
In questo breve romanzo del 1986 Sciascia affronta un seicentesco caso di stregoneria, dedicando all'episodio - in apparenza uno dei tanti depositati nei nostri archivi - una scrupolosa ricostruzione. Nello sbrogliare l'esasperante "pasticciaccio" tuttavia egli non si limita a consegnarci una delle sue miniature microstoriche, ma dilata l'avversione della Chiesa Cattolica per le "antiche fantasie e leggende" a metafora dell'eterno schema che vede ogni "sistema dominante" combattere tutte le fonti di "ingiustizia, miseria e infelicità" nel momento in cui "ingiustizia, miseria e infelicità" vengono da quello stesso sistema "in maggiore quantità e con accelerazione prodotte".
Ricercatore appassionato e acutissimo, ma anche narratore di straordinaria efficacia, nelle Leggende degli ebrei Ginzberg è riuscito a dar conto della vertiginosa stratificazione delle storie, delle parabole, delle divagazioni che la tradizione ebraica ha tramandato in margine al testo biblico in un racconto affascinante che dalla creazione e dal diluvio si dipana fino al ritorno dalla cattività babilonese e alla strabiliante avventura della regina Ester, passando per le vicende dei patriarchi e delle loro molte spose, le aggrovigliate storie dei dodici figli di Giacobbe, la tormentata epopea di Mosè, la lunga erranza del popolo d’Israele nel deserto e il suo ingresso nella Terra Promessa.
Il primo volume contiene l’intero corpus delle leggende, il secondo l’apparato critico costituito dalle Note con i riferimenti e il commento dell’autore, dal Repertorio bibliografico e da un Glossario dei termini ebraici, cui si affiancano qui, per la prima volta, un corposo Indice analitico e un Indice delle fonti.
A Lukones, in una villa isolata, una madre e un figlio si fronteggiano. Lui, don Gonzalo, che le dicerie vogliono iracondo, vorace, crudele e avarissimo, è divorato da un male oscuro, quello che «si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita». Lei, la Signora, è ridotta da una desolata vecchiezza e dal lutto per la morte dell'altro figlio (il «suo sangue più bello!») a una spettrale sopravvivenza. Li unisce un amore sconfinato, li separa un viluppo di gelosia, senso di colpa, rancore, dolore - preludio al più atroce degli epiloghi. Intorno a loro una casa dissennata, feticcio narcissico ed epicentro di ogni nevrosi, estremo rifugio e tomba, e un'immaginaria terra sudamericana identica alla nostra Brianza, vessata dai Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche ? che a tutti vorrebbero imporre la loro violenta protezione ?, assediata da robinie e banzavóis, disseminata di strampalate ville, popolata di «calibani gutturaloidi» che come miserabili Proci dilapidano le attenzioni della Signora. E che Gonzalo vorrebbe cancellare, insieme al barcollante feudo e a tutte le «figurazioni non valide». Perché il «male invisibile» da cui è affetto lo condanna a distinguerle e negarle, quelle «parvenze»: a respingere la «cara normalità», la turpe contingenza del mondo. Anche a prezzo di negare se stesso, anche a prezzo della più dura cognizione, quella che consegna alla solitudine e alla «rapina del dolore».
Da sempre, ogni società si fonda su una serie di presupposti – una fede, un’ideologia, una religione – che trascendono la vita dei singoli individui e costituiscono l’essenza di un’identità collettiva: credenze che hanno l’eccezionale potere di definire, e dividere, i popoli, e che oggi come ieri sono una forza propulsiva della politica in gran parte del mondo. Credenze a volte laiche, come nel caso dei nazionalismi, ma più spesso, nel corso della storia, religiose. Indagando su questo aspetto centrale dell’esistenza umana, in Vivere con gli dèi Neil MacGregor viaggia – e ci fa viaggiare – nel tempo e nello spazio, guidandoci in un’illuminante avventura tra le fedi. Da Vanuatu alle Alpi sveve all’Acrocoro etiopico, dall’Era glaciale all’epoca Zhou ai giorni nostri, MacGregor passa in rassegna oggetti, luoghi e attività umane per mostrarci come la religione abbia sempre plasmato la vita pubblica, improntando le relazioni tra gli individui e gli Stati – e come abbia contribuito a fare di noi ciò che siamo oggi: «“Chi siamo ‘noi’?” è la grande questione politica del nostro tempo, e riguarda essenzialmente quello in cui crediamo».
Gli “Assassini” sono noti come una cerchia di fanatici sicari musulmani, responsabili di un numero enorme di delitti efferati e di azioni suicide, che compivano nella convinzione di guadagnarsi così il paradiso – questo almeno era quanto credevano dopo essersi storditi con l’hashish (donde il loro nome arabo Hayiyiyyun, “assassini”). Sin qui la leggenda. Ma la vera storia dei Nizariti (questo il nome della setta) è ben più affascinante. Nati nel 1094 da uno scisma interno all’Ismailismo, a sua volta un ramo dello Sciismo, i Nizariti conquistarono in breve tempo una serie di fortezze tra la Siria, l’Iraq e l’Iran e vi si asserragliarono. Da lì lanciarono una sfida all’intero mondo islamico, che li considerava temibili eretici, e per quasi due secoli seppero tenergli testa sia militarmente sia culturalmente, elaborando una versione dell’assetto sociale, politico e religioso dell’Islam radicalmente alternativa a quella sunnita che si andava allora affermando. E il coronamento di questa visione fu, nel 1164, la proclamazione della Qiyama o “Risurrezione”, cioè l’abrogazione dei vincoli della sari‘a, la legge religiosa, e l’istituzione del Paradiso in terra con la rinascita dei fedeli nizariti a una vita spirituale immortale. In questo libro, divenuto subito un classico, Hodgson non solo traccia per la prima volta la complessa storia dei Nazariti, ma ne ricostruisce la raffinata e stupefacente dottrina, a partire dai testi sacri della setta e dai dotti scritti dei loro strenui oppositori.
Come testimoniano i due studi qui riuniti, per Gior­gio Colli la ricerca filologica sui testi del pensiero greco è fin dall’inizio – in sintonia con la lezione di Nietzsche – inseparabile dalla riflessione teoreti­ca. E centrale, nel suo percorso speculativo, si rive­la subito Empedocle, sul quale Colli si concentra già nella tesi di laurea, e di frequente negli scritti successivi. All’interno di una cornice costituita dal complesso rapporto fra sostanza e divenire, fra uni­tà e molteplicità – nodo metafisico essenziale per comprendere la grecità e il pensiero stesso –, Colli mostra come per Empedocle non vi siano due real­tà, una trascendente rispetto all’altra, ma noume­no e fenomeno avvinti, e come la radice metafisica, l’interiorità di ogni realtà individuale, sia costituita dal suo impulso vitale a congiungersi con il tutto e a ritrovarsi in esso. Empedocle è dunque un misti­co che vive e considera come inseparabili la dimen­sione mortale e quella immortale, aspetti polari di una medesima natura la cui trascendenza è irridu­cibile a una spiegazione razionale.
«... quando mi viene un’idea di qualcosa da scrivere, breve o lunga che sia,» ha dichiarato Sciascia «non so in prima se mi prenderà la forma del saggio o del racconto». Opera in lui, infatti, un «gioco costante di correlazione» tra queste due forme: il che fa sì che riesca a essere, come pochi altri, «saggista nel racconto e narratore nel saggio». E non sarà difficile, ripercorrendo – dopo quella ‘impura’ dei racconti-inchieste, delle ‘inquisizioni’ e delle cronachette affidata al precedente volume – anche la produzione saggistica in senso proprio, rintracciarvi un’innata vocazione alla fabula. La ritroveremo nei libretti dedicati al ‘padre’ Pirandello, al quale lo ha legato un rapporto così intenso da sfiorare l’ossessione («Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scontrosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi»), vale a dire Pirandello e il pirandellismo, Pirandello e la Sicilia e Alfabeto pirandelliano; nelle raccolte come La corda pazza, Cruciverba e Fatti diversi di storia letteraria e civile, dove più si rivela il suo stendhalismo (nel senso di mobilità del pensiero, trasparenza e dilettantismo, inteso come ‘dilettarsi della vita’); e persino negli interventi che hanno fatto di lui, nel Novecento, lo scrittore disturbante per eccellenza: quelli dedicati alla mafia, al terrorismo e alla situazione della giustizia italiana, radunati in A futura memoria.
Sono passati quasi cinque secoli da quando è apparso questo inusitato, sconcertante romanzo, eppure lo stupore che proviamo nel leggerlo è lo stesso di allora. L'identità del suo autore resta avvolta nel mistero, ma una cosa è certa: nessuno prima di lui aveva mai osato tanto. Nessuno aveva avuto l'audacia di demolire tutti i modelli tradizionali e di trasformare il figlio di un mugnaio, Lazaro de Tormes, e la sua miseranda realtà quotidiana in materia di romanzo. Ed è Lazaro, per di più, a raccontarci in prima persona, con esplosiva verve, le indiavolate peripezie che ha passato prima di conquistare un posto nella pubblica amministrazione e l'agognato benessere. Rimasto orfano di padre, apprendiamo, è entrato al servizio di un astuto cieco, tanto abile nello spillare quattrini come guaritore quanto avaro, meschino e manesco. E a questa dura scuola che ha imparato a padroneggiare il gergo e i trucchi della malavita, e a non lasciarsi sopraffare, benché sempre più smunto e sfinito, dai padroni che si sarebbero succeduti: fra i quali spiccano, indimenticabili, un chierico che pare concentrare in sé « tutta la pitoccheria del mondo », un hidalgo che maschera dietro un'aria pomposa e soddisfatta la più nera miseria, e un impudente, ingegnosissimo spacciatore di indulgenze. Peripezie che danno vita a un racconto ameno, pieno di grazia, « a una meraviglia di humour e di umanità, a un torrente d'ingegno e di ironia benevola non meno che implacabile » (F. Rico) : e che ci invitano ancor oggi ad abbandonarci al puro piacere della lettura. Curata dal maggior studioso del Siglo de Oro, questa nuova edizione propone un sorvegliatissimo apparato di note, che illustra citazioni, riferimenti, usi e 'realia' non ovvi per il lettore comune, e, in appendice, il testo critico spagnolo stabilito dallo stesso Francisco Rico.
Walpola Rahula, il primo monaco buddhista a divenire titolare di una cattedra universitaria in Occidente, ha offerto con questo libro un'introduzione al buddhismo che, a sessant'anni dalla sua pubblicazione, conserva intatte la sua freschezza e attualità e rimane imprescindibile per chiunque voglia accostarsi a questa tradizione millenaria. Con un linguaggio semplice e accessibile e un'esposizione chiara e diretta, corroborata da un costante rinvio alle parole del Buddha, Rahula tocca tutti i luoghi classici della dottrina e dell'etica buddhista, dalle Quattro nobili verità all'Ottuplice sentiero, dalla nozione del non-sé alle diverse forme di meditazione. Rahula si propone inoltre di adattare, senza tradirlo, l'insegnamento del Buddha alle esigenze della vita moderna e laica, evidenziandone l'utilità e l'eminente pragmatismo e rispondendo ai quesiti che chiunque si interessi di buddhismo è destinato a porsi: il Sentiero di mezzo è una religione o una filosofia? Che cosa significa «vivere nel momento presente»? Che cos'è il nirvana, e chi lo consegue se non esiste un «io»? E ancora: il buddhismo è un ideale irraggiungibile o, al contrario, è praticabile anche nel mondo di oggi? Prefazione di Paul Demiéville.
Come i suoi lettori ben sanno, il tratto che accomunava le varie facce di quella personalità unica che è stato Oliver Sacks era la passione. Una passione destinata ancora una volta a contagiarci, giacché in questo libro ritroveremo tutta la vitalità dell’uomo curioso, l’acutezza dello scienziato, l’empatia del medico, la brillantezza dello scrittore. Risaliremo, sul filo dei ricordi, alla genesi di tante sue inclinazioni: quella per il nuoto, trasmessa dal padre; quella per la storia naturale, maturata nel corso delle visite al Museo di Storia naturale a South Kensington; quella per le biblioteche, innescata dagli scaffali del salotto di casa. Ammireremo la sua non comune capacità di auscultare le neuropatologie e le psicopatologie come fossero irruzioni di antropologie aliene, dalla « figura di cera » congelata nell’immobilità per un « coma ipotiroideo » ad alterazioni percettive quali gli « arti fantasma », dai sintomi terribili dell’encefalite letargica ai più eccentrici disturbi della cognizione o dell’umore. Rimarremo colpiti dalla molteplicità di temi e interessi coltivati in un’esistenza fatta di molte esistenze sovrapposte, dalla vita extraterrestre alle varietà zoologiche – elefanti, oranghi, pesci – ai giardini e agli orti botanici. E ancora una volta ci faremo trascinare da quella voce perturbante e partecipe, ironica e intensa che connotava – « non importa se nella contemplazione di un’opera d’arte, di una teoria scientifica, d’un tramonto o del volto di una persona amata » – la sua inesauribile voracità conoscitiva.