
"Se la luce è il linguaggio, come egli stesso afferma, essa è interna ai testi, s'irradia nell'ordito delle parole, dei sintagmi, delle frasi, delle immagini, dei versi. Il vocabolo non è provvisto di un'espressione piena, non è fermo punto di riferimento che attesti e fondi la consistenza del reale. L'esitazione, conseguente all'estrema consapevolezza che il poeta possiede, tra cosa e parola, tra cosa e immagine, tra presenza e il fatto di nominarla, dirla, interna al sentire e al fare poetico, sviluppa perifrasi e salti associativi a volte ardui ma avvincenti seppure 'legati' da amarezza, dolore, angoscia. E in ciò risiede in ultimo forse il segreto dell'opera di Michel Deguy." (Mario Benedetti)
In questa sua raccolta di liriche, Renato Pilutti, "squarcia le tele dell'illusione, svelle le antiche stabilità di quadretti poetici corrotti dalla ripetizione intimistica e dal dubbio crepuscolare, per 'transitare' lungo percorsi liricamente e sintatticamente piuttosto inconsueti, in direzione di prospettive pregne di atmosfere, sia fonetiche che visive, inedite, e tali da assegnare al termine 'transito' anche un significato di trasformazione semantica, oltreché di puro pellegrinaggio temporale, nella 'selva oscura' dell'esistenza". (Luigi Molinis)
Da quando l'umanesimo è stato messo a tema dei lavori del prossimo convegno ecclesiale di Firenze (novembre 2015), con il titolo programmatico In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, il dibattito sul senso di tale riferimento culturale sembra essersi riacceso. E tanto più di fronte alle profonde trasformazioni antropologiche in atto in un contesto storico e culturale sempre più plurale e contraddittorio. Ecco, allora, l'opportunità, proprio a Firenze, dove per primi "si imparò a dire la parola uomo con particolare intenzione" (Giovanni Paolo II), di provare a offrire un contributo di riflessione intorno all'idea di umanesimo. E di farlo a partire dall'eredità poetica e letteraria di Mario Luzi, uno dei grandi protagonisti della tradizione culturale fiorentina. Così, interrogarsi sull'umanesimo della poesia può significare - attraverso il contributo di alcuni tra i maggiori studiosi dell'opera di Mario Luzi, tornare a scoprire la poesia come cifra dell'umano: sforzo di portare alla parola, perfino in quella sperimentazione linguistica tanto cara a Luzi, il mistero della vita e così renderla veramente e pienamente umana.
Scrivere poesia è, per Agi Mishol, «trovare le parole tra cui scocchi una scintilla elettrica». Scintille che illuminano con il loro bagliore improvviso frammenti di vita quotidiana, il profilo di un oggetto, l'emozione di un incontro, la tenerezza di un contatto o di un ricordo. Figlia di una tradizione poetica millenaria, Mishol si muove nella realtà che la circonda trasfigurando la banalità del quotidiano, conferendo significati inattesi a gesti, momenti e paesaggi che credevamo di conoscere. Allo stesso modo il suo sguardo ora dolente e compassionevole, ora graffiante, ma sempre alieno da ogni retorica, si posa su squarci di storia recente e contemporanea sollecitando nuovi interrogativi e nuove risposte.
Nella lettera apostolica "Porta fidei" papa Benedetto XVI afferma: "La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. [...] Per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica". Proprio dalla lettura e dalla meditazione del Catechismo nasce quest'opera poetica, che si sviluppa seguendo tutti gli argomenti: la professione di fede con i misteri della Trinità, i sacramenti, la vita sociale, i dieci comandamenti, la preghiera.
Con un linguaggio in cui spiritualità e sensualità si abbracciano, la raccolta di poesie Sono Tua traccia la strada per vivere un rapporto autenticamente intimo con il Signore: un percorso difficile, a causa della fragilità umana, delle prove e dell’aridità, ma fondamentale per il riscatto di ogni uomo, anche nella sua dimensione comunitaria. L’importante è la consapevolezza di essere creature amate e guidate dalla misericordia divina, ammettendo di essere bisognosi: solo così ci apriremo all’azione della grazia e al conseguente zelo apostolico, compito di ogni cristiano.
Quando ho cominciato a studiare poesia a Yale verso la fine degli anni Settanta, il primo nome di poeta che chiunque avrebbe nominato era John Ashbery. Era l’uomo del mo- mento, il poeta del quale bisognava aver letto i lavori più recenti se davvero si voleva conoscere lo stato dell’arte ed essere à la page. Quando qualche anno fa ebbi l’occasione di tornare a Yale, dopo un quarto di secolo, il poeta di cui più parlavano i giovani lettori, il cui ultimo libro era un passag- gio obbligatorio, il cui lavoro sembrava essere al centro del momento culturale, era ancora John Ashbery.
— Joseph Harrison, dall’introduzione
La grande innovazione delle poesie di Ashbery sta nel fatto che esse non spiegano né simbolizzano e nemmeno si riferi- scono a qualche esperienza che il poeta ha avuto, qualcosa che è fuori di loro e nel mondo, qualcosa di precedente. Le poesie non sono “su” nulla, sono loro a essere qualcosa, esse sono la loro stessa creazione, e sarebbe più giusto dire che il mondo è, invece, una loro chiosa, un saggio critico su di esse. Con tutta la sua modestia e amabilità, nondimeno questa è la grande asserzione simbolista di Ashbery: che il mondo esiste per finire in un libro.
“Abbiamo bisogno di contadini,
di poeti, gente che sa fare il pane,
che ama gli alberi e riconosce il vento.
Più che l’anno della crescita,
ci vorrebbe l’anno dell’attenzione.
Attenzione a chi cade, al sole che nasce
e che muore, ai ragazzi che crescono,
attenzione anche a un semplice lampione,
a un muro scrostato.
Oggi essere rivoluzionari significa togliere
più che aggiungere, rallentare più che accelerare,
significa dare valore al silenzio, alla luce,
alla fragilità, alla dolcezza.”
“La prima volta non fu quando ci spogliammo
ma qualche giorno prima,
mentre parlavi sotto un albero.
Sentivo zone lontane del mio corpo
che tornavano a casa.”
Franco Arminio ha raccolto qui una parte della sua sterminata produzione in versi. Ma non è un’antologia, è un’opera antica e nuova, raffinata e popolare, un calibrato intreccio di passioni intime e passioni civili.
La prima sezione è un omaggio al paesaggio e ai paesi che Arminio racconta da anni nei suoi libri in prosa. La seconda ci presenta una serie di poesie amorose in cui spicca il suo acuto senso del corpo femminile. Dopo i testi intensi dedicati agli affetti familiari, le conclusioni sono affidate a una serie di riflessioni sulla poesia al tempo della Rete.
I versi di Arminio sono lavorati a oltranza, con puntiglio e cura, con l’obiettivo di arrivare a una poesia semplice, diretta, senza aloni e commerci col mistero. La sua scrittura è una serena obiezione alle astrazioni e al gioco linguistico, una forma di attenzione a quello che c’è fuori, a partire dal corpo dell’autore, osservato come se fosse un corpo estraneo. L’azione cruciale è quella del guardare: “Io sono la parte invisibile / del mio sguardo”.
Poeti cristiani latini dei primi secoli è un'ampia antologia della poesia cristiana, dal II al VI secolo dell'era cristiana. I testi sono tradotti da settanta poeti italiani contemporanei, ognuno dei quali ha tradotto in linguaggio poetico un autore dell'antichità sul modello di precedenti antologie curate per l'editore Bompiani (Lirici greci e Poeti latini) dallo scrittore e poeta Vincenzo Guarracino che ha coordinato il lavoro di tutti. Alcuni autori tradotti: Lattanzio, Damaso, Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Paolino da Nola, Agostino, Claudiano, Boezio. Tra i traduttori : P.Bigongiari, M.Luzi, R.Sanesi, P.Ruffilli, R.Mussapi, I.A.Chiusano, V.Volpini, A.Parronchi, R.Crovi, C.Ruffato, B.Garavelli, M.Beck, C.Ferrari, E.Coco, P.Lucarini, G.Ferri, G.Finzi, R.Nigro, G.Oldani, St.Zecchi, T.Crivellaro, F.Manzoni, P.Maffeo, S.Raffo, G.C.Pontiggia, M.Santagostini, F.Dainotti, F.Panzeri, V.Magrelli, R.Minore, C.Greppi, T.Rossi, E.Salvaneschi, L.Fontanella, O.Rossani, M.Cucchi...
La bambina pugile è tornata. La riconosciamo, la ritroviamo con la sua insonnia, la sua febbrile sensibilità, le sue debolezze e la sua incredibile forza. La seguiamo in un percorso poetico che evoca una sorta di narrazione emblematica. Si parte dalla casa. La vita di una persona emana dagli spazi dove è cresciuta. Portone, finestre, pavimenti, muri, scrivania, frigo, letto e cosi via: la bambina è come diffusa nelle cose, negli oggetti che l'hanno accolta. Poi esce nel mondo e deve inventarsi gli strumenti per percepirlo. Il libro diventa un viatico per «saper leggere le stelle - ma non la grammatica». O forse, più che guardare il mondo con occhi diversi, il passo ulteriore è essere il mondo: essere piuma, essere nuvola, essere luce. Infine c'è chi cade, tutti prima o poi cadono, ma nessuna caduta impedisce di «farsi vivi». Al di là di questo traliccio strutturale, la raccolta è molto fluida e per niente schematica. Nodi irrisolti si alternano e si intrecciano con un'esperienza mistica quotidiana, mite, senza enfasi di spossessione. Quella particolare voce, come d'infanzia, che già abbiamo conosciuto via via nei libri precedenti dell'autrice è ormai un meccanismo ad alta precisione con il quale Chandra Candiani riesce a far affiorare nella maniera più efficace ciò che non è visibile.
«La poesia, così come la prosa, sta semplicemente tornando a essere ciò che è sempre stata. Cinque secoli di silenziosa cultura tipografica sono solo una parentesi nella lunga storia, Foucault avrebbe detto "a pendenza lieve", dell'"arte del discorso" e della sua inseparabile gemella che riguarda tutti: "l'arte dell'ascolto". Ogni epoca può fare arte con i mezzi che si trova a disposizione, schizzare via più rapida di quanto ci sta già mutando, oppure ricorrere ai mezzi precedenti e già desueti, con i quali solitamente si cerca di tenere buoni e fermi coloro i quali, per loro stessa natura, sono in perpetuo transito. Se io metto su un congegno ad arte per tornare a ripeterti "sta buono lì", non è cambiato nulla, vuol dire che ho il mio interesse nel condividere la messa in stato con cui altre forze, mobilissime e fin troppo dinamiche, ci ripetono di stare tranquilli, perché tanto è tutto come prima. Ma se ti chiedo invece di "darti una mossa" e vivere veloce, allora vuoi dire che io, con te, quelle forze le voglio fregare, e che non voglio starmene fermo ad aspettare che decidano la mia sorte». Gabriele Frasca