“Non possiamo imparare
a conoscere le persone
quando vengono da noi;
dobbiamo noi andare da loro
per vedere quello che sono.”
Emma Bonino
Il primo libro a firma di Emma Bonino è la storia di una vita in keywords, da leggere in ordine o in disordine, seguendo a piacere i temi e le parole. Un libro che percorre i 60 anni di storia di una “fuoriclasse” della politica e della cultura italiana: le lotte per i diritti civili, l’impegno in Parlamento a Roma e Bruxelles, le missioni all’estero, le campagne elettorali passate e presenti. Emma Bonino si racconta “dalla A alla Z” attraverso battaglie e vittorie, politiche e umane, sempre in prima linea.
A come Afghanistan e le sue donne dimenticate
B come il boogie-woogie che ballavo da ragazza
C come la cocciutaggine che mi contraddistingue
D come la detenzione per un aborto clandestino
E come Emmatar, un organismo dal Dna politico combinato con quello della gente comune.
L’amore è l’essenza della vita.
Una raccolta imperdibile delle citazioni d’amore di uno degli scrittori più amati e conosciuti dei nostri tempi.
CATALINA ESTRADA, quando era bambina, si meravigliava davanti ai lussureggianti giardini e alla natura vibrante del suo paese natale, la Colombia. Ora che è diventata un’illustratrice di successo a livello internazionale e vive a Barcellona, Catalina non ha dimenticato le sue radici.
La sua capacità di meravigliarsi come una bambina è ancora evidente nel suo lavoro, attraverso esplosioni di colore e vivida eleganza.
“Siamo di un giorno.
Uno, che è?
Nessuno, che è?
Sogno d’un’ombra è l’uomo.
Ma se viene una luce che è dal cielo,
tutto si fa fulgore intorno agli uomini,
il Tempo si fa dolce.”
Pitiche, VIII, 128-134
Nella presente edizione vengono pubblicate tutte le opere di Pindaro (520-518 a.C.), il più grande esponente della lirica corale arcaica. Nell’edizione alessandrina, la produzione di Pindaro, eccezionalmente ampia, occupava 17 libri ordinati per generi: Inni, Peani, Prosodi, Parteni, Iporchemi, Encomi, Treni, Epinici. Sopravvivono integralmente solo quattro libri degli Epinici, divisi secondo le gare panelleniche di cui celebravano i vincitori: essi contengono rispettivamente 14 odi Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee, 8 Istmiche. Le altre opere sono note solo da numerosi frammenti in cui appaiono grandiose descrizioni del mondo divino, racconti mitici, solenni enunciati etici e anche tratti di arguta grazia e voci d’amore. L’epinicio di Pindaro si articola secondo tre linee tematiche svolte con grande varietà di motivi: l’elogio, che contiene un succinto riferimento al vincitore e all’occasione sportiva; il mito, collegato sovente con la famiglia o con la patria del celebrato, che costituisce la parte di maggiore ampiezza e impegno poetico; e la gnome, ossia l’enunciazione di sentenze religiose e morali. Enzo Mandruzzato ci restituisce con la sua traduzione un “Pindaro arcaico” in tutta la sua lontananza: considerato per tutta l’antichità di gran lunga il maggiore dei lirici, come diceva Quintiliano, parrebbe infatti inassimilabile al mondo moderno. Eppure il soggiorno nel suo mondo arcaico – è la tesi del saggio introduttivo – non è meno attraente di quelle civiltà lontane che proprio oggi si cerca di conoscere e di non lasciar perire. Ma con la luce del mondo greco, l’energia dell’intelligenza e il gusto del gratuito, che sono il seme di tutte le conquiste della civiltà occidentale.
“Questo non è l’ennesimo libro divulgativo
sul contenuto o la storia delle teorie fisiche
einsteiniane: di libri del genere esistono
in commercio svariati buoni esempi tanto
in inglese quanto in italiano. Il nucleo più
importante del libro che avete tra le mani
vuole essere filosofico: nella misura in cui
riflessione filosofica e indagine scientifica
creano un fecondo cortocircuito speculativo
– e il caso di Einstein è da questo punto
di vista emblematico – esse contribuiscono
alla costruzione di un’immagine coerente
e concettualmente ‘robusta’ del mondo fisico.”
Il volume si concentra sulle riflessioni filosofiche ed epistemologiche del pensiero scientifico di Einstein e si propone di mostrare come tali dimensioni, spesso trascurate o sottovalutate, rappresentino un contributo profondo alla filosofia della scienza del Novecento e svolgano un ruolo strutturale nell’architettura concettuale dell’opera scientifica stessa di Einstein. Ne emergono la vitalità e l’attualità delle riflessioni epistemologiche einsteiniane per le discussioni contemporanee sulla natura e il ruolo delle teorie scientifiche, nonché su grandi questioni di fondamenti della fisica. Particolare attenzione è dedicata alle implicazioni del pensiero filosofico ed epistemologico scientifico di Einstein per il campo dei fondamenti della meccanica quantistica, nel quale – nonostante i luoghi comuni – la fecondità delle posizioni di Einstein appare incomparabilmente superiore a quella di altri “padri fondatori” come Bohr, che pure hanno per lungo tempo oscurato le profonde intuizioni di Einstein in materia.
“Aristotele, quando seppe
che dall’inquisitore ateniese
gli era stata inferta la stessa morte
di Socrate, abbandonò Atene.
E a chi gliene chiese il motivo rispose:
‘Perché gli Ateniesi
non pecchino una seconda volta
contro la filosofia’.”
La filosofia di Giulio Cesare Vanini (Taurisano 1585 - Tolosa 1619) è probabilmente l’espressione più estrema del radicalismo della seconda decade del Seicento. Il pensatore pugliese, inizialmente frate carmelitano, rappresenta in qualche modo la coscienza filosofica in cui vengono alla luce tutti gli elementi di crisi dell’eredità umanisticorinascimentale: demolisce il mito dell’antropocentrismo, scardina i princìpi del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare i pilastri dell’aristotelismo concordistico, smantella la costruzione di un universo compatto, finito, armonizzato, avente al suo vertice Dio e la schiera delle intelligenze angeliche, stronca ogni forma di teleologismo, sfata il mito del primato dell’uomo nella scala degli esseri viventi, manda in frantumi i più consolidati princìpi dell’etica cristiana, smaschera le illusioni della magia e dell’astrologia. In positivo, teorizza un universo autonomo nella sua composizione materiale e nei suoi princìpi costitutivi di moto e di quiete e recide alla radice il rapporto della natura con Dio, poiché nega non solo l’atto creativo, ma anche l’attività assistenziale, provvidenzialistica e finalistica, di un’intelligenza sovraceleste. Gli sbocchi materialistici del pensiero di Vanini sono inevitabili: tutto si riduce a materia vivente e vivificatrice, senza gerarchizzazioni e gradi di realtà, poiché unica è la materia di cui sono composti i corpi celesti e quelli terreni fino ai più umili come lo scarabeo. La vita è l’effetto casuale della generazione spontanea e l’uomo non fa eccezione: rigorosamente radicato nel regno animale, è anch’esso una produzione spontanea della materia; il suo passato è a quattro zampe e nella sua anima non v’è traccia di un’impronta divina. Per queste idee, accusato di ateismo dal Parlamento di Tolosa, fu condannato a morte a soli 34 anni; pare che poco prima di essere giustiziato abbia esclamato: “Andiamo a morire allegramente da filosofo!”
Mi sono resa conto
che esisteva una domanda,
anzi un vero e proprio bisogno, sì,
che a volte la gente
ha bisogno di un po’ di respiro,
ossia di un po’ di sogno.
Delphine sa che le persone hanno bisogno di illusioni, perfino di bugie, purché rendano la vita migliore. Lo ha capito quando ha incontrato l’anziana signora Derovitski che, dando da leggere alla giovane e povera ma già scaltra Delphine avvincenti romanzi rosa, la educa alla difficile arte della finzione. Così, quando madame Derovitski muore, lasciandole una cospicua eredità, Delphine, trentacinque anni, decide di fare della sua capacità di ascolto dei bisogni altrui una professione. Apre così una agenzia dei desideri, dal nome inequivocabile: “Per voi”. Nell’agenzia “Per voi” Delphine mette pienamente a frutto il suo senso degli affari e la sua capacità di finzione appresi dai romanzi rosa della signora Derovitski. La giovane vende felicità a chi la chiede: si finge di volta in volta madre, amante, badante. Offre a tutti la realizzazione di un sogno. Ma un sogno a tempo. E a pagamento. In una galleria di personaggi, vicende e desideri bizzarri da cui la nostra protagonista riesce a sgusciare fuori con l’abilità di un gatto, Delphine incontrerà un solo nemico capace di minare il suo cinismo: l’amore, che si offrirà a lei, proprio a lei che non ne ha mai avuto, senza volere nulla in cambio. Un romanzo divertente e commovente; una favola moderna che ha conquistato i lettori e che i librai francesi hanno decretato miglior romanzo del 2009.
“Ricordi come cercavi di trattenermi?
Ritenevi che si debba restare là dove si è stati messi.
Può anche darsi che tu abbia ragione,
ma ho la certezza che il mio posto sia proprio in Israele,
e la dimostrazione è che fin dal primo minuto
di questo viaggio tutto mi è stato propizio.
Uno lo sente, se va contro la provvidenza o se, invece,
segue la propria vocazione.”
Non poteva che essere una grande scrittrice russa, già direttrice letteraria del Teatro Ebraico di Mosca, a narrare la tragica ma anche avventurosa e mistica vicenda – ispirata a una storia vera – di Daniel Stein, l’eroe di questo romanzo fatto di decine di testimonianze diverse: lettere, interviste, diari, articoli di giornale, atti giudiziari, dai quali i vari personaggi si affacciano per far udire la propria voce, la propria “verità”. E la figura di Daniel Stein, il ragazzo ebreo che lavorando come traduttore per la Gestapo riesce a far fuggire trecento ebrei dal ghetto di Emsk, s’impone su tutte. Il suo è lo stesso dono delle lingue che fu fatto agli apostoli nella Pentecoste, è la capacità di mettere in comunicazione gli uomini e le culture. Lo confermano le tappe del suo cammino: l’arresto, una fuga avventurosa, l’attività fra i partigiani, l’approdo in un convento femminile, la conversione al cattolicesimo, la scelta di diventare frate carmelitano e infine, dopo la conclusione della guerra, il trasferimento in Israele. Qui, a Haifa, Stein fonda una comunità ispirata alla primissima chiesa, la “chiesa di Giacomo”, dove la messa si celebra in ebraico e si tenta una sintesi di ebraismo e cristianesimo. Ma al di là dei fatti, è il magnetismo di Stein a tenere insieme questo puzzle narrativo, un’avvincente polifonia di storie che si dispiegano fra l’Europa orientale dell’Olocausto e l’Israele del dopoguerra, la terra dove, come dice un personaggio, “ogni vita è un romanzo”. Una vecchia comunista irriducibile, finita in un ospizio israeliano; sua figlia emigrata in America e perseguitata dal passato; una monaca dalla tormentata vita interiore; un medico salvatore di ebrei e affascinato dalla millenaria sapienza ebraica; un ex dissidente russo, diventato fanatico ultrareligioso a Hebron, che partecipa a un attentato terroristico e vede il figlio sedicenne morire suicida... Una carrellata epica nella storia vicina-lontana, sulle orme di un maestro di ecumenismo, quel Daniel Stein in cui l’autrice vede forse uno dei trentasei giusti sui quali, secondo una leggenda ebraica, si regge il mondo.
Questo libro parla della nostalgia
che si appropria di oggetti e luoghi,
parla dell’incuria che l’uomo ha per il suo destino,
parla della violenza che la tecnologia moderna
opera sui nostri luoghi e sul nostro mondo,
del silenzioso camminare in un viottolo di campagna,
di cortili abbandonati,
della pioggia che cola sui vetri.
“La nostalgia è la nostra vita”, afferma Roberto Peregalli nelle prime pagine del suo nuovo saggio. Ma ci può ancora essere nostalgia di qualcosa in questo mondo tiranneggiato da scopi da perseguire a ogni costo, da violenze legalizzate e da un eterno presente in pace con se stesso? Sì, a patto di ripensare oggetti, luoghi e persone da un altro punto di vista, quello del tempo che lascia tracce del suo passaggio per chi sa coglierle. E allora, la facciata di una casa si pone come il volto di una persona, una finestra diventa lo sguardo di un edificio, la sottile membrana fra interno ed esterno, e il colore bianco rivela la sua sacralità legata all’irrompere della luce, quella vera, non il suo doppio artificiale in quei “lego” impazziti che sono le moderne costruzioni imposte da una tecnica scriteriata. È così che il silenzio delle case, degli oggetti, dei luoghi resta “in disparte tra le pieghe del mondo senza cedere ai trucchi e alle lusinghe del progresso”. E la nostra vita può ancora essere ritessuta secondo un orizzonte alternativo di senso. Dopo averci raccontato i segreti dell’invisibile per i Greci, Peregalli ci offre un’altra riflessione narrativa, tutta giocata sul filo di una memoria in cui il passato nelle sue innumerevoli sfaccettature ammaestra il nostro presente.
Il sangue di decine di migliaia di vittime
non può riposare in pace.
Ritorna in superficie.
“Rajchman è un sopravvissuto di Treblinka. Ha visto tutto, sentito tutto, provato tutto. Ha il coraggio di deporre per la Storia. Il suo racconto è di una densità che dà i brividi. Credo di aver letto molte opere su questo stesso soggetto. E tutte sono dolorose. Alcune sollecitano dei dubbi sull’uomo, altre sul suo creatore. Quella di Rajchman, con la sua semplicità commovente, apre degli orizzonti nuovi nell’immaginario del Male.[...] Il viaggio angosciante verso l’Ignoto. L’arrivo. L’abbandono delle ultime proprietà. La separazione delle famiglie. Le urla. Il sadismo degli ‘assassini’ e la tortura umiliante delle vittime. Il sistema funziona alla perfezione. Tutto è previsto, programmato. Gli uccisori uccidono e gli ebrei muoiono. Rajchman è restato un anno a Treblinka: dal 1942 al 1943, fino alla rivolta eroica dei disperati, cui aveva partecipato. In questo lasso di tempo, nell’odore pestilenziale permanente, ha conosciuto ciò che nessuno dovrebbe vedere: lavorava lì dove le vittime, uomini, donne e bambini, andavano verso la morte. Era lui l’ultimo essere umano che le donne vedevano prima di soffocare nelle camere a gas.[...] Come ha fatto Rajchamnn a vivere e sopravvivere con i morti adattandosi così velocemente a situazioni così pietrificanti? Nel giro di ventiquattro ore, è colui che taglia i capelli ai condannati. Poi quello che smista i loro vestiti, frugando nelle tasche segrete. A un certo punto si gira verso un suo compagno e dice: “Ieri, a questa stessa ora, mia sorella era ancora viva.” Poco dopo, trova il suo vestito. Ne strappa un lembo, che tiene con sé fino alla fine.”
Scritti tra il 1917 e il 1920, e ripubblicati nel 1928, i saggi che compongono Il bosco sacro costituiscono la prima fondamentale affermazione di Eliot come critico e teorico. Incentrato sul concetto di “integrità della poesia”, il volume rappresenta una vera e propria introduzione all’estetica eliotiana così come al suo mondo poetico. “La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica.” Impostato come confronto costante con l’individualità del poeta (tra gli altri, Swinburne, Rostand, Ben Jonson, Dante, Blake) e come storia della poesia quale esperienza collettiva, il pensiero critico di Eliot è volto a tessere le connessioni tra “senso storico” e “esistenza simultanea della letteratura”. Punto di partenza per tutta la successiva produzione, Il bosco sacro è un testo fondamentale per conoscere l’opera di Eliot, ma anche una prova sorprendente del fascino della sua prosa.