Come scrive Tito Orlandi nella presentazione del volume, "quello che lo distingue da trattati per alcuni versi similari è il suo essere concepito come esposizione sistematica dei problemi per le persone colte interessate, ma anche e forse soprattutto come manuale ampio ed esauriente rivolto all'insegnamento e all'apprendimento universitario. L'esigenza è oggi sentita, ed è un grande merito che sia stata colmata. Non sta naturalmente a me di illustrare il contenuto e le caratteristiche del libro; tuttavia accennerò, perché mi hanno particolarmente colpito, la trattazione dei due modi di vedere l'informatica umanistica, la quantità di informazioni su siti web e software utili all'utente, l'insistenza sui concetti di base, il coraggio nell'invitare a scegliere software difficili ma seri". Il volume cerca di muoversi tra teoria e prassi, secondo la prospettiva della 'scuola romana' che riconosce appunto in Orlandi il suo ispiratore fondamentale, e di ricondurre lo sviluppo dell'informatica umanistica, e principalmente dell'informatica testuale, a esigenze profondamente radicate nella storia della filologia e della cultura occidentale, dal mondo ellenistico, alle indicizzazioni bibliche medievali, alla filologia 'quantitativa' otto-novecentesca.
Quando uscì nel 1997, Homo videns di Giovanni Sartori suscitò un ampio dibattito sull'onda delle preoccupazioni causate dalla nuova configurazione del sistema mediatico. La televisione aveva realizzato il suo processo di egemonizzazione del contesto comunicativo, mettendo in secondo piano o ai margini gli altri media. Si parlava di videocrazia, di un'invasività della presenza dell'immagine televisiva in grado di condizionare o addirittura cancellare ogni altra esperienza. La radicalità della tesi sartoriana ha suscitato consensi e critiche, ma ancora oggi, a oltre vent'anni di distanza, Homo videns offre spunti di riflessione sui principi a cui le tecniche e le pratiche giornalistiche si ispirano e sulle ricadute che producono sulla società. Da tempo, il grande strumento di comunicazione in grado di incidere sull'opinione pubblica non è più la televisione, ma la Rete. Le riflessioni di Sartori si possono tuttavia estendere ai media che l'hanno sostituita in quel ruolo egemone e pervasivo? Per verificarlo, le analisi esposte in Homo videns sono state qui sottoposte alla rilettura di prestigiosi giornalisti e intellettuali (Luciano Fontana, Peter Gomez, Giuseppe Laterza, Venanzio Postiglione, Barbara Stefanelli, Sergio Romano), che in queste pagine fanno luce sui rapporti tra media e società contemporanea.
Viviamo nell'era del digitale, è un dato di fatto, e gli schermi sono ovunque: in ufficio, a scuola, a casa, nelle nostre tasche. Per dovere o per svago, gli occhi tornano sempre lì. Specie quelli dei più giovani, visto che li usano come principale - se non unico - canale d'intrattenimento. Qualche cifra? In Occidente, i bambini sotto i due anni trascorrono in media tre ore al giorno davanti a un monitor. Tra gli otto e i dodici anni le ore diventano cinque, e salgono a sette tra i tredici e i diciotto. Possibile che un'attività tanto pervasiva non impatti sul loro sviluppo? Per anni ci siamo lasciati cullare dal mito che vedeva nei nativi digitali i fortunati destinatari di un balzo evolutivo, da Homo sapiens a Homo numericus: multitasking, più attento e intuitivo, pronto a cogliere le infinite possibilità offerte dalla Rete. Una visione dorata diffusa anche da media, sedicenti «esperti» e divulgatori non meglio qualificati. Troppo a lungo gli interessi di pochi e l'accondiscendenza di molti ci hanno spinti a ignorare i messaggi allarmati della scienza, proprio come è successo per il tabacco, i cambiamenti climatici e gli alimenti pieni di zuccheri. Sì, perché le ricerche sono ormai concordi: tutto quel tempo passato davanti a uno schermo ha gravi conseguenze su salute, comportamento e capacità intellettuali dei nostri figli. Finalmente, in queste pagine, un neuroscienziato ci presenta i dati per come sono: preoccupanti, e tali da imporre un immediato cambio di rotta.
Quella attuale è la prima generazione di genitori ad affrontare l'era dei social network e a crescere quelli che vengono chiamati “nativi digitali”. al riguardo non ci sono esempi da seguire e strade già battute da percorrere, ma il compito educativo da assolvere rimane identico e ai ragazzi va insegnato come vivere sia nella vita offline che in quella online. Questo volume si propone di aiutare i genitori di bambini e ragazzi a capire i meccanismi e le dinamiche di questo nuovo “ecosistema” in cui online e offline si incontrano, si intrecciano e si condizionano a vicenda. Il volume è organizzato in modo da fare esperienza non solo delle principali app e social network che abitano il web, ma anche di come i figli le utilizzano e come le “vivono”: prendere sul serio la “dimensione digitale” delle relazioni dei ragazzi è indispensabile per aprire un dialogo.
Un manuale di «primo soccorso» per ragazzi e famiglie, utile per comunicare sempre meglio in rete, sviluppare la propria autonomia senza rinunciare a neanche un follower o un like, diventare più abili nel distinguere i fatti verificati dalle bufale, imparare a riconoscere ciò che più ci serve nella tv in streaming, nei giornali online, nei siti e nei più diversi link. A farci da guida un giornalista di lungo corso che racconta - con la sua esperienza un po' in tutti i media - i suoi punti di vista a proposito di rete e tv, radio e giornali, public speaking e social. E contemporaneamente suggerisce a giovani e genitori di non considerare i nuovi modi di comunicare solo passatempi o poco più, o semplici scorciatoie per fare incontri e amicizie, ma nuove, importanti opportunità di lavoro. Dall'influencer allo sviluppatore di app, grazie ai new media stanno nascendo di continuo nuovi mestieri: ne potrà approfittare chi comunica meglio, chi sa individuare e coltivare le proprie attitudini, puntando a migliorarsi sfruttando la stessa rete. È la scommessa (e l'augurio) che questo libro vi propone di accettare. Senza paure e con lucidità. Prefazione di Mario Morcellini.
La filosofia pone domande, ma porre domande non è la cosa più importante, bisogna porre quelle giuste al momento giusto per avere risposte significative e corrette. La filosofia è un'impresa costruttiva in cui l'analisi delle domande aperte è il terreno preparatorio per il design di risposte soddisfacenti. La filosofia è necessaria per ripensare ciò che si può definire progetto umano. E la filosofia evolve come evolve l'umanità. Oggi l'indagine filosofica non può prescindere dalle tecnologie digitali che influenzano e formattano la nostra comprensione del mondo e la nostra relazione con esso. È in corso una rivoluzione, ma il discorso filosofico potrebbe non prendervi parte a meno di riavviare il sistema, proprio come si fa con un computer. Nell'era "onlife" la filosofia è necessaria per dare senso ai cambiamenti radicali prodotti dalla rivoluzione dell'infosfera, ma occorre che sia davvero buona filosofia per affrontare le grandi difficoltà che abbiamo davanti.
In un mondo fatto di dati, che ognuno di noi cede inconsapevolmente, occorre costruire un nuovo rapporto tra gli utenti e le piattaforme digitali, aiutando gli individui a contrastare i giganti del web che le utilizzano nei campi più disparati solo per massimizzare i loro profitti. Per riuscire in questa sfida da cui dipende una parte significativa del nostro futuro dobbiamo prima di tutto riprenderci i nostri dati digitali e poi condividerli con quelli degli altri, in maniera trasparente, democratica e mutualistica. Chi può aiutarci meglio della cooperazione, con i suoi principi etici e la sua storia secolare di unione e organizzazione dei deboli per uscire dallo sfruttamento? Nel mondo stanno nascendo esempi di questa nuova cooperazione digitale. Ma è in Europa che si può avviare un progetto dove la tutela attiva e auto-organizzata dei dati digitali di 500 milioni di cittadini-consumatori, consenta di dare vita ad uno spazio economico e sociale digitale basato su libertà, pluralismo, democrazia e responsabilità piuttosto che sull'egoismo.
Da dove parte il testo? Qual è l'obiettivo a cui punta? L'autore si ispira al comandamento più "umano" in assoluto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso», e prova a trapiantarlo nelle dinamiche di un'umanità sempre più orientata dalle logiche del digitale. Cosa significa amare quanto la prospettiva e l'ambiente è digitale? Come pensare la prossimità quando il toccarsi spesso non è fisico? A partire da queste offre una riflessione che si muove su un doppio binario. Da una parte un'indagine di tipo socio-antropologico. Dall'altra una prospettiva pastorale per passare, come direbbe Francesco, da un'analisi a una terapia, fatta di dialogo, ascolto, tenerezza.
Internet e i social network rappresentano, oggi più che mai, una sfida per la Chiesa e le comunità, poste davanti a una nuova sfida educativa che invita a ripensare il modo di «comunicare» dentro e fuori le reti sociali, per dare maggiore valore alle relazioni interpersonali, al dialogo, all’incontro.
L’importanza dell’integrazione, della partecipazione collaborativa e della cooperazione convergente sono i nodi che l’autore affronta per sottolineare l’importanza di ripartire dalla realtà delle persone e dalla verità di relazioni autentiche. Solo con la comunicazione interpersonale è possibile creare comunità che nei social network possono diventare community credibili, ridando alla Rete il senso e significato più intenso e affascinante: quello della condivisione e dell’interazione.
Un saggio che si occupa di una questione piccola, vicina, ordinaria – quel “mettere like” che facciamo decine di volte al giorno – per mostrarne la grandezza, la serietà e gli effetti che ha sul nostro vivere in società. Non si tratta di un testo apocalittico che sfrutta lo spaesamento dato dalla rivoluzione digitale per trasformarlo in facile invettiva contro l’invasione della tecnologia delle nostre vite, ma di una riflessione che, nel ripercorrere la storia del like e i suoi meccanismi, ha come esito quello di chiamare a una maggiore responsabilità e partecipazione tutti gli utenti dei social network, e non solo.
La rete sembra così pericolosa... Non facciamo altro che rimproverare i nostri figli, perennemente incollati a Facebook o Instagram. Per loro, invece, significa cercare sempre nuove case, nuovi spazi virtuali dove sentirsi liberi, dove ritrovarsi, creando piccole comunità social che danno l’illusione di quell’attenzione, di quel bene desiderato che manca nella vita vera.
Ma, in fondo, gli adulti non fanno lo stesso? Fingono di lavorare, e intanto smanettano tutto il giorno sullo smartphone. Dove parlano di amenità, commentano notiziole o attuano tradimenti di amici e amori con un messaggino. I bambini ci guardano, i ragazzi pure.
Come utilizzare al meglio le risorse della rete? Come recuperare il dialogo con i nostri figli e aiutarli a crescere verso una maggiore libertà? L’Autrice, prendendo le mosse da una serie di situazioni reali, offre spunti di riflessione, consigli pratici e risposte su un tema che ci vede sempre più coinvolti.
Come fanno le serie tv di nuova generazione a tenerci incollati allo schermo, spingendoci a guardare dieci puntate di fila e a parlare dei protagonisti come se fossero i nostri amici più cari? Quasi mai per caso, né per l'idea geniale di un solo showrunner, bensì grazie allo sforzo creativo e collaborativo che avviene nella «stanza degli autori». In "Complex Tv" lo studioso di televisione e media Jason Mittell ci accompagna lungo la filiera delle serie, dall'ideazione alla produzione, dalla ricezione del pubblico alla gemmazione dei paratesti. In questo percorso l'autore ci spiega cosa distingue la «televisione complessa» da quella del passato, con particolare attenzione allo storytelling e alle tecniche peculiari del mezzo. Emancipandosi dalla narratologia tramite un linguaggio nuovo e dedicato, esamina tutti i capisaldi di questo formato e i fenomeni a essi associati: dalla rivoluzione apportata dai "Soprano" al successo irripetibile di "Lost", dalla struttura comica complessa di "Arrested Development" e "How I Met Your Mother" fino alla radicale trasformazione di Walter White in "Breaking Bad". "Complex Tv" non si rivolge soltanto agli appassionati: oltre a essere lo strumento che mancava per analizzare questa nuova arte, può rivelarsi prezioso per chiunque voglia scoprire (e magari imparare) i segreti dello storytelling.