
Scritto all'età di ventotto anni, "L'io diviso", originariamente concepito come il primo di una serie di studi di psicologia e di psichiatria esistenziale che non avrebbe in realtà avuto seguito, rimane, oltre che la più nota, l'opera più originale, profonda ed equilibrata di Ronald Laing. L'analisi della lacerazione interiore che caratterizza l'io diviso dello schizofrenico si colloca a buon diritto tra le pagine esemplari della tradizione fenomenologico-esistenziale in psichiatria, facendo dell'Io diviso, al di là del contesto storico e politico in cui è nato e si è diffuso, un vero e proprio classico del pensiero psichiatrico. Nella sua opera d'esordio, infatti, il giovane psichiatra scozzese riesce a dire qualcosa di accessibile e comprensibile sull'incomprensibilità schizofrenica, portando il mondo della psicosi a contatto con emozioni e stati mentali nei quali è possibile riconoscersi. Tramite il ricorso a un linguaggio vicino all'esperienza, le pagine di Laing non lasciano nella mente del lettore la rappresentazione di un mondo inerte, congelato dalla follia, ma piuttosto quella di un mondo in evoluzione nel quale la psicosi schizofrenica rappresenta una possibile, ma non necessaria, evoluzione del rapporto che un individuo ontologicamente insicuro è riuscito a stabilire con se stesso. Prefazione di Mario Rossi Monti.
Se è vero che ci sono libri, anche di enorme valore, che in breve tempo si cristallizzano in una posizione indiscutibile e tutto sommato fissa, come grandi luci sul viale della Storia, è pur vero che ce ne sono altri più a lungo renitenti a ogni esatta definizione critica, più a lungo dialoganti con l'inquietudine di nuovi, più giovani e più ignari lettori. La luce di questi libri è mutevole, più difficile da reggere, più lancinante e ingannevole. È una luce in cammino, che ancora non è stata interamente decifrata e addomesticata, e che per questo ci attrae, selvaggia e insinuante. È a questa famiglia di opere che appartiene forse Stella variabile, libro dolorosamente conclusivo, eppure anche fiduciosamente aperto verso un futuro che ancora non è del tutto maturato, e verso il quale ci invita a camminare.
I protagonisti di una civiltà letteraria, anche i più originali, non vivono mai isolati. Sono maestri o allievi, sono intellettuali in competizione fra loro o solidali nella lotta per una certa idea di letteratura e, magari, di società. Nessuna isola è un'isola, ogni scrittore è riconducibile a un mondo.
Le mappe, i grafici e i racconti che compongono questo Atlante della letteratura italiana individuano, attraverso la geografia, le trame della nostra cultura letteraria, e strada per strada, città dopo città, collocano nel posto preciso del tempo e dello spazio tutto quanto contava nel paesaggio sociale e mentale di scrittori e intellettuali.
«Pensata nello spazio oltreché nel tempo, la storia della letteratura italiana assume un profilo estremamente mosso, che restituisce tutto il loro rilievo alle presunte periferie di un'Italia troppo a lungo disegnata intorno a un unico asse toscano. Ne emerge un dato evidente e mai messo a fuoco con tanta nettezza, anche se da tempo risaputo: l'Italia letteraria ha conosciuto, dal Duecento all'Ottocento, una geografia policentrica, come non è avvenuto per nessun altro paese europeo; ha ruotato, spesso e lungamente, intorno a città diverse da Firenze o da Roma, o addirittura esterne ai confini della penisola, com'era l'Avignone trecentesca dei papi. Si può dire che fino allo spartiacque del 1860-61, cioè fino alle sorprendenti e quasi mirabolanti vicende che propiziarono l'Unità, la civiltà italiana abbia vissuto al ritmo di una singolare alternanza tra città-perno: capitali in pectore di Italie probabili o improbabili, possibili o impossibili, capitali letterarie elettive che l'Atlante identifica, illustra, e alle quali intesta un'età della nostra storia».
Comitato scientifico: Mauro Bersani, Amedeo De Vincentiis, Erminia Irace, Michele Luzzatto, Sergio Luzzatto, Gabriele Pedullà, Domenico Scarpa
«Asiano» indubitabilmente per origine, ma fieramente atticista, Dionigi di Alicarnasso è stato al centro del dibattito intellettuale nella Roma dell'ultimo trentennio prima dell'era cristiana.
Fu poi riscoperto dagli umanisti alla fine del xv secolo e da allora ha continuato per lungo tempo a essere una figura decisiva per il suo immaginario narrativo (e figurativo) riguardante la storia e le leggende dell'antica Roma, e per le sue comparazioni dell'organizzazione statuale tra Greci e Romani, divenute argomento di dibattito fra tutti i maggiori teorici della politica nell'Europa moderna. Tutto questo fino all'Ottocento, quando la fortuna di Dionigi è crollata per ragioni soprattutto ideologiche: un greco che esalta la grandezza di Roma non poteva essere ben visto dalle culture nazionali e risorgimentali europee.
Da qualche anno è in atto una vera e propria renaissance degli studi su Dionigi: da una parte le sue opere retoriche sono state rimesse al centro del pensiero estetico antico; da un'altra le Antichità romane sono diventate una fonte indispensabile per i nuovi studi sulla mitologia latina; da un'altra ancora le stesse Antichità sono state individuate come fonte precisa di Machiavelli, che commentava Livio ma aveva anche Dionigi (tradotto in latino) sul suo tavolo. E dopo Machiavelli tutti i grandi scrittori di politica, da Bodin a Montesquieu, hanno preso spunto da lui per importanti discussioni.
Riproporre le Antichità romane oggi, in una nuova traduzione, significa voler dare un'accelerazione a questo recupero di Dionigi nella storia della cultura, sottolineando come quest'opera abbia segnato a vari livelli la nascita della modernità europea. E significa anche offrire al lettore la possibilità di leggere nuovamente, con un punto di vista e uno stile diversi da quello di Livio, le storie e i personaggi indimenticabili, da Lucrezia a Coriolano e a tanti altri, che hanno costruito il mito della Roma dei primi secoli.
«Sara se n'è andata via il giorno in cui è finita la scuola. L'estate si è spalancata all'improvviso: ha inghiottito i miei bambini tutti insieme, ha svuotato la mia casa e io sono rimasto lì, una macchina sul ciglio di un burrone».
Ogni sera Pietro si china sulla pancia di Sara per sapere se dentro c'è qualcosa che nasce, e ogni sera lei, toccandosi il ventre, aspetta di poter dare un nome al loro futuro insieme. Ma la speranza rimane un'attesa, e l'attesa spacca tutto come una crepa nel muro. Fino a quando ogni cosa si sfalda e sul tavolo della cucina resta soltanto un foglio, o meglio una bomba che si prepara a esplodere. «Telefonato tua madre, è morto Mario». E poco sotto una domanda scritta di fretta: «Mario?» Mario è il nonno di Pietro, ma più che un parente è lo scheletro nell'armadio di una famiglia e di un paese intero. Tornato folle dalla campagna di Russia, vissuto dentro una clinica eppure morto per tutti, per lui la guerra non è mai finita. Ora fa la sua comparsa morendo per davvero, come un fantasma molto terreno che ha lasciato troppe domande dietro di sé.
L'estate si apre quel giorno con un duplice addio, spalancata come una casa vuota e piena di strade possibili. La prima è un viaggio a ritroso, con in tasca il peso di un segreto che Pietro e Sara si sono nascosti tanto a lungo da non poterlo dimenticare.
La seconda è un viaggio sul Don, carico di tutte le storie che Mario non ha mai raccontato: un percorso lungo quasi settant'anni, alla ricerca vana di una Russia che non c'è più, come provare a tuffarsi nelle acque del 1943.
Sono i ricordi degli altri che dentro di noi non trovano appiglio, come promesse tradite dal tempo. Con una scrittura tesa e tersa fino alla poesia, Andrea Bajani ci racconta la responsabilità e la difficoltà di ricordare. La memoria è una trama forata, i fili si slacciano e si disperdono nell'ordito di una realtà vissuta al presente.
Ma è proprio lì, tra le omissioni e le mancanze, che forse si annida un senso. Lungo quelle strade deviate, dove si affacciano risposte impreviste a domande mal poste.
«La Cecenia è come il 1937, il 1938, - mi dichiara nel suo piccolo ufficio moscovita un dirigente di Memorial -. Si sta portando a termine un grande piano edilizio, si assegnano alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, spettacoli, concerti, tutto sembra normale e... di notte la gente scompare».
Una mattina di settembre, poco dopo aver concluso la prima stesura di questo libro, Jonathan Littell riceve una mail: Natal'ja Estemirova, una delle principali attiviste per i diritti umani a Groznyi, è stata sequestrata.
La Estemirova è nota in tutto il mondo per le sue inchieste sui casi di sparizioni, torture ed esecuzioni extragiudiziarie che ogni giorno contribuiscono a mantenere la Cecenia in un clima di costante terrore. La sua visibilità, così si credeva, l'avrebbe tenuta al sicuro: la stessa cosa si diceva anche della sua amica Anna Politkovskaja. La sera di quello stesso giorno il cadavere di Natal'ja viene rinvenuto in un bosco alla frontiera con l'Inguscezia, crivellato di colpi.
La notizia getta una nuova luce sulle due settimane trascorse nel Caucaso da Littell, costringendolo di fatto a riscrivere il reportage del suo soggiorno alla corte del presidente Ramzan Kadyrov nell'anno terzo del suo governo.
Littell è già stato in Cecenia, durante le due guerre, in missione per alcune organizzazioni umanitarie e ha sempre mantenuto stretti contatti con il paese: ricorda bene, pertanto, i giorni in cui la vita di un ceceno non valeva un copeco. Così, se all'inizio pensava di porre l'accento sul ritorno, difficile ma percepibile, alla normalità, l'assassinio della Estemirova lo mette di fronte all'illusorietà di tale pacificazione.
La «cecenizzazione», cioè la decisione presa da Vladimir Putin nel 2002 di insediare nel paese un forte potere filorusso, composto principalmente da ex separatisti, nell'indagine di Littell si svela essere il nome presentabile di un sistema che ha fatto della corruzione più sfrenata, dell'islamizzazione a oltranza, della cooptazione forzata dei ribelli, della tortura e dell'omicidio, gli strumenti quotidiani per il controllo del territorio.
Che cosa è stato il sacco di Roma compiuto nel 1527 dai lanzichenecchi e dalle altre truppe dell'imperatore Carlo V? La storiografia lo ha spesso descritto come un evento traumatico per la storia di Roma e della penisola italiana, ma non come una vera e propria frattura, in diversi casi un semplice riferimento cronologico utile, al piú, a scandire i tempi della periodizzazione storica. Con questo libro Chastel si contrappose polemicamente a tale orientamento e riaffermò con forza, arricchendola di nuovi contenuti, l'interpretazione del sacco come frattura, data dai grandi storici del passato: da Guicciardini a Burckhardt. Una frattura che non risparmiò gli equilibri politici e sociali di Roma, ma si ripercosse soprattutto sulle tradizioni, sui costumi, sull'immagine e sulla spiritualità della capitale del mondo cristiano, spezzando letteralmente in due il corso della vita romana.
Da dove sto chiamando, l'«autoantologia» voluta da Carver nel 1988, poco prima della morte, presenta nella versione scelta e curata dall'autore racconti appartenenti a tutto l'arco della sua produzione, da quelli del libro d'esordio Vuoi star zitta per favore? ai sette «nuovi racconti» di Elephant. Permette così al lettore di scorgere forse nel modo più compiuto possibile gli orizzonti narrativi che si richiamano da un punto all'altro dell'ormai leggendaria «Carver Country».
C'è ovviamente la coppia (o meglio, forse, gli individui che la compongono), fotografata nei suoi vari istanti, sovente nelle diverse fasi di una crisi: nell'attimo in cui qualcosa si rompe definitivamente, come in I chilometri sono effettivi; nel momento stesso di una separazione annunciata da una lettera dalla calligrafia «irriconoscibile», come in Pasticcio di merli; nel dopo della solitudine, come in Febbre, dove forse basterebbe una baby sitter come si deve per sperare di rimettere insieme i cocci di una famiglia. Le donne e gli uomini carveriani si trovano di fronte, all'improvviso e forse quasi senza accorgersene, alla resa dei conti con il sogno americano di provincia - disfattosi tra bottiglie, traslochi, debiti - e al tempo stesso solo sfiorati da quel che di rivoluzionario e avventuroso sembra accadere in posti come San Francisco o l'Alaska. Oppure a raggiungerli è un'eco di violenza: quella del reduce nero di Vitamine, che come amuleto porta con sé l'orecchio rinsecchito di un vietcong, l'esplosione di aggressività repressa di un padre mite in Biciclette, muscoli, sigarette o l'ottusità inquietante del protagonista di Con tanta di quell'acqua a due passi da casa. O ancora, è l'alcol a scandire le giornate, le ore, i minuti di molti di loro, in racconti come Un'altra cosa, Attenti, Da dove sto chiamando. Proprio un centro di recupero per alcolizzati fa da sfondo al racconto che dà il titolo alla raccolta, dove, nella storia dello spazzacamino J. P. e della moglie Roxy, con l'ombra di Jack London a fare da monito, il protagonista intravede una possibilità di cambiare qualcosa, fosse anche solo chiamare la moglie per farle gli auguri per l'anno nuovo. O telefonare alla sua ragazza per dirle, semplicemente: «Ciao tesoro, sono io».
Il 150° anniversario della nazione non dovrebbe essere solo l'occasione per sventolare bandiere tricolori o indulgere nella retorica: richiede invece un ripensamento profondo sulla storia d'Italia e sul contributo del Paese al futuro del mondo moderno. A tal fine si rivisitano le grandi figure del Risorgimento (da Cattaneo a Cavour, da Manin a Pisacane, da Mazzini a Garibaldi) cosí che le loro riflessioni si mescolano in presa diretta alle nostre. Per «salvare» l'Italia, Paul Ginsborg fa affidamento su alcuni elementi fragili ma costanti presenti nel nostro passato: l'esperienza dell'autogoverno urbano, l'europeismo, le aspirazioni egualitarie e l'ideale della mitezza. Fondamenti dotati della carica utopica necessaria per creare una patria diversa.
La storia di Tönle Bintarn, contadino veneto, pastore, contrabbandiere ed eterno fuggiasco è l'odissea di un uomo che tra la fine dell'Ottocento e la Grande Guerra rimane coinvolto nei grandi eventi della Storia e combatte una battaglia solitaria per la sopravvivenza.
L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra.
A concludere la Trilogia dell'Altipiano, Le stagioni di Giacomo: in una contrada uscita stremata dalla Grande Guerra, un giovane cerca di sopravvivere facendo tanti mestieri, per ultimo il recuperante.
Nel silenzio dei monti, alla ricerca di residuati bellici, Giacomo impara a conoscere la natura e a decifrarne il linguaggio segreto.
Con uno stile secco e incisivo, una leggerezza e un ritmo davvero unici, in questi tre romanzi composti in tempi diversi eppure legati fra loro da nessi molto forti, Rigoni Stern ci restituisce un mondo di memorie ancora integro, dando voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici, testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.