Nel 1990 a Milano si ebbero 103 omicidi: per la maggior parte, regolamenti di conti fra la malavita organizzata. Norberto Melis, primo dirigente della Questura della «capitale morale» (dove, di lì a breve, scoppierà lo scandalo di Mani Pulite), si interessa di più ai delitti che coinvolgono individui apparentemente normali, coloro che potrebbero essere, o dei quali potremmo essere i vicini di casa. Compenetrarsi di queste vite per risalire dalle vittime agli assassini affidandosi alla conoscenza del cuore umano, alle sensazioni, all'intuito - pur utilizzando tutti gli indizi materiali che la moderna criminologia consenta di vagliare - è per lui l'aspetto forse più coinvolgente di un'indagine: vedere le facce, sentire le voci, conoscere i luoghi. Per arrivare alla verità. Così, mentre la duplice inchiesta condotta dal commissario capo Michele Iurilli sulla morte di un uomo senza identità e su due anziane casalinghe uccise con identica bizzarra modalità in due quartieri lontani fra loro segna il passo, Melis non esita a indagare personalmente su un altro omicidio, tanto violento da poter essere dettato soltanto da un odio profondo. Il tutto mentre si avvicina, livido e al tempo stesso smagliante di luci, il Natale. Ma il mistero di un delitto non è mai, per Melis, un puro problema di analisi: egli avverte potente la necessità di restituire giustizia ai morti e ai vivi, e sa che, se vi è sempre la soluzione, non sempre è dato agli uomini di trovarla. E che talvolta, per concludere un'indagine, è necessario sacrificare agli dèi del Caso, i soli che, quando le carte sono troppo mischiate, possono rendere la scoperta dei colpevoli una Necessità.
Siamo ormai a tre generazioni di distanza dalla guerra partigiana del 1943-45, e certi eventi di quegli anni hanno perso in parte la loro carica emozionale. In questi decenni è stato compiuto (e ancora si compie) un imprescindibile lavoro di ricerca storica, che ha documentato con cura le battaglie e le vite dei protagonisti di allora, e ha analizzato nel dettaglio gli elenchi degli assassinati e dei torturati, e l'orribile computo dei drammi umani, spesso descritto con linguaggio asettico nei documenti della burocrazia. Oggi è importante che, per non dimenticare, si levi su quelle vicende anche una voce autoriale, in grado di legare i fatti storici in un filo narrativo coinvolgente e cristallino. È ciò che fa Caroline Moorehead in questo libro, un'opera completa, capace di ricreare l'atmosfera di paura e di dolore, ma anche in grado di rendere la spinta ideale provata da molte donne coraggiose, determinate ad agire e rischiare per il bene della loro comunità. Pagina dopo pagina, leggiamo senza fiato la storia delle quattro protagoniste - Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Frida Malan e Silvia Pons -, partigiane emblematiche di un intero movimento di donne altruiste, forti e motivate, che animarono azioni di ribellione collettiva, sfidando la guerra, la paura e i pregiudizi. In questo racconto, attento e delicato, troviamo testimonianze che riescono a commuovere e a ispirare, e restano impresse a lungo, grazie alla penna felice dell'autrice. Attraverso lo sguardo e l'esempio di queste protagoniste in lotta contro il nazifascismo, "La casa in montagna" ci restituisce una memoria unica, che oggi troppi vorrebbero dimenticare.
Fin dal roveto ardente, Mosè vuol conoscere l'Invisibile che gli parla. Sul Sinai chiede che si mostri. Gli si risponde: «Non potrai vedere la mia faccia, perché ne morresti; solo potrai vedere il mio retro». Maimonide ne dà un'interpretazione illuminante: il retro di Dio sono le sue tracce, i suoi effetti: Dio dice a Mosè che potrà vedere solo le conseguenze del suo agire nella natura e nella storia. Interdisciplinare, infinita per sua natura, la questione di Dio pervade il mondo, che si sia credenti o meno, e si palesa in ogni ambito dell'umano, dalla teologia alla scienza, dall'arte alla filosofia, in un rincorrersi di paradossi e intuizioni. Questo breve e intensissimo libro discute Dio con laicità, intesa non come ateismo, ma come sospensione, curiosità, apertura nei confronti dell'inconoscibile.
Conosciamo l'antica Grecia e i sumeri, ma che cosa sappiamo di altre grandi civiltà ritenute secondarie? Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall'oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L'autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell'Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell'uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell'Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell'umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l'aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale.
Perché ci prendiamo cura degli altri anche quando non siamo legati da rapporti personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente? Quali sono, insomma, i fondamenti motivazionali che ci spingono ad agire eticamente e ad adottare comportamenti socialmente empatici? La risposta a questa domanda richiede di interrogarsi sul ruolo delle passioni, per gettare un nuovo sguardo sui due paradigmi nei quali si riassume di fatto la proposta etica del nostro tempo. Partire dalle passioni (come invidia e indignazione, paura e compassione, risentimento e amore), purché affrancate da ogni sospetto di irrazionalità, ci consente in primo luogo di pensare un'idea di giustizia diversa da quella che fonda il paradigma razionalistico corrente, per mostrarne piuttosto i fondamenti affettivi e distinguere tra pretese legittime e pretese illegittime di giustizia. In secondo luogo, ci consente di sottrarre la cura a una visione altruistico-assistenziale per mostrarne, insieme alla complessità emotiva non priva di aspetti perturbanti, le potenzialità di una forma di vita. Infine, permette di riaffermare, contro ogni riduzione unilaterale, la complementarità tra le due prospettive etiche, tanto più necessaria quanto più esse sono chiamate a misurarsi con le sfide radicali del nostro mondo globale: prima fra tutte, l'ampliamento dell'idea stessa di altro attraverso le due figure inedite dell' altro distante nello spazio (lo straniero, il diverso) e dell' altro distante nel tempo (le generazioni future). Muovendosi attraverso i grandi classici della «simpatia» (Hume e Smith), la riflessione filosofica del Novecento (da Anders a Jonas, da Arendt a Derrida, da Mauss a Ric?ur) e il dibattito contemporaneo (da Rawls a Sontag, da Gilligan a Nussbaum, fino a Foucault e Sloterdijk), Elena Pulcini si chiede quali passioni presiedano alla lotta contro l'ingiustizia e quali alimentino la capacità di una buona cura, confidando nella genesi di un soggetto emozionale: un soggetto che attraverso la dinamica interminabile della relazione con l'altro, sappia distillare dalle passioni la qualità etica e generativa capace di promettere un mondo migliore.
Tra i principi portanti della modernità, che per secoli ha ispirato pensieri e azioni di interi popoli, è stata l'idea architrave di ricondurre alla ragione il caos del mondo, ordinare, classificare, calcolare, sottoporre a controllo, e identificare l'indistinto, bandire l'ambiguo. Tale idea conteneva un progetto di costruzione sociale e una promessa di felicità. Il primo ha lasciato dietro di sé delle macerie, la seconda non è mai stata adempiuta. Zygmunt Bauman dichiara qui il fallimento di un'epoca della storia umana, misurandolo sulla insostenibilità della pretesa iniziale. È l'ambivalenza, infatti, e non l'univocità, la condizione normale in cui ci tocca vivere. Noi esseri finiti ci condanniamo alla perenne inadeguatezza se ammettiamo soltanto l'alternativa rigida tra l'ordine e l'informe, tra le entità (cose, persone, collettività, situazioni, categorie della mente) che il linguaggio riesce a nominare in modo trasparente e l'imprevedibile, l'indeterminato, l'incontrollabile, di cui avvertiamo la presenza minacciosa. Modernità e ambivalenza rimane, come scrive Donatella Di Cesare nella sua Postfazione, un'opera decisiva che ha segnato la svolta del percorso intellettuale del sociologo che più di ogni altro ha saputo definire la contemporaneità.
Attraverso cinque saggi che scandiscono il percorso di ricerca di Claudio Pavone, "Gli uomini e la storia" presenta alcuni dei contributi più rilevanti dello storico e propone una visione coerente della fase fondatrice della nostra Repubblica che affonda le sue radici fin dalla «crisi della democrazia risorgimentale». Cuore del volume è rappresentato dal saggio sulla continuità dello Stato tra il fascismo e l'immediato dopoguerra, pubblicato per la prima volta nel 1974, e sempre più attuale. Ogni saggio è legato nella chiara e puntuale prefazione di David Bidussa a una parola chiave (Resistenza tradita, zona grigia, totalitarismo), tracciando così un discorso unitario e coerente della cornice interpretativa dello storico di "Una guerra civile". Mai come oggi la società civile è tenuta a interrogarsi sul senso della storia e su un passato non ancora condiviso. È quindi sempre più opportuno rivolgersi agli studiosi che si sono dedicati con serietà e passione alla riflessione sulle costanti, che sembrano sempre ritornare, della nostra storia nazionale.
E invece adesso eccoci qui. Con gli stessi problemi di prima ma a mutazione avvenuta. Internet avrà smesso di essere oggetto di dibattito per diventare punto di partenza, eppure continuerà a giocare al gioco di sempre: fare spazio tra le persone e riempirlo di connessioni per le quali poi risultare indispensabile.
«Caro virus, io non so come ti comporti tu quando incontri un disinfettante, ma per noi morire è talmente increscioso
che ogni volta pensiamo stia succedendo per la prima volta».
Nella forma di una lettera al virus, in questo breve libro è come se Marco Bracconi riprendesse un discorso che era stato interrotto solo un istante prima dello scoppio della pandemia. Poi, l’irrompere del virus ha messo tutto in secondo piano per due mesi, durante i quali è successa una cosa nuova, dirompente: la Rete si è impossessata di noi ed è definitivamente diventata necessaria. In parte lo era anche prima, ma adesso non si torna indietro: «È finita» scrive Bracconi al virus, «la tua visita ha azzerato la carica virale di qualsiasi critica a Internet in quanto sistema-mondo».
La repentina accelerazione dell’immateriale è passata quasi inosservata mentre eravamo tutti impegnati nel lockdown e ora, improvvisamente, i corpi non ci sono più, sostituiti da connessioni, e-learning, smart working. Abbiamo lasciato che accadesse, ma «abbiamo preso in considerazione le ricadute sulle altre parti del sistema?»
La famiglia è - caso più unico che raro - una struttura primaria che esiste in tutte le società. Qui si assolvono le funzioni della riproduzione, della crescita e della socializzazione dei bambini e al contempo quella della stabilizzazione della personalità degli adulti. Da sempre al suo interno si giocano dinamiche cruciali che tornano ciclicamente al centro del dibattito pubblico: il confronto e la relazione tra i sessi, la gerarchia e la costrizione dei ruoli, la costruzione dell'identità e il senso di appartenenza. Simbolo del calore umano, luogo di consuetudini complici e di un vocabolario intimo, la famiglia vive di un equilibrio costante tra ricerca di fusione e bisogno di autonomia. Capace di creare alleanze per la vita ma anche di alimentare rivalità distruttive, la famiglia può proteggere i suoi membri, aiutandoli a costruire identità serene e sicure, oppure controllarli e costringerli in ruoli estranei e dolorosi. Con il ricorso esemplare a film e romanzi che fanno parte del nostro comune immaginario, Anna Oliverio Ferraris - esperta delle dinamiche famigliari con alle spalle una lunga e solida esperienza accademica e psicoterapeutica - ripercorre, nel tempo e nello spazio, l'evoluzione di questo strano costrutto sociale che è la famiglia, per mostrarcene la natura permeabile, flessibile e plastica.
Un quadro suggestivo dell'evento epocale che ha già segnato il ventunesimo secolo. Dalla questione ecologica al governo degli esperti, dallo stato d'eccezione alla democrazia immunitaria, dal dominio della paura al contagio del complotto, dalla distanza imposta al controllo digitale: come sta già cambiando l'esistenza, quali potranno essere gli effetti politici nel futuro. Il coronavirus è un virus sovrano che aggira i muri patriottici, le boriose frontiere dei sovranisti. E rivela in tutta la sua terribile crudezza la logica immunitaria che esclude i più deboli. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così sfrontata. Il virus ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l'impossibilità di salvarsi, se non con l'aiuto reciproco, costringendo a pensare un nuovo modo di coabitare.