Piogge di fuoco divorante, mari tempestosi, ghiacci e rocce di un mondo vuoto di uomini, luci radianti, deserti combusti: con somma potenza di immagini, con il ritmo che il verso libero imprime a un linguaggio avvolgente, e in un costante intreccio di saperi (arte, scienze naturali, letteratura), Sebald ci offre nel poemetto "Secondo natura" - opera prima - un trittico che già contiene in nuce i caratteri della sua futura narrativa. I passeggiatori e gli emigrati dei romanzi e dei racconti sono già tutti qui prefigurati: la tragica vita del pittore Grünewald e di un suo misterioso doppio nella terrificante descrizione di opere come la pala d'altare di Isenheim; il viaggio dell'esploratore e medico settecentesco G. W. Steller alla scoperta, con Vitus Bering, dello stretto marino fra i ghiacci della Siberia e dell'Alaska; un'autobiografia, dalla nascita sotto le bombe, in un mattino di primavera, alle peripezie della famiglia e ai vagabondaggi europei, così simili a quelli di Jacques Austerlitz. "Secondo natura" è il primo dei tanti viaggi che Sebald ha intrapreso nei territori di una natura colta con sguardo snebbiato, nelle sue incessanti metamorfosi.
Secondo l'Iliade, il rapimento di Elena da parte di Paride diede l'avvio all'assedio di Troia; parallelamente, secondo il Ramayana, la grande epopea indiana che si affianca al Mahabharata, il rapimento di Sita fece sì che per riaverla il suo sposo Rama muovesse guerra a Ravana, il demone sovrano di Lanka. In Grecia come in India, tuttavia, altri sostennero che né Elena né Sita sarebbero mai state veramente rapite. Secondo Platone, Stesicoro, per sottrarsi alla maledizione della cecità, dovette negare che Elena si trovasse davvero a Troia. Anche per Erodoto, del resto, Elena non aveva in realtà mai raggiunto Troia perché trattenuta in Egitto - e a suo dire ciò era noto anche a Omero, che però l'aveva taciuto. Il suo posto era stato preso da un'immagine, da un simulacro, sostenne Euripide, sicché Paride e Menelao si erano battuti per un'entità aerea, per un semplice nome. Analogamente, in base ad altre versioni indiane della storia, anche Sita era rimasta tutto il tempo al sicuro, sostituita da un'ombra che le aveva fatto da controfigura durante le epiche peripezie che la vedono protagonista. Se tali parallelismi rendono inevitabile la comparazione, ciò però costituisce solo l'avvio dell'esplorazione di Wendy Doniger in questo libro che indaga il mistero stesso della duplicità nelle sue più svariate manifestazioni.
Ma perché mai proprio all'ispettore Lognon, detto dai colleghi il Lagnoso - lo Jellato da Maigret -, uno che non è mai riuscito a ottenere una promozione, che ha il raffreddore tutto l'anno e quando torna a casa deve pure occuparsi di una moglie ipocondriaca e vessatoria; perché proprio a lui hanno sparato due colpi di pistola lasciandolo quasi moribondo davanti a un palazzo di avenue Junot? Quando apprendono che in quel palazzo, da una decina di giorni, lo Jellato andava tutte le sere, e che trascorreva la notte con una tale Marinette, signorina di bell'aspetto di professione estetista, Maigret e il giovane Lapointe non possono che sgranare gli occhi e scambiarsi uno guardo interdetto. Possibile? I poliziotti non sono stinchi di santo, d'accordo, ma uno come Lognon... Alla portinaia, che si è precipitata a soccorrerlo, lo Jellato ha sussurrato una sola parola: "Fantasma...". Che così, a naso, non pare un indizio decisivo, anzi, sembra quasi una beffa. Come se non bastasse, della Marinette in questione non vi è più traccia: la ragazza sembra scomparsa nel nulla. Muovendo da questi pochi elementi, mentre Lognon rimane sospeso tra la vita e la morte nel suo letto di ospedale, il commissario cercherà di dipanare una matassa alquanto intricata. Che lo porterà a far luce su una losca vicenda di falsari e di ricattatori, di cui l'ispettore aveva cominciato a seguire le tracce - a suo rischio e pericolo.
Charles Baudelaire e Graham Greene, rispettivamente padri nobili del flâneur metropolitano e dell'occidentale incline a perdersi nel primo Oriente a disposizione, sarebbero stati entrambi fieri di quel loro imprevedibile, inclassificabile, incorreggibile erede che risponde al nome di Lawrence Osborne: e Malcolm Lowry avrebbe di sicuro sottoscritto. Di fatto, però, il programma da cui Osborne parte stavolta ha pochi precedenti: raccontare alcuni periodi nella vita che un uomo «senza una carriera, senza prospettive, senza un soldo» decide di passare in una città scelta quasi a caso – Bangkok. Quanto poi succede a Osborne (mangiare al ristorante No Mani, dove i clienti vengono provvisti di bavaglino e imboccati; passeggiare la notte per il mattatoio della città, fra scannatori strafatti di droghe sintetiche che massacrano animali nel modo meno pulito e indolore; ritrovarsi in una stanza con due ragazze vestite da poliziotto, che avanzano facendo tintinnare le manette) è già di per sé materia per il romanzo che questo libro, in origine, era. Ma, quasi fra le dita del lettore, le storie che si intrecciano fra le pagine, e la voce che le racconta, diventano molto di più: il disperato profilo di alcuni espatriati giunti fin lì per cancellare, all'ultimo momento o quasi, tutta la loro vita precedente; l'autoscatto di uno scrittore sorpreso nel goffo, scatenato e non resistibile tentativo di innalzarsi allo stato di natura; lo schizzo di una città diversa da ogni altra, che è prima di tutto una nuova, fantasmagorica e in larga parte ancora inesplorata forma di vita.
"Se è vero che le vicende della sua vita sono parte integrante dell'importanza di Socrate, si deve comunque dare tutto il rilievo possibile al fatto che egli morì assassinato" dichiara perentoriamente Manlio Sgalambro. Tuttavia Platone "omette pietosamente quella parola", e dal canto suo Nietzsche afferma - certo a ragione - che "Socrate volle morire". Ma chi desidera morire, osserva Sgalambro, "si trova intrappolato in una insana contraddizione", giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate, che delegò infatti il compito a un "benefattore" (euergetikós) - così egli definì l'assassino - e con ciò introdusse una volta per tutte nella filosofia la figura dell'omicida. Eppure la speculazione filosofica ha per lo più evitato di porsi le domande cruciali che ne derivano: quale mistero cela il delitto in se stesso? Chi è l'assassino nella sua essenza? Domande che invece non teme di affrontare qui Sgalambro, tenace esploratore delle zone impervie del pensiero, spingendo lo sguardo verso quel punto dove l'espressione "'L'uomo è mortale' non significa in primis che 'l'uomo muore' - insigne banalità concettuale -, ma che l'uomo è datore di morte".
Di lei credevamo di sapere tutto: dalla nascita a Kiev nel 1903 alla morte ad Auschwitz nel 1942, dall'avventura del manoscritto di "David Golder", inviato anonimo nel 1929 all'editore Grasset, al manoscritto salvato di "Suite francese", apparso nel 2004 e tradotto ormai in trenta lingue. Sbagliavamo: Philipponnat e Lienhardt ce lo dimostrano in questa biografia. Per tre anni, costantemente affiancati dalla figlia di Irène, Denise Epstein, gli autori hanno consultato le carte inedite della scrittrice: la corrispondenza con gli editori come gli appunti presi a margine dei manoscritti, i diari come i taccuini di lavoro. Un'opera che non solo fa risorgere dall'oblio con una vividezza sorprendente le diverse fasi dell'esistenza di Irene (l'infanzia nella Russia prima imperiale e poi rivoluzionaria, la fuga prima in Finlandia e poi in Svezia, la giovinezza dorata in Francia, i rapporti con la società letteraria degli anni Trenta, gli sconvolgimenti della guerra, gli ultimi mesi di vita nel paesino dell'Isère dove si è rifugiata con la famiglia), ma coglie e restituisce tutte le sfaccettature di una personalità complessa, affrontandone senza remore di alcun tipo anche gli aspetti più discussi e contraddittori.
Quando, nel 1918, Scholem lesse la traduzione tedesca della Leggenda dello scriba a Walter Benjamin, questi rimase «profondamente colpito» dalla qualità visionaria di un autore che quelle pagine gli davano modo di scoprire, ma il cui nome sarebbe tornato spesso nelle lettere all'amico degli anni successivi - allorché Agnon si andò affermando come il maggiore e il più fecondo narratore di lingua ebraica. In questo volume il lettore troverà riuniti alcuni dei racconti più celebri di Agnon; e, come accadde a Benjamin, non potrà che rimanere incantato da queste narrazioni, che assumono a volte il tono della fiaba, a volte l'andamento formulare della scrittura biblica. E che gli faranno scoprire alcuni di quei personaggi che entrano prepotentemente nell'immaginario - uno per tutti, il piccolo rabbi Gadiel: così piccolo che suo padre se lo porta alla preghiera del mattino nella tasca del vestito; così piccolo da poter rimanere chiuso senza gravi conseguenze nelle pagine dei sacri libri della Torà; così piccolo da essere ingoiato da un goy malvagio e da sopravvivere nel suo stomaco come Giona nel ventre della balena, per poi essere risputato fuori al momento opportuno, e poter discolpare il padre ingiustamente accusato di omicidio rituale, salvando così dallo sterminio l'intera comunità. Agnon domina un mondo di storie tanto ricco «che non basterebbero» scrive «trenta risme di carta» per raccontarle tutte, ma le riduce all'essenziale - e, con la sua prosa soavemente ironica, intessuta di sottili reminiscenze talmudiche, fa sorgere sotto i nostri occhi un mondo quasi magico, in cui si muovono straccioni e santi, spose malinconiche e cabbalisti, ma anche una capra capace di condurci nel Giardino dell'Eden.
Nell'anno 2013, in un mondo dominato dal Presidente del Consiglio dei Magnati dell'Industria, scoppia un'epidemia che in breve tempo cancella l'intera razza umana. Sessant'anni dopo, nello scenario postapocalittico di una California ripiombata nell'età della pietra, un vecchio, uno dei pochissimi superstiti (e a lungo persuaso di essere l'unico), di fronte a un pugno di ragazzi selvaggi - i nipoti degli altri scampati - riuniti intorno a un fuoco dopo la caccia quotidiana, racconta come la civiltà sia andata in fumo allorché l'umanità, con il pretesto del morbo inarrestabile, si è affrettata a riportarsi con perversa frenesia a stadi inimmaginabili di crudeltà e barbarie. La peste scarlatta è uno dei grandi testi visionari di Jack London, che qui ancora una volta fa da temerario battistrada - e scopre un filone ricchissimo e fecondo.
Da questi due romanzi Stephen Frears ha tratto il film «Chéri», con Michelle Pfeiffer e Rupert Friend, distribuito in Italia da 01 Distribution.
Con la protervia della bellezza giovane, Chéri, ragazzo «coi capelli dai riflessi blu come le penne dei merli», irrompe nella vita di Léa, donna leggera e sapiente - ma nel triangolo amoroso apparirà il rivale più temibile: il Tempo, corruttore di corpi. L'autunnale opulenza di lei e l'acerbo smalto di lui vengono spiati, attimo dopo attimo, da un occhio a cui nulla sfugge, talché la vicenda, scandita dalle scene di una magistrale commedia demi-mondaine, diventa la cronaca della catastrofe di Léa, dove il sentimento è delicatamente avvolto nella fisiologia e brama di sprofondare «in quell'abisso da cui l'amore risale pallido, taciturno e pieno del rimpianto della morte».
Quanto a Chéri, giunto all'acme della sua esistenza di 'bello' dinanzi a cui le donne si inchinano, percepisce una vaga inquietudine: «Non distingueva i punti precisi in cui il tempo, con tocchi impercettibili, segna su un bel viso l'ora della perfezione e poi quella di una bellezza più evidente, che annuncia già la maestà di un declino». E quel declinomaestoso vivremo nella Fine di Chéri, dove la punta avvelenata della storia del giovane emerge con fredda chiarezza dalla prosa avvolgente, atmosferica, precisa di Colette.
Quando, nel 1956, l'editore londinese Macmillan comprò il primo romanzo di una giovane autrice sconosciuta, "I consolatori", si rese subito conto di aver fatto una scelta molto ardita. Così, temendo che fosse un libro "troppo difficile" per il pubblico del tempo, esitò un anno prima di darlo alle stampe. Muriel Spark non si stupì particolarmente del ritardo: forse, dentro di sé, sapeva già di essere, secondo le parole di John Updike, "uno dei pochi scrittori che abbiano abbastanza risorse, coraggio e grinta da modificare la macchina della narrativa". Oggi, qualunque lettore, avvezzo o meno ai suoi romanzi più celebri, non potrà che soccombere allo charme che si sprigiona dalla sublime eccentricità dei consolatori (o persecutori?) che popolano queste pagine: una nonna contrabbandiera, un libraio satanista, un giovanotto con la vocazione del detective, e un'eroina che ha il sommo cruccio di sapersi personaggio di un romanzo. Li seguiremo, avvinti ed esilarati, fra storie d'amore, ricatti e terribili vendette in un intreccio prodigo di suspense e sortilegi. Un intreccio che dovette colpire anche Evelyn Waugh, se si risolse a scrivere a un'amica: "Mi sono state mandate le bozze del geniale romanzo di una signora che si chiama Muriel Spark. La protagonista è una scrittrice cattolica che soffre di allucinazioni. Il libro uscirà presto e sono sicuro che tutti penseranno che l'abbia scritto io. Vi prego di smentire".