Il problema dell'adozione, sempre più presente ed enfatizzato dai mezzi di comunicazione, anche sull'onda dell'emotività, resta una realtà carica di interrogativi. Che cosa significa essere genitore adottivo? È sufficiente desiderare un bambino e volergli bene per risolvere tutti i problemi? La legislazione attuale è adeguata in proposito? Le autrici riflettono su queste e altre questioni in un'ottica psicodinamica, ponendosi "dalla parte degli adulti", gli aspiranti genitori: infatti essere veramente "dalla parte del bambino" implica aiutare gli adulti a ricercare dentro di sé i significati profondi legati alla mancanza e al desiderio di un figlio. Non vengono peraltro trascurate "la voce e l'esperienza" del bambino abbandonato, attraverso l'analisi del materiale clinico che sottolinea il faticoso processo di crescita dall'infanzia all'adolescenza nella nuova famiglia.
Il volume raccoglie i saggi più importanti di storia dell'arte di Richard Krautheimer, scritti in più di mezzo secolo di attività scientifica (1929-82). I temi trattati coprono un arco di tredici secoli: dall'architettura chiesastica paleocristiana a quella medievale, dall'arte e dalla teoria artistica del Rinascimento al rinnovamento urbanistico di Roma intrapreso alla metà del Seicento da papa Alessandro VII. Particolare attenzione è dedicata alla storia dell'architettura, soprattutto quella paleocristiana, a cominciare dalle basiliche erette sotto Costantino. L'autore esamina a fondo le fasi evolutive dei vari tipi edilizi, mettendone in risalto le affinità e le diversità; non si limita però a una descrizione puramente architettonica degli edifici, ma scorge piuttosto in essi un messaggio, che è possibile decifrare solo con una conoscenza adeguata delle concezioni teologiche, liturgiche, sociali, politiche e ideologiche dell'epoca. E Krautheimer riesce mirabilmente in ciascuno scritto a fornire la chiave per intendere quelle concezioni.
Il saggio "Forma e contenuto2 riprende una serie di lezioni tenute da Schlick a Londra nel 1932, e può essere considerato la più organica esposizione della teoria della conoscenza elaborata dal filosofo in quegli anni. È un testo assai elegante e chiaro che pone l'accento fin dal titolo su una distinzione tipica della filosofìa neopositivistica: Schlick sostiene la tesi della radicale inconoscibilità e inesprimibìlità del contenuto intuitivamente esperibile e dell'impossibilità di cogliere la natura qualitativa delle cose. L'unica conoscenza effettivamente possibile è quella relativa ai rapporti strutturali tra i fenomeni offertaci dal sapere scientifico. Il libro è completato da due brevi scritti, di respiro più schiettamente speculativo, che danno conto di due aspetti molto importanti dell'empirismo logico: il primo, della polemica con l'interpretazione neokantiana e cassireriana della teoria della relatività; il secondo, della critica alla concezione husserliana e fenomenologica dell'apriori materiale e al bergsonismo.
La modernità ha trasformato in un dogma l'incomunicabilità del vero. Lo ha fatto senza rendersi conto che con il suo gesto apparentemente sovversivo (il cosiddetto "rovesciamento del platonismo") riproponeva in realtà un'antica aporia platonica dalla cui soluzione Platone faceva invece dipendere la possibilità stessa della filosofia e della giustizia. Attraverso un'originale rilettura di alcuni momenti capitali nella storia del pensiero occidentale dal "Parmenide" al "Sofista" di Platone, dalla metafisica della durata di Bergson all'attualismo di Gentile, dalla teologia speculativa di Cusano al "basso materialismo" di Bataille, dalla linguistica di Jakobson a quella di Benveniste e di Bachtin - Ronchi si interroga sul concetto di comunicazione nella sua triplice accezione metafisica, fisica e pragmatica, facendo dialogare la filosofia teoretica con la storia della filosofia, con l'estetica del modernismo, con le scienze del linguaggio e con l'epistemologia della complessità. Le questioni sollevate sono quelle che inquietano il pensiero contemporaneo: come la verità può comunicarsi senza compromettere la sua natura? In che modo il sapere umano può sottrarsi alla paralizzante alternativa dell'assoluto e del relativo? Che ne è del mondo in cui viviamo se la luce del vero e del bene non risplende più su di esso?
La relazione analista-paziente è uno dei temi più delicati e centrali della teoria e della pratica psicoanalitica che Stefano Bolognini affronta con decisione in questo suo saggio, descrivendone i modi, i tempi, i successi e gli scacchi. I molti casi clinici, narrati, trasformano l'esposizione in un racconto. Intelligente spirito critico e anticonformismo si uniscono così a un solido impianto teorico per descrivere quello che rimane pur sempre un rapporto tra due esseri umani, un viaggio comune verso terre poco note, là dove si incontrano le condizioni più destrutturanti della vita mentale e, in fondo, della vita in generale.
Come descrivere la capacità umana di leggere nella mente degli altri individui, comprendendo in modo immediato i loro pensieri e sentimenti e reagendo in modo appropriato alle azioni da essi compiute? Finora la scienza non era riuscita a spiegare questa fondamentale possibilità del nostro cervello, che, creando un ponte tra il sé e l'altro, permette lo sviluppo della cultura e della società. Oggi, grazie alla scoperta dei neuroni specchio si è aperta una prospettiva di ricerca rivoluzionaria. I neuroni specchio sono stati localizzati inizialmente, circa una ventina di anni fa, e la loro attività è stata subito connessa al riconoscimento di azioni finalizzate al raggiungimento di oggetti. In particolare, si è constatato che durante l'osservazione di un'azione eseguita da un altro individuo, il sistema neurale dell'osservatore si attiva come se fosse egli stesso a compiere la medesima azione che osserva: di qui il nome "neuroni specchio". Si ritiene che essi rendano possibile l'apprendimento imitativo e la comunicazione verbale, e che un loro cattivo funzionamento provochi un grave deficit come l'autismo. Marco Iacoboni ci conduce direttamente al cuore di queste ricerche, illustrando i principali esperimenti che ne hanno segnato le tappe e discutendo la loro ricaduta a livello scientifico, filosofico e sociale.
Mai come adesso l'architettura è di moda. Nelle riviste, nei quotidiani, in televisione le opere delle super-star dell'architettura sono oggetto della curiosità di lettori che prima erano completamente digiuni in materia. Eppure mai come adesso l'architettura è lontana dall'interesse pubblico: incide poco e male sul miglioramento della vita della gente, a volte ne peggiora le condizioni dell'abitare. Questo accade perché l'architettura è diventata un gioco autoreferenziale, incentrata sulla "firma", sulla genialità del singolo architetto, genialità che è quotata nella borsa della moda al pari di un qualunque brand. Gli architetti si rifiugiano in una artisticità che li esclude da qualunque responsabilità. Purtroppo spesso viene affidata loro la trasformazione di interi pezzi di città, trasformazioni che spesso compiono con incompetenza, superficialità e convinti che si tratti di un gioco formale. Ma le città funzionano diversamente: sono il territorio profondo su cui agisce l'inconscio collettivo, sono il luogo delle appartenenze e dei conflitti. Questo libro invita ad abbandonare le "archistar" al loro egoismo e ad accettare che l'architettura abbia esaurito la sua funzione. Oggi c'è bisogno di altro, soprattutto nella situazione di emergenza in cui le città e l'ambiente rischiano di diventare sempre più inabitabili.
Il pianto antico, la lamentazione mediterranea e precristiana sui defunti, è il tema cruciale su cui Ernesto de Martino mette alla prova l'efficacia delle categorie interpretative elaborate nel "Mondo magico". L'esistenza dell'uomo primitivo è perennemente in bilico tra l'affermazione di sé e della propria presenza e l'universo della labilità in cui è costretto a vivere, dove tutto congiura per l'annullamento e la dissoluzione. La morte di una persona cara e necessaria è l'evento che può provocare il tracollo della instabile bilancia: essa appare uno scandalo irreversibile, una crisi senza orizzonte e apre la strada alla estraniazione dal mondo, al delirio di negazione, al furore distruttivo omicida e suicida. Ma proprio sull'orlo del rischio estremo l'uomo primitivo impara a difendere il proprio precario esserci: nasce il controllo rituale del patire, il pianto collettivo. Il rito - e le molte tecniche di cui si sostanzia - può ora percorrere tutta la tastiera della disperazione, ma appunto in forma controllata. E l'uomo è restituito alla vita, mentre la presenza assillante del morto è trasformata in un'ombra protettrice.
Questo libro di Agamben è dedicato ai problemi del metodo e diviso in tre parti, corrispondenti ad altrettante riflessioni su tre spetti specifici: a) il concetto di paradigma; b) la teoria delle segnature; e) la relazione fra storia e archeologia. Spunto per queste considerazioni è l'indagine sul metodo di uno studioso come Michel Foucault, sul quale Agamben dichiara di aver avuto occasione, negli ultimi anni, di apprendere molto.
Una storia dell'Altra Europa: quella degli scandinavi e degli abitanti dei mari ghiacciati del Nord, dei germani e degli slavi delle foreste del Centro, delle genti che vivevano, a Oriente, nelle immense distese fino agli Urali. Quei popoli, chiamati genericamente e con disprezzo "barbari", lontani dalla Grecia, da Roma e dalla Chiesa cristiana. Una nuova interpretazione delle origini dell'Europa, attraverso la ricostruzione di quel mondo ancora poco conosciuto. Quel mondo fa parte a tutti gli effetti delle radici dell'Europa odierna. L'autore mette assieme fonti e testimonianze di popoli diversi e scritte in tempi diversi (qualora le accomuni una situazione antropologica simile). Ne risulta un quadro di società tradizionali, nelle quali il singolo era trattato come un elemento del gruppo, non venivano distinti il sacro e il profano, e le istituzioni del culto pagano erano strettamente legate alle istituzioni politiche della comunità tribale. Il cristianesimo fu l'inizio della fine del mondo dei barbari, ma quel mondo non scomparve senza tracce. La sua eredità, oggi in differenti gradi in diversi paesi, rimane un importante indicatore dell'eterogeneità delle culture europee.