Ha scritto Addison che quando sogniamo l'anima "conversa con innumerevoli individui di sua creazione e si trasferisce in diecimila scene di sua immaginazione": l'anima è, insomma, "il teatro, l'attore e lo spettatore". Ma anche, soggiunge Borges, l'autore della storia cui assiste, sicché i sogni rappresentano un vero e proprio genere letterario - il più antico. E muovendo da questa tesi "pericolosamente suggestiva" ci offre i materiali per una storia generale dei sogni (e degli incubi, "vago agguato del male") che attinge alle sue opere (basti pensare al Sogno di Coleridge o all'Episodio del nemico o alla Storia dei due che sognarono) e insieme a letture sterminate e variegate: dall'Epopea di Gilgamesh a Aloysius Bertrand, dal cinese Sogno della camera rossa a Papini. Senza dimenticare una folta schiera di autori fittizi: o, meglio, sognati.
"Il parassita che nel 1892 Jules Renard elesse a protagonista di un suo romanzo (...) non ha nulla dei suoi antenati, o non gli resta dei suoi antenati che quel maledetto vizio di ogni tempo di sedere alla tavola degli altri e diventare 'il convitato abituale'. Per raggiungere i suoi scopi (che non si limitano al mangiare e dormire) si serve della letteratura (...) Henri (è questo il suo nome) aspira a divenire l'idolo ben remunerato di una brava famiglia borghese, di un marito lavoratore, di una moglie attenta, che il profumo di una vita diversa, di esistenze godute e perdute alla fiamma della poesia, getta senza alcun bovarismo e col massimo controllo in uno stato di lieve abbandono, di stordito turbamento (...) L'impegno che lo sovrasta è quello d'incantarli, soffiando con abilità in quella specie di flauto dolce che è la poesia per chi non la conosce; di trasportarli sul suo illusorio palcoscenico, ov'egli, recitando una vita che non esiste e mai smettendo via via di complimentarsi con se stesso per l'ottimo lavoro che sta eseguendo, potrà cantare alla fine la sua vittoria." (Giovanni Macchia) Con un saggio di Alfredo Giuliani e una recensione di Marcel Schwob.
Decimo volume della raccolta delle opere di Maigret.
Tra il 1940 e il 1941 nel gulag di Grjazovec, quattrocento chilometri a nord di Mosca, un gruppo di ufficiali polacchi detenuti trova un modo decisamente inusuale, e quanto mai efficace, per resistere all'annientamento morale e intellettuale. A turno intrattengono i compagni di prigionia - accalcati in una stanza, esausti dopo le ore passate a lavorare all'aperto, nel gelo feroce dell'inverno russo - parlando di argomenti con cui hanno particolare dimestichezza. Ne nasce così una serie di vere e proprie lezioni, pressoché clandestine, sui soggetti più disparati: dalla storia del libro a quella dell'Inghilterra, dall'alpinismo all'architettura. Jozef Czapski, pittore di vaglia e scrittore, conversa di pittura francese e pittura polacca, nonché di letteratura francese. E soprattutto rievoca e commenta - citando a memoria, senza il minimo supporto cartaceo, e tuttavia con una precisione sorprendente - intere pagine della "Recherche" di Proust, opera che l'Unione Sovietica ha messo all'indice in quanto espressione paradigmatica della letteratura borghese decadente. E quello che ne scaturisce - cui abbiamo oggi accesso grazie alla trascrizione in francese che lo stesso Czapski realizza "a caldo" - non è soltanto una dimostrazione del potere del ricordo e la testimonianza di un modello singolarissimo di resistenza, ma anche una lettura di Proust di suprema finezza. Con un saggio di Wojciech Karpinski.
Nel 1959 usciva, nella Collana Cederna di Vallecchi, il quinto volume delle Opere di Hugo von Hofmannsthal. Volume a dir poco eccezionale, che proponeva nella traduzione di Landolfi il "Cavaliere della Rosa" - con cui la vicenda complessa e armoniosa dei rapporti fra Hofmannsthal e Strauss tocca il vertice della perfezione - e insieme il meno noto "Le nozze di Sobeide", un canto "così colmo di parole profonde e grandi su grandi e profonde cose umane" ha scritto Theodor Lessing "che nessuno l'ascolterà senza provarne meraviglia". Un dittico sapientemente giocato sui contrasti, dunque: all'incantevole leggerezza del Cavaliere fa da contrappunto la cupa bellezza di un dramma in versi dove la temeraria sincerità di Sobeide, che confessa al Ricco Mercante sposato per desiderio del padre il suo amore per il giovane Ganem, e la malinconica lungimiranza del vecchio, che sceglie di lasciarla libera, trovano grazie alla versione landolfiana accenti di alta poesia.
Siamo circondati, sommersi dalle immagini. Dagli schermi dei computer e degli apparecchi televisivi, dai muri delle strade, dalle pagine dei giornali, immagini d'ogni genere ci seducono, ci impartiscono ordini (compra!), ci spaventano, ci abbagliano. Questo libro ci invita a guardare le immagini lentamente, attraverso alcuni esempi, notissimi e meno noti: Guernica, il manifesto di Lord Kitchener con il dito puntato verso chi guarda, il Marat di David, il frontespizio del Leviatano di Hobbes, una coppa d'argento dorato con scene della conquista del Nuovo Mondo. Immagini politiche? Sì, perché ogni immagine è, in un certo senso, politica: uno strumento di potere. Siamo soggiogati da menzogne di cui noi stessi siamo gli autori, ha scritto Tacito e sono parole indimenticabili. È possibile infrangere questo rapporto?
Nulla infastidiva Mordecai Richler quanto le ortodossie vecchie e nuove e i vari tipi di intolleranza da esse generate. E furono proprio gli anni trasgressivi della Swinging London a ispirargli, durante il suo lungo soggiorno in Inghilterra, questo romanzo, uno sberleffo così audace e irriverente da essere subito messo all'indice in numerosi paesi di lingua inglese. A doversi districare fra i meandri della 'controcultura' è Mortimer Griffin, che lavora in una sofisticata casa editrice, ha una vita familiare convenzionale e l'imperdonabile colpa di essere bello e wasp. Dopo l'acquisizione della Oriole Press da parte di un potentissimo e stravagante produttore hollywoodiano chiamato da tutti il Creatore di Stelle, il quale ha un solo vero scopo nella vita, la propria immortalità, Mortimer finisce in un labirinto dove fatichiamo a distinguere la farsa dalla satira e dall'horror. Tormentato dallo sguaiato tradimento della moglie con il laido amico Ziggy, perseguitato da un giornalista che lo accusa di essere un ipocrita ebreo rinnegato, scandalizzato dalla scuola all'avanguardia dove il figlio di otto anni recita Sade per poter liberare la sua sessualità, concupito da due colleghe più simili ad androidi che a donne vere, accusato via via di perbenismo, moralismo, razzismo, antisemitismo, mollezza e meschinità e sempre più insicuro delle sue prestazioni virili, Mortimer si ritrova protagonista di una tragicommedia dell'assurdo dall'esito di paradossale crudeltà.
La parola dike, comunemente tradotta con "giustizia", nasce in un contesto religioso e poi giuridico, ma ha in realtà un significato più profondo, che compare per la prima volta nella più antica testimonianza del pensiero filosofico: il frammento di Anassimandro. Si può dire che l'avvento della filosofia coincida con l'avvento di tale significato - quello che Aristotele chiama "il principio più stabile". Dike designa l'incondizionata stabilità del sapere. E richiede la stabilità incondizionata dell'essere. Riguarda tutto ciò che l'uomo può pensare e può fare. In rapporto con essa si svolge l'intera storia dell'Occidente. Se nel "Giogo" Severino aveva puntato l'attenzione sulla conseguenza decisiva per l'uomo della tradizione occidentale, resa esplicita da Eschilo, ovvero che l'incondizionata stabilità del sapere e dell'essere è il "vero" rimedio contro il dolore e la morte, e sul rapporto tra Eschilo e Anassimandro, in questa sua nuova opera si volge invece verso le radici di quel significato. Soprattutto perché dike e l'Occidente, che ne è dominato, sfigurano il volto della stabilità autentica: il volto del destino della verità. Affrontando il rapporto tra il puro volto del destino e il suo volto sfigurato da dike, questo libro compie alcuni passi avanti rispetto agli scritti precedenti, da cui pure trae origine.
Innamorarsi a Teheran, guardare i Fratelli Marx a Teheran, leggere Lolita a Teheran... Così iniziava una lista di cose segrete che Azar Nafisi aveva stilato nel suo diario e che si rimproverava di aver taciuto a tutti. Molte delle altre, a tanti anni di distanza, ha deciso di raccontarle in questo libro. Che è un ritratto del padre, sindaco di Teheran all'epoca dello scià, e della madre, fra le prime donne entrate al Parlamento iraniano. È la storia dei tradimenti di lui, del mondo fantastico in cui lei a poco a poco trasforma la realtà insopportabile che la circonda, e della forzata, dolorosa connivenza dell'autrice con il padre. Ma anche e soprattutto la rivelazione di come a volte le dittature sembrino riprodurre i silenzi, i ricatti, le doppie verità su cui si regge il primo, e più perfetto, sistema totalitario: la famiglia. Chi conosce Nafisi sa già cosa troverà, qui, in ogni pagina: l'emozione di leggere sempre qualcosa di autentico e temerario. Qualcosa che arriva dalle strade e dai giardini di Teheran come dalle pagine di Firdusi o dei grandi cantastorie persiani. E ci riguarda molto da vicino.
Sono tutte in lacrime, le cameriere ebree del Praga, alla vigilia delle nozze del padrone: certo, hanno sempre saputo che lui andava a letto con tutte, "eppure ognuna era convinta in cuor suo che con lei si sarebbe comportato in modo diverso ... l'avrebbe portata via dalla cucina per sistemarla dietro al bancone e metterla alla cassa a contare il denaro". Ora, però, che nell'annuncio affisso in vetrina c'è scritto, nero su bianco, che "in onore del felice e fortunato matrimonio del proprietario di questo ristorante, Sender Prager, con la sua fidanzata, Edye Barenboim" i poveri del quartiere riceveranno un piatto di crauti e salsicce, hanno perso ogni speranza. Si è fidanzato all'improvviso, "quell'uomo solido e vigoroso, dagli occhi lucenti e dai capelli neri impomatati": perché all'improvviso, a quarantaquattro anni, ha avuto paura della vecchiaia e della solitudine. Così, lui che delle donne non si è mai fidato, si è lasciato indurre dal suo rabbi a sposare quella ragazza di buona famiglia hassidica che ha la metà dei suoi anni e lo guarda "con i suoi grandi occhi neri impauriti". "Dio del cielo," implorano le cameriere "fagli pagare la nostra umiliazione...". Al lettore scoprire, in questo magnifico e crudele racconto lungo del fratello "più talentuoso" di Isaac B. Singer (come ha scritto Harold Bloom), se Colui che tutto può le ascolterà.