé, ma come interpretazione di chi la racconta, e la terza, Schopenhauer come educatore, in cui Nietzsche, on maniera autobiografica, interpreta il filosofo tedesco cercando in lui la soluzione di problemi propri.
L'ideologia corrente esorta all'empatia confondendola con l'altruismo o persino con la bontà. È un errore fatale. Attraversando arte, filosofia e psicologia, questo libro smonta la connessione semplicistica e falsa tra morale ed empatia e ne costruisce una, più complessa, tra empatia e umanità. Tutti siamo empatici, ma non tutti siamo buoni. L'empatia, infatti, è necessaria anche ai torturatori, ai sadici, a chi - e il mondo contemporaneo, con i suoi muri e le sue derive securitarie ne fornisce innumerevoli esempi - contrappone il "noi" agli altri. Noi non siamo buoni perché siamo empatici ma possiamo diventare migliori conoscendo l'empatia, la sua forza, le sue strategie, i suoi segreti.
I due testi in dialogo che costituiscono la trama di questo libro sono una meditazione sul fantasma in quanto prodotto della fantasia e come luogo e soggetto dell'amore. Mescolando riferimenti e implicazioni, si propongono di confrontare, in una prospettiva inedita, due personaggi eccezionali: Guido Cavalcanti, il «primo amico» di Dante e l'ineguagliato maestro della fenomenologia amorosa, e Ibn Rushd, l'Averroè dei Latini, il filosofo arabo che più profondamente ha segnato il pensiero occidentale del XIII e del XIV secolo. Se per questi due autori la congiunzione con l'intelletto unico designa la perfezione suprema, è però la funzione del fantasma quella che, ogni volta, si rivela decisiva. Da questo punto di vista, Intelletto d'amore è la migliore introduzione che si possa immaginare a ciò che ancor oggi rende interessante Averroè, Cavalcanti, Dante e la poesia amorosa: la questione del fantasma, in quanto vi si espone il rapporto tra l'intelletto e il desiderio e la mutua implicazione, l'intreccio, del desiderio della conoscenza e della conoscenza del desiderio.