Apparso per la prima volta nel 1979, "Centuria" viene ripresentato in un'edizione che affianca agli originali "cento piccoli romanzi fiume" non solo trentuno "altre centurie", ma anche sette racconti scartati da Manganelli nel corso dell' elaborazione dell'opera. Arricchisce il volume il saggio che Italo Calvino scrisse nel 1985 per presentare al pubblico francese la traduzione di "Centuria".
È difficile immaginare qualcosa di altrettanto distante dall'oggi quanto ciò che apparve più di tremila anni fa nell'India del Nord sotto il segno del Veda, quel "sapere" che dichiarava di comprendere in sé tutto, dai granelli di sabbia sino ai confini dell'universo. Ancor più che nel tempo, quella distanza si avverte nel modo di vivere ogni gesto, ogni parola, ogni impresa. Gli uomini vedici prestavano una attenzione adamantina alla mente che li reggeva, per loro mai disgiungibile da quell'"ardore" da cui ritenevano si fosse sviluppato il mondo. E, qualsiasi cosa accadesse, acquistava senso solo in rapporto a un invisibile traboccante di presenze divine. Fu un esperimento del pensiero così estremo che sarebbe potuto scomparire senza lasciare traccia, così come gli uomini vedici lasciarono ben poche tracce tangibili del loro passaggio attraverso "la terra dove vaga in libertà l'antilope nera". Eppure quel pensiero - groviglio composto da inni enigmatici, atti rituali, storie di dèi e folgorazioni metafisiche - ha l'indubitabile capacità di illuminare, con una luce radente e diversa da ogni altra, alcuni eventi elementari che appartengono all'esperienza di chiunque, oggi e dappertutto, a cominciare dal puro fatto di essere coscienti.
"Questa non è una storia dell'India. Di quel paese, quando salpai alla sua volta, sapevo all'incirca quanto ricordavo dagli anni di scuola: che c'era stato un ammutinamento, per esempio, e che a vederlo sulla carta somigliava un po' a un Cervino capovolto; rosa, perché lo governavamo noi". Intorno alla metà degli anni Venti, senza alcuna preparazione e nemmeno una vaga idea di quello che lo aspetta - unico requisito richiesto, oltre alla cittadinanza inglese, era la somiglianza con il vichingo Olaf, personaggio leggendario di un romanzo di Rider Haggard -, il giovane Ackerley decide di partire per l'India, accettando di rivestire l'improbabile ruolo di segretario privato del Maharaja di Chhokrapur: invisibile staterello che oggi sarà vano cercare sulle carte, "posto che sia mai esistito". Infantile, lussurioso, ossessivo, smanioso di Assoluto e occidentalista all'estremo, Sua Altezza assillerà Ackerley con le domande più impensate e sulle questioni più insondabili, non ottenendo nient'altro che una serie di evasive risposte, ma trovando quello che forse, in fondo, cercava: un amico. Degli incontri giornalieri con il Maharaja e con gli altri non meno irresistibili personaggi che frequentano la sua corte è fatto questo libro: più che un diario di viaggio, un'esilarante e indimenticabile commedia di costume, e insieme una preziosa testimonianza involontaria sull'India al tramonto della colonizzazione.
Chi nasce oggi in una grande città - o anche in campagna - non ha molte occasioni per vedere animali, se non gli antichi testimoni della vita domestica: cani e gatti. Ma gli animali continuano a visitarci, per lo meno nei sogni. E ci ricordano un'altra vita - ormai remota e lunghissima - in cui gli uomini erano stati una specie mescolata a molte altre. Anche in cielo, le costellazioni dello Zodiaco - il cui nome stesso significa luogo degli animali - disegnano la mappa di una zoologia che non cessa di manifestarsi. Più di ogni altro fra coloro che hanno preso le mosse da Jung, James Hillman ha saputo interrogarsi su queste "presenze" e inchinarsi davanti al loro potere, come mostra questo libro, che è una guida per chi voglia riconoscere che cosa sono gli animali in noi.
"Balzac sembra un oste, Joyce il contabile di un'impresa di pompe funebri, Eliot il direttore di una clinica psichiatrica, e Heinrich Mann un farmacista che abbia appena deciso di avvelenare i suoi concittadini senza eccezione": sono le considerazioni suggerite alla Szymborska dalla lettura di un Piccolo dizionario degli scrittori di tutto il mondo. O meglio: dall'apparato iconografico, giacché è su quello che si è concentrata tutta la sua attenzione. Difficile immaginare un recensore più idiosincratico, inaffidabile, parziale. E più irresistibile. Le sue, d'altro canto, non sono neppure recensioni: piuttosto, letture "non obbligatorie", rapporti di un'impagabile lettrice amatoriale. Che ad ogni libro che le capiti fra le mani - libri che altri disdegnerebbero, del genere Il Guinness dei primati del cinema - sa guardare da un'angolatura che ci spiazza e ci conquista. Chi se non la Szymborska ammetterebbe, con disarmante franchezza, di aver colto, nei Sette stati della materia, solo qualche frase, e saprebbe poi trasformare la sconfitta in una geniale riflessione sullo snobismo di chi coltiva "l'antica aspirazione a sapere tutto, sia pure a grandi linee"?
Questo libro è la storia di una bambina nata ad Alessandria d'Egitto, dove ha vissuto un'infanzia felice esplorando con sagace curiosità un universo in cui il "vento della Storia" coesisteva con "l'odore di putrefazione, la lebbra che corrode i muri, i fiori selvatici che spuntano alla rinfusa, le risate libere e impertinenti, l'allegro fatalismo"; una bambina che, a differenza delle sue coetanee, amava le battaglie navali e "conosceva a menadito la differenza tra i cannoni da 36 libbre e quelli da 32" - e il cui eroe era Lawrence d'Arabia. Ma è anche la storia di un'avventuriera: quella in cui ha saputo trasformarsi la protagonista dopo essere stata costretta ad abbandonare la luce della sua terra e il profumo del suo mare, lasciandosi alle spalle un Oriente fantasmatico e partendo alla ricerca di un Occidente che lo era almeno altrettanto. Ed è soprattutto la storia di una donna che, soffocando la tentazione vana della nostalgia, ha affrontato a testa alta, come una sfida del destino, le umiliazioni dell'esilio e gli inevitabili rischi che comporta l'essere, sempre e ovunque, la straniera; e che è riuscita, con le sole armi della tenacia e dell'ironia, a diventare, in qualche modo, ciò che sognava di essere: un ammiraglio - e a portare a termine, al pari di Ulisse, il proprio viaggio. Senza tuttavia mai perdere - come ha detto l'autrice stessa in un'intervista - "quella malinconia, tipica dell'esule, che la induce a chiedersi in ogni momento se è davvero al posto giusto".
Tredicesimo volume della raccolta delle opere di Maigret. Le inchieste del commissario Maigret raccolte in questo volume sono state scritte tra l'ottobre del 1963 e il dicembre del 1966.
"Quello che mi interessa è poter scrivere un reportage esattamente nello stesso modo in cui scriverei un libro" afferma Emmanuel Carrére. Così, della "Giungla" di Calais, non ci racconta il fango, la violenza e la miseria del campo, bensiì tutto quello che c'è attorno: la rabbia e la frustrazione di una parte dei calesiani; la compassione e la solidarietà di un'altra parte; le fabbriche e i quartieri abbandonati; l'immane apparato poliziesco; il circo mediatico; il "turismo del dolore". E lo fa nel suo modo affabile e diretto, con lo sguardo, insieme lucido ed empatico, di chi si interroga costantemente su tutto - anche su se stesso.
"C'era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un'amante giovane; l'amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi". È probabile che il lettore di oggi, aprendo "Una risata nel buio" e leggendone le prime righe, abbia la stessa reazione del suo editore americano nel 1938. Ma come, si era detto il disgraziato, questo Nabokov mi ha chiesto di ritradursi il libro da solo perché la versione uscita tre anni prima in Inghilterra lo aveva sconciato, e adesso mi presenta con un altro titolo un testo completamente diverso da quello che ho letto? E con un attacco che dice tutto? E ora cosa racconterà, visto che la trama l'ha svelata subito? Sono tutte domande legittime, ma futili. E, soprattutto, contengono già le risposte. L'autore aveva rifatto Kamera obskura - questo il titolo della prima versione - perché continuava in realtà a riscrivere la storia che avrebbe portato fino in fondo solo vent'anni dopo, in Lolita. E aveva scelto quell'attacco perché nel frattempo si era formato una sua personalissima idea del gioco infinito e appassionante che, prima di tutto, un libro deve essere. Quanto al resto della storia, alla materia che il romanzo in tre righe con cui inizia non contiene - be', molto semplicemente, è la letteratura. Ovvero, per usare un suo sinonimo corrente, Vladimir Nabokov.
Più volte nei suoi interventi pubblici Anna Maria Ortese ha denunciato i delitti dell'uomo «contro la Terra», la sua «cultura d'arroganza», la sua attitudine di padrone e torturatore «di ogni anima della Vita». E lo ha fatto pur nella consapevolezza che il suo grido d'allarme sarebbe stato accolto con impaziente condiscendenza da chi sembra ignorare che ciò che rende l'uomo degno di sopravvivere è la sua «struttura morale: intendendo per morale ogni invisibile suo rapporto, ma buon rapporto, con la vita universale». Quel che ignoravamo è che tali interventi, che additavano nello sfruttamento e nel massacro degli animali, nella natura offesa e distrutta il nostro più grande peccato, non erano isolate e volenterose prese di posizione, bensì la punta emergente di un iceberg. Un iceberg rappresentato da decine e decine di scritti inediti, nei quali la Ortese è andata con toccante tenacia depositando quel che le dettava la sua «coscienza profonda», vale a dire la memoria, riservata a pochi e supremamente impopolare, «delle “prime cose” preesistenti l'universo» – in altre parole, la visione che la abitava. Scritti di cui qui si offre una calibrata selezione e che nel loro insieme si configurano come un vero e proprio trattato sull'unica religione cui la Ortese sia stata caparbiamente fedele: la religione della fraternità con la natura.